Era uno che si adoperava a star male di continuo: se non era il raffreddore che lo colpiva ad ogni cambio di stagione era il mal di stomaco perché aveva mangiato troppo; se qualcuno inavvertitamente lo urtava diceva che gli aveva lussato una spalla e ad ogni giro d’aria si lamentava per la cervicale.
Quel giorno lo vidi arrivare con una fasciatura fino all’omero, se l’era fatta fare da suo fratello, che aveva seguito alcune lezioni di primo soccorso in azienda, perché si era slogato il pollice della mano destra.
“Ti si riflette sulla gamba?”, gli chiesi vedendolo zoppicare.
Mi rispose con la solita aria svagata: “Cosa?”
“La slogatura del pollice, intendo. Vedo che stai zoppicando.”
Alfio, così si chiama quel mio amico, è spesso vittima del sarcasmo dei più malevoli e qualche volta mi fa anche pena ma quel giorno le cose erano andate storte anche a me e non ero ben disposto nei suoi confronti.
“Ma non si chiama alluce?”, ribatté senza cogliere l’ironia della domanda.
“Pensavo che la slogatura del pollice della mano ti si ripercuotesse sul piede dato che cammini in quel modo”, tentai di spiegare.
“Ah!”, fece lui senza aver ancora capito la battuta, “Certo, l’altro è quello del piede…”
“E come è stato?”
“Doloroso.”
“Lo immagino ma come te lo sei slogato?”. Cercai di dimostrarmi premuroso per smussare il mio sarcasmo. Ma anche questo non fu capito. Mi saltò su con un’osservazione poco pertinente: “Non sopporto quando ci si riferisce alle parti del corpo in modo impreciso, e non è solo una questione lessicale. Un alluce non è un pollice.”
Mi infastidì quell’allusione al fraintendimento che solo lui aveva creato e per il quale adesso mi prendevo dell’ignorante. Per vendicarmi rincarai la dose senza mezze misure: “Ma è mai possibile che capitino tutte a te?”
“Purtroppo”, mi rispose tornando piagnucoloso, “ma non me le vado mica a cercare, sai?”
“Ah, lo immagino, ma sta di fatto che se non è un giorno è un altro e tu sei sempre infortunato.” E la cosa per me poteva finire lì, non mi interessava sapere perché era entrato zoppicando, né come si era slogato quel pollice ma Alfio, toccato nella cosa che aveva più cara, il senso del dolore, mi rispose in malo modo, cosa che di solito non faceva. Mi prese una gran rabbia perché non me lo sarei mai aspettato da lui e lo mandai a quel paese. Incominciò a battere i pugni sul tavolo – mi pare di non averlo ancora detto ma tutto accadde nel solito bar in cui alla sera, dopo il lavoro, ci ritroviamo tra amici -. Fece il finimondo: urlando proclamava il suo dolore, accusava me e anche
quelli che per caso si trovavano nel locale di non credergli, di non considerare la sua pena. Continuava a ripetere che era stato proprio un caso che quel tizio passasse e lo urtasse mentre lui teneva la mano sul fianco, proprio così, con il pollice appoggiato sulla parte dietro e le altre quattro dita davanti, e mimava con l’altro braccio la posizione, si accaniva a ripetere il gesto girandomi intorno con saltelli veloci – non più zoppo ma perfettamente in forma – si fermava, mi fissava negli occhi e di nuovo ripeteva il gesto: “Così, così, lo vedi? La mano la tenevo così.”
Ne avevo veramente abbastanza delle sue mosse isteriche e stavo per andarmene lasciandolo a zampettare per il locale. Qualcuno disposto ad assecondarlo per un poco l’avrebbe trovato e io me ne sarei liberato. In quel momento entrarono due dei soliti amici; invece di calmarsi Alfio incominciò ad inveire anche contro di loro. Ma quelli sono due tipi che non se le mandano a dire, forse quel giorno anche a loro le cose erano andate storte e senza dire né a né ba gli si avventarono contro. Insomma, a farla breve, si dovette lavorare parecchio per fermarli perché quelli erano in due e anche piuttosto robusti. Alfio si agitava nervoso, tirava calci e pugni dappertutto ma con il suo fisico non poteva competere. Il risultato fu che anche l’altro suo pollice si lussò, ebbe tre punti sul sopracciglio sinistro e due costole fratturate.
Lo andammo a trovare all’ospedale con i due energumeni, che nel frattempo si erano anche pentiti della reazione spropositata e provavano una certa pena per lui anche perché Alfio non sporse denuncia e tutto fu messo a tacere. Lo trovammo a letto circondato da flaconi, deflussori, carrucole e altri strumenti ospedalieri. Fu insolitamente ciarliero soprattutto con quei due, anzi solo con quei due, a me quasi non rivolse parola. Mi dimostrai piccato ma lui non fece caso a me, era felice così. Finalmente qualcuno lo aveva preso sul serio e adesso era ammalato davvero.
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