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All We Need Is Love, prima o poi

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E quindi questa storia che la pioggia è tristezza e malinconia è per colpa dell’arca di Noè? Sono stati salvati tutti gli animali, o no? Una crociera con il mare mosso come per il Titanic ma senza gli iceberg e Di Caprio. Non credo nemmeno fosse per colpa di My heart will go on…

FORSE

Questa storia racconta qualcosa che possono fare solo le donne, che io sappia. È vero anche che i tempi cambiano velocemente e oggi come oggi non si può mai dire. E a volte cambiano così rapidamente i tempi, che siamo portati a pensare che tutta questa velocità ci abbia fatto commettere degli errori. A volte, non tutto sembra essere al posto giusto, o come ce lo aspettiamo, o ce lo siamo sempre immaginato. D’altro canto, dobbiamo stare molto attenti a giudicare, perché il punto di vista determina la prospettiva e le sue riflessioni, le rotazioni, e anche le traslazioni, e queste le possiamo definire tutte trasformazioni affini, che fanno parte dello stesso sottoinsieme. E a volte non preservano angoli e distanze, ma mantengono un certo parallelismo. In ogni caso e, più semplicemente, sono sicuro quasi al cento per cento, che questa è una storia di donne e interessa sicuramente più loro che altri (intendo altri sessi).

A riprova di quanto affermo, facendo una breve indagine degli ultimi duemila anni, posso asserire con totale certezza che almeno nel novanta per cento dei casi è così. Questa storia è da donne.

Anche un pochino da gay, se vogliamo considerare il restante dieci per cento, ma non sbaglio di sicuro quando dico “da donne”.

E forse, allora, non avrei dovuto scriverla, questa storia.

Infatti, io non sono, ovviamente, una donna, ma neanche un omosessuale.

Voglio però precisare di non aver nulla contro chi rivolge la propria attenzione sessuale verso il suo stesso sesso – perché la cosa più importante, a mio modo di vedere, è l’amore – però ci tengo moltissimo a dire che non mi piacciono gli uomini.

Cioè, i belli piacciono anche a me, nessuno, nemmeno gli uomini eterosessuali possono negare che Paul Newman o Robert Redford fossero belli, perché se uno è bello è bello, e non puoi dire il contrario. È come guardare un quadro di Hopper o ascoltare una canzone dei Beatles. Però non lo bacerei mai, e neanche ci farei del sesso, o lo sposerei, un uomo. Ma nemmeno con un quadro ci farei sesso – e soprattutto di Hopper –, perché probabilmente verrei picchiato da qualche addetto del museo o da qualcun altro, come me, che ama molto Hopper, e poi verrei probabilmente arrestato e dovrei pagare un sacco di soldi per danni; per la canzone dei Fab Four, invece, non saprei proprio come fare… Però, potrei innamorarmi platonicamente (di un uomo).

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Ricapitolando, questa è una storia per le donne, forse per i gay, ma raccontata da un eterosessuale.

Vi sembra strano? Sì, certo, perché quella storia della grotta con la stella cometa appesa sopra, e il bue e l’asinello a fare da calorifero, lo era forse meno?

Fanculo

A chi non conosce i chilometri,

le facce sfatte, gli alberghi sporchi,

i sogni mancati, i treni persi, le ore vuote

A chi non sceglie mai,

A chi non rischia mai,

A chi non sbaglia mai,

A chi non brucia mai,

A chi non muore mai,

A chi non si perde mai,

A chi non ha mai davvero paura,

A chi è come sarei diventato io

se per un po’ di paura in meno

avessi scelto di non rischiare mai

Fanculo a chi non si lascia cadere

Lo Stato Sociale, C’eravamo tanto sbagliati, L’italia peggiore, Garrincha Dischi, 2014

E se credi di poter raccontare una storia più grande di questa giuro su Dio che devi raccontare una bugia.

Tom Waits, Swordfishtrombones, Swordfishtrombones, Island, 1983

PARTE PRIMA

LA SERA PRIMA

«Hey Rivera! Riveraaa!»

«Giovanni! Milo!!!»

«Sei diventato sordo? Non saluti più i vecchi amici?»

«Scusa, ero soprappensiero.»

«Tranquillo, ci vediamo a Kiev, vero? Speriamo che san Sheva ci porti bene. Vuoi una siga?»

«Non fumo più.»

«Anzi no, chiedi a tuo padre d’intercedere con Nereo e il Barone. Se non ascoltano lui, chi altri potrebbe farlo? Su con la vita che un posto migliore non lo si poteva trovare. Finale di Champions, vodka e zoccole ucraine per festeggiare. Sei un grande “Milo”. Forza Milan!»

We all have reasons

for moving.

I move

to keep things whole

Mark Strand, Keeping Things Whole, 197919 All We Need Is Love (prima o poi)

GIOVEDÌ, PIOGGIA!

Sta piovendo. Succede da settimane. Apro gli occhi, guardo fuori dalla finestra, e se non c’è quella luce tipica che capisci subito che sarà una giornata di sole, vuol dire che sta piovendo.

Se non ha già cominciato, succederà a breve. Giovedì: pioggia. Oggi ho deciso che forse sarebbe opportuno conoscerci meglio.

Tu non sai nemmeno chi sono io.

Effettivamente non l’ho ancora detto.

Non mi sono ancora presentato. Hai ragione.

Così però non se ne viene fuori. No, tutto questo non aiuta, e se il primo dei problemi tra gli esseri umani è l’incapacità di comunicare, miglior presentazione non potevo farmi.

Devo calmarmi. Prendere fiato. Devo essere coraggioso. E poi lo diceva anche mio padre: il coraggio è cercare di fare meglio di ieri, non dovrebbe quindi essere complicato. E allora forza! Devo solo dirti chi sono: fammi prendere fiato.

Oggi è giovedì. E sta piovendo.

P.S: Ieri è stato eccezionale…

Milo

Abbiano pazienza le donne.

Dico questo, perché forse il gioco del pallone non piace a tutti.

Long as I remember the rain been comin’ down

Clouds of mystery pourin’ confusion on the ground

Good men through the ages tryin’ to find the sun

And I wonder still I wonder who’ll stop the rain

Creedence Clearwater Revival, Who’ll Stop the Rain, Cosmo’s Factory, Fantasy Records, 197021 All We Need Is Love (prima o poi)

MILO

Mi chiamo Giovanni Rivera, per gli amici “Milo”.

Mio padre si chiamava Valentino, come il cognome di Rodolfo e il nome del padre di Sandro Mazzola. Il padre di mio padre, evidentemente mio nonno, non amava il calcio e nemmeno il cinema. Lavorava, lavorava e ancora lavorava, e votava PCI.

Amava il buon vino, che una volta, così diceva, si poteva comprare senza spendere molto – prima che padroni e fascisti se ne appropriassero e lo facessero diventare una moda – e diventava pazzo, peggio di un ultrà, per il ciclismo. Di cognome, come avrete capito, faceva Rivera. Mio padre invece, sarà stato per ribellione, ma non credo, non era il tipo, o forse, solo perché particolarmente dotato in quello sport, era un appassionato fanatico del “gioco del pallone”, come lo chiamava lui. Adorava il Gianni che considerava superiore a Dio, e d’altronde venendo da una famiglia di comunisti non poteva essere altrimenti, perché, diceva, pensava più veloce della luce e ogni volta che toccava la palla, il mondo diventava un posto migliore.

Quando sono nato, unico figlio maschio di una nidiata di tre, mio padre decise che dovevo chiamarmi “quasi” come “il Gianni”. Quasi, diceva, per una questione di rispetto: non potevo certo chiamarmi allo stesso modo di Nostro Signore Gianni Rivera, numero dieci del Milan. Decise, quindi, per Giovanni, non sapendo, o forse sì, e facendo finta di niente, che il Gianni, all’anagrafe, faceva proprio Giovanni. Nella sua testa, io nel futuro – che avrebbe dovuto essere di calciatore, naturalmente – avrei dovuto avere la classe di Rivera e la forza e la dedizione di Giovanni Lodetti. Altro giocatore di un Milan leggendario.

Mediano di corsa e fedeltà assoluta.

E così iniziai la trafila che tocca a ogni ragazzino che sogna di diventare calciatore. Prima i palleggi in giardino contro il muro di mattoni storti, un po’ di destro e un po’ di sinistro, perché, diceva mio padre, così gli aveva detto il Barone, e il Barone non si poteva contraddire, era tipo san Giuseppe e la Madonna insieme nel suo particolare immaginario calcistico/religioso: e cioè, classificato molto alto. Poi, le sfide in strada infinite, l’oratorio e le battaglie sulla terra e i sassi – che se sbagliavi scarpe, non potevi camminare per due settimane – e infine il provino per la grande squadra. E il sogno che diventava realtà: il ragazzo che di nome e cognome faceva come “il Gianni” era, a dire di molti, addirittura meglio.

Calciatore moderno, univa classe a potenza. Il sogno realizzato anche per mio padre. La rivincita su quella gamba rotta – per l’unica volta che mise gli sci per andare a festeggiare con gli amici la patente di guida – che gli fece rescindere un contratto da professionista, come portiere, già firmato.

Cosa potevamo chiedere di più: la famiglia Rivera B (la A era quella dell’originale) era al settimo cielo. Meglio di così non poteva andare; e infatti andò tutto bene fino ai tre giorni per il servizio militare. Con una testata spaccai il naso a un caporale dell’esercito. Quella puzzolente merda impediva a un ragazzo con evidenti problemi cognitivi di andare al bagno e lo derideva mentre si pisciava nei pantaloni. Mi spedirono in Friuli lontano da Dio, dalla mia famiglia e dal mio benessere mentale.

Non ci volevo stare lassù, in quel posto che sembrava l’inferno in inverno, e mi feci riformare o almeno ci provai. Al capitano medico dissi, nell’ordine: che non mi piacevano le armi, che ero un pacifista – che anche le mosche faticavo a ucciderle, ché se nostro Signore le aveva create, c’era un motivo – dissi anche che mi mancava la mamma, senza faticavo ad addormentarmi, e il sapone che ci veniva elargito dal Minuto Mantenimento, della caserma, mi seccava la pelle. Tutto questo mi aveva procurato seri problemi di relazione, e anche il rischio di qualche schiaffone, a causa di un atteggiamento troppo sensibile (per i più) che mi portava a piangere di tutto e con tutti.

L’ospedale militare mi mandò da uno psichiatra per constatare e convalidare la mia bizzarra ipotesi di depressione. Quando questo demente disse che il problema era riconducibile all’odio nei confronti di mio padre, gli spaccai in due il cristallo di una bellissima e sicuramente costosa scrivania, utilizzando una palla di bronzo che fungeva da ferma carte e sembrava un vecchio pallone, destino beffardo, di quelli marroni con le cuciture grosse a vista, tipo il Federale 102 degli anni Trenta.

Per non farmi mancare nulla, uscendo lo minacciai.

«Parecchio» mi disse ridendo l’ufficiale di servizio al distretto. Venni rispedito al corpo, lassù, al freddo e al niente. Nel giro di otto mesi aumentai venti chili. Mangiavo anche l’aria, diceva mia madre. Finito quell’anno a difendere il confine della mia sanità mentale dagli aggressivi fantasmi dei miei inutili principi, contro quella che sentivo un’ingiustizia, ero diventato un grassone che si muoveva alla velocità di una tartaruga: molle nei muscoli e soprattutto con le vescicole sinaptiche riempite a Cordiale. Signori e signori, ogni sera, dal confine italiano si neurotrasmetteva l’atleta perfetto, oltre che moderno.

E così, mandai tutto a puttane, definitivamente.

Mia madre diceva che avrei dovuto essere più comprensivo nei confronti degli altri; che tutti hanno problemi, che nessuno guardava me, che nemmeno mi pensavano gli altri, e soprattutto, che nessuno ce l’aveva con il sottoscritto: se era andata com’era andata, voleva dire che quello era il mio percorso, che era il disegno che Dio aveva in serbo per me… e tutta quella valanga di minchiate.

No, era andata così perché ero un coglione: ma in quel momento pensavo che tutti ce l’avessero con me, Dio compreso. E per me Dio erano il Gianni e mio padre. La verità è che non mi sentivo all’altezza di niente e nessuno. E tutte quelle aspettative erano un macigno da portare sulle spalle.

Mio padre mi guardava. Sembrava sempre volesse dire qualcosa, farmi una carezza, forse, ma poi niente. Quando tornava a casa mi parlava del campetto, dei ragazzini che allenava e miglioravano, che gli faceva fare il muro… non lo potevo soffrire, non lo volevo sentire, mi faceva così incazzare. Mia madre, invece, mi baciava sulla testa e diceva: «Quando avrai un figlio anche tu, riuscirai a capirlo. Non smettere mai di amarlo o ti mancherà».

Di solito uscivo, me ne andavo. Giravo tutta la notte, a zonzo. Come un tossico alla ricerca della roba, io cercavo la mia dose di risposte. Puttane, travestiti, fattoni di tutte le specie e naturalmente ubriaconi erano i miei professori, di quella che più avanti negli anni, in vecchiaia – se ci arrivi con il fegato intatto, senza malattie varie e vivo – la definisci l’università della strada: la migliore, forse.

I’m gonna run and find

A place where I can hide

Somewhere that no one knows

Someplace that no one goes

So don’t you look for me

I’ll be where you can’t see

Somewhere I can’t be found

My little underground

Jesus & Mary Chain, My little Underground, Psychocandy, Blanco Y Negro, 1985

03 settembre 2018

La Lettura

Su La Lettura una bella segnalazione da parte della giornalista Jessica Chia di All we need is love (prima o poi), il nuovo libro di Paolo Re. La Lettura All we need is love
02 Agosto 2017
Paolo Re, autore di All you need is love - prima o poi dedica a tutti i suoi sostenitori questo breve video! Grazie a voi, al raggiungimento dell'obiettivo, un progetto pieno di potenziale diventerà uno splendido libro!

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Paolo Re
Paolo Re - 1968 Milano/Auckland/?

Autore, produttore, arrangiatore e scrittore: ha scritto canzoni e colonne sonore per progetti nazionali e internazionali (sette gli album pubblicati) Collabora con creativi e artisti a tutte le latitudini. Una notte ha deciso che doveva trasferirsi in Nuova Zelanda con tutta la famiglia, cane e gatto compresi, l'ha fatto, e da quest'avventura è nato My Family Goes To Auckland, il libro, pubblicato da Fazi Editore. È Contributor di Vanity Fair, ma non solo. Scrive talvolta musica, qualche volta storie e scatta fotografie con tutto quello che ha a portata di mano tra Auckland e Milano. Beatles, Shakespeare, il Milan di Rocco-Rivera-Lodetti, ma anche quello di Van Basten, Gullit e Colombo e naturalmente la pizza: solo pensare a una di queste cose lo rende felice.
All We Need is Love, prima o poi è il suo secondo libro.
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