«Pietro! Pietro!»
«Sì, arrivooo!»
Pietro getta a terra la siringa di vetro, presa in un cassetto del comò della nonna dove era riposta assieme alla scatolina di stagno per la bollitura e prende a correre. Negli anni di là da venire avrebbe imparato a maneggiare bene anche la siringa di metallo, usata quotidianamente da dentista per anestetizzare la bocca dei suoi pazienti.
La via era segnata? Un segno del destino?
Ci si era messa anche nonna Maria a spingerlo verso quella professione che avrebbe voluto per il figlio, suo unico maschio, morto a quattro anni di febbre perniciosa.
La malaria uccide più della guerra, gli aveva detto una volta.
Questa piana, compresa tra i monti Ausoni e Aurunci disposti ad anfiteatro alle spalle e il mare davanti, fu paludosa in momenti alterni della sua storia. In epoca imperiale e repubblicana qui sorgevano sontuose ville romane, a riprova della salubrità del sud pontino in quel periodo.
I Romani, che erano riusciti a strappare alle paludi altri terreni, oltre a quelli prosciugati dai Volsci grazie a una rete di cunicoli di drenaggio, costruirono la via Appia, proteggendola con un canale di scolo parallelo.
La bonifica definitiva della pianura pontina si realizzò in epoca moderna, tra i primi anni Venti e la seconda metà dei Trenta.
Fu un’opera gigantesca che impiegò uomini giunti da ogni parte del paese. Via via i terreni bonificati vennero affidati ai coloni provenienti da regioni rurali del Veneto, Friuli ed Emilia.
«Pietrooo!»
«Arrivo, arrivooo!»
Ha fretta di arrivare, non vuole che la nonna gli urli ancora. A un tratto tutto diventa nero, Pietro inciampa su uno spuntone e con un tonfo sordo misto al crepitio di foglie si ritrova disteso con la faccia nella terra umida. In fretta si rialza, senza badare troppo alle conseguenze di quella caduta, riprende a correre verso casa, dove lo attende la nonna impaziente.
Nonna Maria è fatta così, quando lo cerca lo chiama a gran voce ripetutamente, fino a quando non lo ha davanti a sé.
«Cosa ti è successo? Hai il viso sporco di terra, vieni, ti pulisco» gli dice mentre tende il braccio verso di lui.
«Hai rotto un dente, te ne sei accorto?»
«No.»
Pietro ha due grossi incisivi centrali, luccicanti pale cui si appoggia il labbro superiore, ora a causa dell’impatto il destro ha il bordo fratturato secondo una linea non proprio orizzontale. I capelli di Pietro sono lisci, castano chiaro, raccolti in sottili cordoni che dalla fronte scendono verso le orecchie formando un arco, come le tende di un sipario quando vengono tirate indietro dal lato mediano.
Altri capelli lambiscono l’angolo della mandibola ben sagomato come pure lo è il mento.
«Vai a chiamare tuo padre, per piacere, la colazione è pronta, non salire sui ponteggi.»
Pier chiude le persiane di quella finestra affacciata sul giardino dei ricordi, testimone immobile del tempo che scorre.
Il passato che l’aranceto ha evocato non lo abbandona, flash continui lo accompagnano nella giornata di preparazione prima del viaggio a Losanna. Memorie mai dimenticate che fino a quel momento sembravano non aver lasciato alcun segno.
La vista del giardino, dall’alto della finestra all’ultimo piano, ha creato un cortocircuito e risvegliato una galassia di immagini che lo pervadono e lo proiettano in un’altra dimensione.
«Mamma, ti ricordi il mio diario delle storie?»
«Dove sarà finito?»
«Se non lo trovi in cameretta prova in libreria.»
«Ci metterò un po’ a trovarlo se è finito lì.»
Pietro, da bambino, di tanto in tanto pescava tra gli oltre tremila testi, tra libri classici, contemporanei, enciclopedie, manuali di storia, di pittura, scultura, saggi, romanzi e via dicendo.
Chiudeva gli occhi e scorreva la mano con i polpastrelli appoggiati sui bordi dei volumi perfettamente allineati, finché uno, sporgendo più degli altri, ne arrestava la corsa e ne determinava la scelta. Un gioco che amava tantissimo, lo scorrere lento delle dita, come a sfiorare la tastiera di un piano, lo faceva volare con l’immaginazione ovunque sulle scogliere neozelandesi, immergere negli abissi oceanici o cavalcare le onde con il vento in poppa.
A volte, invece, scorreva i libri allineati solo con lo sguardo, leggendone i titoli mentre procedeva a passo lento e fermandosi solo quando uno lo incuriosiva.
Era così che aveva scelto il Diario di Katherine Mansfield, una stampa del 1963, edito da Enrico dall’Oglio, dal costo di tremila lire.
A nove anni Katherine vinse il suo primo premio letterario alla scuola rurale che frequentava scrivendo Un viaggio per mare. A diciotto anni, nel 1906, lasciò il Queen’s College di Londra ad Harley Street, a bordo della nave Corinthic, per ritornare in Nuova Zelanda, dove era nata. Sul suo diario, Katherine scrive:
Andavo alla deriva in un vasto e sconfinato mare purpureo, sbattuta qua e là dalla forza delle onde, e il suono confuso di molte voci giungeva fluttuando fino a me. Un senso d’inesprimibile solitudine m’invase lo spirito. Sapevo che il mare era eterno, che io ero eterna, che questo pianto era eterno.
A un tratto l’indice della mano destra e lo sguardo, mentre scivolano sui libri da un lato all’altro della libreria, dall’alto verso il basso, in cima a una scala, incontrano il bordo tagliente del quaderno finito tra Mallarmé e Rimbaud.
«L’ho trovato!» esclama Pier e si sdraia sulla chaise longue accanto alla libreria.
Pietro, che ha otto anni, fa compagnia alla nonna, la cui casa è diventata una fabbrica.
Il papà è su che lavora sui ponteggi.
Ha smesso i panni di insegnante e indossato quelli di muratore, come ogni giorno, è andato a casa della suocera, portando con sé suo figlio, per continuare la costruzione, se n’è assunto l’onore in prima persona, di quella che sarà la nuova casa di famiglia. Ne ha realizzato anche il progetto, una nuova abitazione da costruire su e attorno al nucleo centrale della villetta stile New England voluta dal suocero Ariosto.
I fogli sono rilegati a filo e alcuni mancano.
Il quaderno dalla copertina opaca e le pagine con le righe nere orizzontali e due righe rosse verticali a delimitarne i bordi laterali, lo attrae come fa una calamita con il ferro, lo tiene stretto a sé.
Così la nonna può continuare ad abitarla poiché la cucina il salone e la camera da letto sono quelli di sempre.
Il cuore della vecchia costruzione non è stato demolito.
Nonna Maria ogni mattina prima prepara un uovo sbattuto con lo zucchero per papà Elio, “porta l’uovo a tuo padre… ne ha bisogno”, poi impasta la farina per fare gli gnocchi sul grande tavolo di marmo bianco al centro della cucina.
Seduto sulla sedia di fronte a lei, all’altro capo del tavolo, Pietro l’ascolta.
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