«Carlos!» gridò la moglie di Raùl. Anche lei e le due figlie entrarono nella sala, e anche loro sembravano agitate.
Davanti a quella scena mi sentii a disagio e fuori luogo, non sapendo cosa dire e cosa fare. Perciò seguì gli altri che si stavano incamminando verso l’uscita della locanda. Ma Raùl ci fermò. Disse che non avevamo conosciuto tutta la sua famiglia, che il ragazzo seduto a quel tavolo era il suo primogenito. Carlos Francisco Nuñez, ventitré anni e identico a suo padre se non fosse perché non portava gli occhiali. Era tornato proprio quella mattina dal fronte di Huesca – zona calda e importante della guerra – dov’era stanziato da un paio di mesi. Raùl disse che anche se la locanda era chiusa, ci avrebbe offerto un bicchiere di vino per farsi perdonare. Senza neanche attendere la nostra risposta, tolse le sedie da un tavolo vicino a quello dov’era seduto suo figlio. Da dietro al bancone prese una tovaglia pulita e una lampada a olio che ebbe difficoltà ad accendere. Non ci diede il tempo di dire nulla, ed io non ebbi il coraggio di dire qualcosa viste le facce sconvolte di Raùl e della sua famiglia. Solamente quando riuscì ad accendere la lampada a olio capimmo il motivo delle urla, dei volti pallidi, delle rughe e dell’agitazione. Carlos Francisco Nuñez portava una fasciatura – fatta alla peggio – che gli teneva bloccato il braccio destro e che lo avvolgeva dall’altezza del gomito sino al polso. Là una grande macchia di sangue. Raùl portò un bicchiere di vino anche per sé, poi prese un’altra sedia e si sedette al nostro stesso tavolo. Guardava fisso il suo bicchiere e nel farlo sembrava essersi calmato, a differenza della moglie e delle figlie.
«Che gli è capitato?» domandò Gabriele a Ettore, l’unico che riusciva a capire ciò che dicevano Raùl e la sua famiglia.
Io rimasi in silenzio a guardare Carlos Francisco Nuñez, che se ne stava immobile a osservare il vuoto, come se la sua testa fosse altrove, come se fosse rimasta a Huesca.
A quel punto Raùl si alzò e andò verso il bancone dove si riempì ancora il bicchiere di ceramica. Il suo volto – pur sempre pallido – divenne deciso, quasi risoluto. Disse che durante uno dei tanti attacchi dei comunisti sul fronte di Huesca, proprio nel settore dov’era il battaglione di suo figlio, una granata esplosa a mezz’aria aveva privato Carlos Francisco Nuñez della mano destra. Dopo averlo medicato gli diedero una licenza permanente, perché aveva perso la mano destra – quella del grilletto – e che per questo era diventato inabile alla guerra. La granata l’aveva privato per qualche giorno anche della vista all’occhio destro nonché altre ferite. Disse che aveva risposto lui perché Carlos era ancora scosso da quanto accaduto e non aveva la forza nemmeno di parlare. Ma era chiaro a tutti che la ferita più grave Carlos l’aveva riportata allo spirito. Non era divenuto inabile soltanto alla guerra, ma anche a ogni altro mestiere. Certo avrebbe potuto aiutare il padre nella gestione della locanda e che questa un giorno sarebbe passata a lui, ma avrebbe dovuto comunque convivere con quella mancanza per il resto della sua vita.
Dopo aver sentito la sua storia, sentii una specie di stretta al cuore e la paura che prendeva lentamente il sopravvento su di me. Non riuscivo a stare fermo come in preda ad una sorta di delirio, ma cercai in tutti i modi di non mostrarlo. Non c’era nulla nella locanda da guardare oltre alla fotografia di Francisco Franco, ancora più inquietante con la poca luce che c’era. Allora tornai a guardare il figlio di Raùl. La guerra l’aveva privato di ogni tipo di forza, sembrava appassito, logoro per quei mesi passati al fronte. M’immaginai al suo posto, e per un momento sentii il dolore che una tragedia come quella avrebbe potuto infliggere alla mia famiglia, soprattutto alla mia adorata madre già cagionevole.
Seduto accanto a me, Umberto Esposito si abbandonò a un lento sospiro. Persino Ettore che solitamente era quello più calmo e tranquillo, lo vidi scosso, teso e inquieto. Nel frattempo Cecilia si sedette accanto al fratello, si mise sottobraccio con la testa poggiata sulla sua spalla sinistra. Si muoveva sempre in silenzio e con una grazia che poche donne possiedono, con un portamento che lasciava intravedere una principessa piuttosto che una ragazza che viveva in un paese sperduto della Spagna. Carlos Francisco Nuñez trasalì come se il caldo abbraccio della sorella lo avesse riportato ad Aranda de Duero, nella locanda di famiglia, in nostra compagnia. Per ringraziarla le strinse la mano e accennò a un sorriso fugace.
«Come sta andando questa guerra?» chiese Gabriele. Era l’unico che ebbe il coraggio di dire qualcosa in quella circostanza. Aveva visto che il figlio di Raùl pareva essersi ripreso almeno un poco e ne voleva approfittare per sapere qualcosa di più sulla guerra.
Quella volta rispose lui. Parlò lentamente, scandendo le parole così che Ettore potesse capire bene quello che diceva. Aveva una voce debole ma che prima di quella tragedia doveva essere decisa come quella del padre, al quale assomigliava tanto. Disse che il fronte di Huesca era un vero e proprio inferno in terra, un fronte assai importante sia per loro sia per i comunisti perché era al confine con la Catalogna. Ogni giorno c’erano degli attacchi, se non erano i comunisti ad attaccare allora erano i nazionalisti ed entrambi speravano di sfondare lo schieramento avversario, ma inutilmente. Disse che il fronte di Huesca era immobile da mesi, che i comunisti erano bene armati e organizzati, che ricevevano gli aiuti sia dai sovietici sia dai francesi.
Mentre ascoltavo Ettore che ci riferiva il discorso del figlio di Raùl, bevvi tutto in un fiato il mio bicchiere di vino. Non ne potevo sentire nemmeno l’odore, eppure sentii il bisogno di berlo per calmarmi un po’. Sudavo ma non per il caldo, bensì per la paura: da quando Padre Pietro Velardi ci raccontò della guerra – della crociata così come disse lui – che si stava combattendo in questa terra, la paura era cresciuta lentamente in me, soprattutto dopo aver lasciato Siviglia, ma ero sempre riuscito a tenerla a bada, a fatica ma ero sempre riuscito a trattenerla e a non mostrarla agli altri.
Nel frattempo la moglie di Raùl – di cui non ricordo il nome – tornò in cucina e prese un piatto di arrosto di maiale, con delle verdure accanto e con del pane che sembrava vecchio di qualche giorno. Noi avevamo finito il vino che Raùl ci aveva gentilmente offerto e ora non desideravano altro che andare alla ricerca di un’altra locanda dove riempire la pancia, anche per poter lasciare da sola la famiglia di Raùl. Allora lo salutammo calorosamente e mentre uscivamo dalla locanda vidi Carlos Francisco Nuñez mentre cercava – con difficoltà – di mangiare con la mano sinistra.
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