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Dello strano caso di Domenico Cuomo e del Casale Sgambizzo

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Domenico Cuomo, meglio conosciuto come padre Robin, è un parroco della periferia partenopea che, come il leggendario arciere a cui si ispira, ha deciso di votare la propria esistenza alla protezione dei più deboli. Molto amato dalla comunità parrocchiale, è invece assai temuto dai suoi superiori e dalle istituzioni, che vedono in lui un elemento scomodo. Ma padre Robin va dritto per la sua strada, perché ha un obiettivo ben preciso: recuperare il casale Sgambizzo, antica residenza nobiliare abbandonata, e farne un centro di formazione per quei giovani che vivono tra disagio e criminalità. Quando i permessi tardano ad arrivare, a padre Robin non resta che affrontare di petto la questione.

CAPITOLO UNO

Robin Hood era il suo personaggio preferito. Eppure, lui il romanzo di Dumas neppure lo aveva letto. Conservava un vivido ricordo del cartone della Disney e delle memorabili gesta della banda di eroici mattacchioni a servizio della generosa e astutissima volpe. Ma non era certo quello che gli aveva condizionato il carattere e contaminato le cervella. Ad andargli assai a genio era piuttosto l’idea che quell’eroe sapeva suscitare nell’immaginario collettivo. Era insomma la faccenda del ladro galantuomo che ruba ai ricchi per dare ai poveri a ingarbugliargli le viscere per l’emozione. A pensarci bene, anche tutto il suo amore per certe canzoni di De André, come pure per la letteratura e la cinematografia vicine alla cultura proletaria, doveva nascere dalla sua fissazione per l’arciere leggendario.
Domenico Cuomo era, come tutti i personaggi evocati dal cantautore genovese, naturalmente incline alle tristi storie degli ultimi e alle vicissitudini dei diseredati. A quella folla millenaria di donne e uomini sopraffatta dal destino, o meglio – forse – dalla controversa natura dello stesso genere umano. A contatto con questo tipo di storie, aveva sentito sin da bambino di avere un ruolo ben preciso: a lui era toccato suonare lo spartito dedicato ai perdenti. In questa sinfonia che da secoli si ripeteva con modalità diverse e non tutte codificate, si trovava a suo agio e non c’era amarezza, sofferenza o sconfitta che potesse farlo abdicare dal ruolo che il Signore gli aveva affidato. È una gran fortuna, ripeteva riconoscente al suo destino, che la dolorosa esperienza di vita della gente dimenticata mi faccia sangue!
Era infatti consapevole che la vita vissuta con un’ossessione è di gran lunga più desiderabile di quella toccata in sorte a chi deve, ogni giorno, cercarsi qualcosa da fare. Così, anche dall’altare, tra i sorrisi compiaciuti dei fedeli, con il suo fare da consumato attore di teatro, più di una volta aveva avuto modo di sentenziare: «Che ci posso fare? Questa è la mia condanna! Le sofferenze della mia gente, me le porto azzeccate addosso».

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Sia ben chiaro che “la mia gente”, cioè quella che frequentava la sua parrocchia, non era per niente diversa da tutta quella che in genere si poteva incontrare nella scassata provincia di Napoli o nelle periferie delle grandi città della Penisola.
Padre Robin, come tutti lo chiamavano nel quartiere, era consapevole che cambiano i dialetti, ma non le declinazioni della precarietà e dell’indigenza. Così anche nel comparto 219, posto a ridosso del Monte Somma, si serviva un fritto misto disordinato e maleodorante di illegalità, miseria, pregiudizio e disperazione. Il fritto giusto per il suo palato, insomma.
Domenico Cuomo aveva una vasta e ben assortita clientela: agli indigenti del suo quartiere si univano spesso e volentieri quelli provenienti dagli abitati del circondario. A volte viene quasi da pensare che questi grandi agglomerati delle periferie nascano per allevare bisogni più che per accogliere persone. Ma non era stato sempre così.
Nei primi tempi del suo mandato, in quella parrocchia non ci andava nessuno. Perché non c’era l’abitudine. Il suo predecessore, don Tonino, era un uomo anziano dalla fede edulcorata dai rituali e dalle litanie di certe preghiere, che non amava troppo il contatto con quella gente e con le loro miserie. Questo almeno secondo quello che in giro si diceva di lui. La verità era però che don Tonino era un uomo a cui da sempre faceva difetto il coraggio. L’ennesimo don Abbondio finito in chiesa per riparare dalle sue paure e dalle sue angosce, e per questo assolutamente inadeguato a esercitare la propria missione in un territorio così marcatamente segnato dall’indigenza e dal malaffare. Così le porte della chiesa e della sacrestia, nel corso del suo mandato, erano rimaste perlopiù chiuse: erano state aperte soltanto negli orari delle messe e delle varie suppliche comandate dal calendario.
Padre Robin, invece, spavaldo per costituzione e formazione, appena insediatosi decise che era finalmente giunto il tempo di una svolta. Porte e finestre furono così lasciate aperte sin dal primo giorno, ma a fare veramente la differenza fu la scelta di andare lui per primo a trovare, una per una, le sue pecorelle. Fece richiesta protocollata al Comune di un ingrandimento del territorio di sua competenza e organizzò un programma serrato di visite non annunciate. Poi, con regolarità sistematica, cominciò a bussare alle porte della sua comunità. Una mossa azzeccatissima: entrare nelle case di quella gente fu una vera e propria rivelazione. Il disagio e la precarietà, infatti, visti da vicino sono assai più degni e praticabili di come li racconta il pregiudizio. È un po’ come addentrarsi in quei banchi di nebbia che da lontano appaiono come muri di cemento, concreti e insondabili: se li si percorre a piedi, con la dovuta cautela e il giusto entusiasmo, rivelano invece mondi altrimenti sconosciuti.
Tanti, tantissimi non aprirono al parroco. Alcuni per diffidenza o per vergogna, altri per semplice mancanza di abitudine. Taluni invece sembravano non attendere altro. «Io la macchinetta del caffè la tengo sempre sui fornelli, che non si sa mai chi ti viene a trovare!» disse la signora Amelia che diede ospitalità al suo pastore come se veramente alla porta avesse bussato Nostro Signore in persona.
Fare la conoscenza del suo gregge diventò immediatamente un rituale imprescindibile. Robin Hood prendeva coscienza della sua foresta. La esplorava facendola sua, stringendo anche con chi si ostinava a tenere le porte serrate un sodalizio basato sul reciproco rispetto. Ma furono le esperienze sgradevoli a fornire le indicazioni più interessanti, gli incontri con quell’umanità che era di certo vissuta nello stesso territorio, ma che aveva sviluppato un linguaggio e valori differenti. Donne e uomini che, visti da vicino, sembravano sbarcati sulla Terra da un altro pianeta, più alieni degli alieni. Era come trovarsi faccia a faccia con le mutazioni genetiche di certi individui, scoprire che sono assai meno isolati di come si può pensare; toccare con mano che sono organizzati in comunità ordinate da logiche e comportamenti a noi totalmente sconosciuti; gettare uno sguardo sui loro paesaggi, fatti di televisioni accese, mentre dalle radio vengono fuori, ad altissimo volume, voci di cantanti sconosciuti che parlano di assassinii e tradimenti. E poi piastre per arricciare capelli, scaldanutella, frullatori, scope elettriche e altre decine di elettrodomestici perennemente sotto tensione di cui nemmeno si sospetta l’esistenza. Avvicinare i valori che costituiscono la loro religione, i simboli che ne alimentano la diffusione, i rituali che ne perpetuano e diffondono il culto; accorgersi che tutta questa assurda accozzaglia di degenerazione e dimenticanza ha una sua coerenza economica e una sua incomprensibile sostenibilità e che ciò che apparirebbe altrimenti impossibile è invece esistente e funzionante, contemporaneamente a tutto il resto.
Insomma, concludere che per quel tipo di individui non è più possibile prevedere un recupero alle dinamiche del nostro mondo. Di fronte a ragazzini che fanno della ferocia e della determinazione la loro poetica, ci si sente patetici, anacronistici e quindi irrimediabilmente stupidi. A che serve offrire caramelle a un bambino abituato a giocare con il kalashnikov?
Ecco, bussare alle porte del quartiere gli era servito immediatamente a capire che, nella foresta nella quale contava di portare il suo messaggio di fraternità e giustizia, si erano sviluppate piccole, tenaci e insidiosissime forme di convivenza che obbedivano a protocolli difficili da capire anche per il più esperto analista. Eppure… eppure emanavano un indiscutibile fascino, per quanto peccaminoso.
I fedeli (quelli ai quali – forse – si poteva ancora portare il messaggio di amore e fratellanza di cui da due millenni diceva di occuparsi la Chiesa cattolica e apostolica) accolsero con entusiasmo le tante novità introdotte dalla nuova gestione. Sollecitati dai ripetuti inviti di don Domenico cominciarono a frequentare la parrocchia un tempo deserta. Entravano da ogni dove: dalle finestre, dalle uscite secondarie, dalla porta della sacrestia e talvolta anche da quella principale. Un’invasione di zombie affamati e finalmente liberi di scorrazzare, che avevano un nuovo territorio da esplorare in cerca di vittime da spolpare.
Venne perciò la stagione delle porte e delle napoletane di ferro chiuse a doppia mandata, che si aprivano solo dopo il trillo del campanello. Ma anche quella durò assai poco. Le chiavi scomparivano, il campanello si rompeva e, alla fine, le minacce di chi aveva scoperto i vantaggi dell’ascolto e della vicinanza senza nulla a pretendere ebbero la meglio. Ben presto padre Robin si convinse del fatto che la sacrestia e le stanze annesse, in quel luogo di privazioni, disagio, abbandono e illegalità, erano al pari di un ospedale da campo nel mezzo di un territorio segnato dalla guerra.
Don Domenico si affidò a un’agenda di quelle che un tempo regalavano le banche e che i cellulari e le loro applicazioni avevano reso definitivamente scomode e ingombranti. L’idea gli venne frequentando lo studio del medico di famiglia.
«Ognuno di voi segnerà il suo nome su questa agenda posta all’ingresso principale. Un nome per ogni riga. Le righe sono dodici. Non concederò più di dodici udienze al giorno. E badate che nun so poche!» ammonì i presenti, visibilmente indispettiti da quella disposizione; poi aggiunse: «Voi capite che significa dodici visite al giorno? Se fossi un medico specialista mi farei i palazzi nel giro di un mese e, soprattutto, senza pagare un soldo di tasse!».
Ma anche la faccenda delle prenotazioni sull’agenda si rivelò un fallimento. Molti dei pazienti non sapevano scrivere nel rigo e non c’era l’abitudine al rispetto delle regole, o era prassi quella di aggirarle con cancellature, strappi e altre miserie di questo genere. Senza contare poi che ognuno si portava sistematicamente al seguito un paio di conoscenti, il che faceva lievitare le visite giornaliere a numeri ben più consistenti di quello striminzito dodici.
Una domenica, stremato dalla fatica di dare un ordine all’accoglienza dei profughi come ogni giorno sbarcati su quelle rive, padre Robin annunciò: «Venite a tutte le ore che volete, ma vi prego entrate dalla porta, che le finestre sono state inventate per far passare l’aria e la luce, non gli scornacchiati come voi!».
Da lì in avanti, le udienze sarebbero state effettivamente concesse con quelle modalità.
Non c’era però ora del giorno o della notte in cui, nei locali posti alle spalle della chiesa, non ci fosse la fila ad attenderlo. Ma almeno i questuanti entravano tutti dalla porta principale, e questo faceva decisamente la differenza con il recente passato in termini di sostenibilità e civile convivenza.
La maggior parte degli ammalati che frequentavano il suo studio chiedevano soldi: per saldare le bollette, per acquistare i libri, per pagare gli avvocati, per onorare i medici, per accaparrarsi schifezze, per corrompere, sedurre, per rinnovare l’offerta speciale o il “pezzotto” che fa vedere Sky e Mediaset Premium.
Quel giovedì, giorno come da programma dedicato alla preparazione delle omelie del sabato e della domenica, la porta era però chiusa. Questo, tuttavia, per gli zombie non faceva la differenza: come sempre, per il parroco non c’era verso di trovare pace. Dietro a quella porta il vociare chiassoso, e per certi versi ingiustificato, si era fatto insopportabile.
«Ma voi state sempre qua? Ma ghiatevennearubbà!» disse irrompendo come una furia nella sala d’attesa.
«Ué, sia ben chiaro» aggiunse poi per precisare i termini del suo intervento «oggi non vi posso sentire a tutti quanti. Tengo da fare le mie cose, sennò domenica dall’altare che vi racconto? E poi soldi non ce ne stanno!» Quindi riprese fiato e contegno, poi, con tono bonario, consigliò di rimanere solo a quelli che avevano altri tipi di problemi: «È chiaro, o ve lo debbo dire più napoletanamente?».
Non si alzò nessuno. Gli sguardi delle sue pecorelle lo fissavano interrogativi. E chi ti ha detto che vogliamo soldi? Padre Robin, noi stiamo qui per pregare con voi! dicevano quegli sguardi.
«Vabbè, quindi state tutti qua per… pregare, giusto? Non sprechiamo altro tempo allora! Accomodatevi. Però, uno alla volta, rispettando la fila. Lo sapete cos’è una fila, vero?»
«Don Domenico, io vi debbo parlare» esordì il primo della fila una volta entrato e preso posto sulla sedia di fronte alla scrivania. Don Vittorio era uno degli abitanti le case popolari che cingevano la parrocchia, un anziano signore di settant’anni che i ragazzi del quartiere chiamavano ’o nirone! per via della sua carnagione, che tradiva l’incerta natura delle sue origini. I suoi capelli erano bianchi e crespi come quelli di Kunta Kinte. Don Vittorio era il solo, tra tutti quelli che frequentavano la parrocchia, che continuava a chiamarlo con il suo nome: don Domenico. Questo faceva di sicuro la differenza, dimostrando che don Vittorio si portava dentro un mondo e un’educazione che gli impedivano di uniformarsi ai luoghi comuni. La sua formazione gli imponeva di non prendersi confidenze di quel genere, a maggior ragione con una personalità come quella del pastore della comunità. Attribuirgli un nome di fantasia (per giunta quel nome) equivaleva, nella sua scala di valori, a sfotterlo, o, come si dice quando si parla pulito, a prenderlo in giro. Se dall’altare il vescovo l’aveva ordinato “don Domenico”, lui così lo avrebbe chiamato per tutti i giorni a venire.
«Buongiorno don Vittorio» disse bonario padre Robin, a cui tanta tenerezza e buoni sentimenti ispirava quell’uomo così compìto.
«Cosa vi ha spinto a… entrare, oggi?»
La domanda non era banale e nascondeva tutta la sorpresa di trovarselo davanti. Don Vittorio era infatti ospite fisso della chiesa, ma solo della sala d’attesa. Piuttosto che starsene a casa da solo, infatti, preferiva trascorrere i suoi pomeriggi nelle stanze parrocchiali. C’era sempre movimento in quei locali, senza contare che in un modo o nell’altro, trovava sempre occasione per rendersi utile. Meglio essere utile lì che finire muti davanti alla televisione.
«Don Domenico, io ho fatto un sogno.»
Fosse stato chiunque altro, padre Robin lo avrebbe cacciato via tra calci, urla e improperi, ma trattandosi di don Vittorio trovò educato aggiustarsi sulla sedia e porsi nell’atteggiamento di chi si prepara ad ascoltare con attenzione.
«Lo so che può sembrare una fesseria, ma voi sapete che io raramente vi vengo a dare fastidio…»
«Don Vittorio, non vi preoccupate, sono tutt’orecchi!»
«Il sogno è questo, ascoltate bene: voi stavate dicendo la messa, tra canti e suoni; poi, intanto che con la solita maestria intrattenevate i presenti con una delle vostre spassosissime omelie, si è sentito forte e chiaro un rumore provenire dall’esterno, dal lato della strada che affaccia sulle palazzine, per intenderci. Al che, visto che non siete uno che si mette paura, subito vi siete precipitato a vedere di che si trattava.»
A questo punto del racconto il sogno sembrava finito perché don Vittorio fece una pausa lunghissima, come a lasciar sottintendere un “punto e basta”. Padre Robin si disse che di sogni ne aveva certo sentiti di più interessanti, ma che don Vittorio si meritava la sua attenzione a prescindere. Tanto meglio che non ci fosse nient’altro, viste le tante udienze che lo attendevano. Si stava alzando, quando don Vittorio proseguì: «Quello che mi ha spinto a venire qua, però, è stato quello che è successo dopo».
Padre Robin recuperò con qualche incertezza l’attenzione.
«Voi siete uscito, ma la gente è rimasta tutta dentro, vi hanno seguito soltanto i bambini.»
Questo, sebbene non immediatamente decodificabile, sembrava decisamente più interessante.
«Voi capite, vero? Don Domenico, questo è un chiaro segno!»
«Un chiaro segno, dite?»
«Ma come don Domenico, non capite? Vi hanno abbandonato!»
Fu come un pugno allo stomaco: Robin Hood abbandonato dai suoi compari è una cosa che non si può sopportare tanto facilmente. Il ladro che ruba ai ricchi per restituire ai poveri abbandonato proprio da quei poveri! D’altronde le conclusioni cui era giunto don Vittorio non facevano una piega. Ma perché gli avevano fatto questo? Già, perché? Perché è così che vanno le cose! Era ciò che sempre accade a personaggi come il suo. Al primo rumore, si rimane soli. Non era forse questo il messaggio che, strisciante, si faceva largo ne Il sindaco del Rione Sanità che tanto amava e tanto lo aveva segnato negli anni della sua formazione? Quante volte nel soccorrere la sua gente aveva imitato Antonio Barracano sino a identificarvisi? Quello che per lui si annunciava, nel sogno di don Vittorio, era dunque il destino di tutti gli Antonio Barracano immortalati dal commediografo napoletano. La riconoscenza non è di questo mondo, diceva quell’opera. La miseria e l’opportunità trovano sempre il modo di sottometterla, deriderla, umiliarla. In giro è pieno di gente come Vicienzo ’o cuozzo che prima ti incoronano e poi ti volgono la faccia. Una folla di pezzenti arricchiti come Arturo Santaniello, il panettiere, pronti ad armarsi la mano e accoltellarti mentre stai disperatamente tentando di far valere i princìpi, di ristabilire le gerarchie, di mettere i sentimenti prima degli interessi personali. Ma a dispetto di tutto questo restava il fatto che, comunque la si mettesse, un’altra vita lui non avrebbe potuto viverla. Se anche avesse voluto togliersi di dosso i panni del parroco dei diseredati, non avrebbe potuto. Anzi, ad annusare in profondità l’aria che tirava, non c’erano per lui ruoli o scenari più desiderabili. L’evidenza dell’inutilità della propria missione e degli inevitabili tradimenti che essa doveva sopportare non lo sollevavano dal compito che il destino gli aveva affidato. A dirla tutta c’era poi anche un’altra questione che non andava sottovalutata. Nel sogno di don Vittorio i bambini – almeno loro – lo avevano seguito, e questo faceva decisamente la differenza. Lui quelli doveva salvare, i bambini. Tutto il resto è calato nella notte della miseria senza nobiltà.
«Perdonate don Vittorio, ma voi vi siete dato una spiegazione dei motivi che avrebbero indotto la comunità ad abbandonarmi?» chiese padre Robin per tornare alle stringenti questioni del sogno.
«No, don Domenico, mi spiace. Io sono il meno portato a capire come si muove la gente! Perciò me ne sto seduto tutto il giorno di là, a guardare. Mi fanno assai curiosità!» replicò don Vittorio.
Il sogno e le relative deduzioni di don Vittorio avevano indubbiamente fiaccato don Domenico. Fosse dipeso da lui, se ne sarebbe andato dritto a casa a riflettere sui motivi di quel tradimento e a interrogarsi sulle sue eventuali responsabilità. Ma come spiegare ai traditori là fuori il motivo di quel cambio di programma? Scusate devo andare, che il sogno di don Vittorio vi ha definitivamente smascherati, siete dei traditori! Già, come se quel sogno fosse una prova inconfutabile. E da quando in qua i sogni costituiscono prove inconfutabili di quel che accade nella realtà? Ci sarebbe voluta tutta la serata per raccontare a quella gente l’attualità delle opere di Eduardo. Quelle opere che, lo teneva scritto in fronte, prima o poi avrebbe portato in scena nel piccolo teatro che aveva in mente di allestire al casale Sgambizzo, appena quelli gli avessero finalmente concesso la liberatoria per procedere con i lavori. Quelli, tanto per essere chiari, erano i funzionari delle amministrazioni cui aveva presentato la richiesta di gestione del vecchio casale posto di fianco alla sua parrocchia, un enorme caseggiato in tufo appartenuto a una nobile famiglia del paese, i cui eredi si erano dispersi per il mondo in cerca di altre fortune. C’erano delle stalle, una corte molto ampia e una gran quantità di stanze con affreschi ottocenteschi che, nel rispetto dei vincoli imposti dagli enti preposti alla salvaguardia del patrimonio storico-culturale, sarebbero divenuti laboratori in cui insegnare arti e mestieri ai troppi ragazzi senza futuro del suo quartiere. Il giorno dell’inaugurazione, di nuovo lo teneva scritto in fronte, lo avrebbe celebrato portando in scena una commedia di Eduardo. Una qualsiasi andava bene. Opere come quelle andavano di certo attualizzate e ficcate nelle teste di quei bambini che neppure nel sogno premonitore di don Vittorio lo avevano abbandonato. Il teatro, nel progetto sviluppato con gli architetti che lo avevano aiutato a presentare la richiesta, doveva avere il palco situato sotto l’arcata posta di fronte al portone di ingresso. In tal modo, anche chi non aveva prenotato il suo posto nella corte o sulle balconate del secondo piano, avrebbe potuto, dall’esterno, godere della rappresentazione. Sarebbe stato un palcoscenico dal quale guardare il quartiere e strizzare l’occhio ai curiosi mentre il grande teatro della vita quotidiana metteva in scena la sua rappresentazione.
«Don Vittorio, grazie della visita. Il vostro sogno è stato davvero illuminante. Ora però, se non avete altro da aggiungere…»
«Va bene, va bene. Voi però riguardatevi, mi raccomando. Io comunque mi fermo qua fuori come al solito. Se avete comandi, non esitate.»
«Lo terrò presente, don Vittò; nel caso vi faccio chiamare. Intanto, per cortesia, mo che uscite, dite al prossimo di entrare.»
Non fu necessario che don Vittorio si desse troppo da fare: l’inconfondibile cigolio prodotto dalla maniglia della porta fece balzare in piedi il successivo questuante.
«È permesso?»
«Vieni Anna, accomodati.»
Anna era una donna semplice e fiera, un’altra abitante di quel comparto che ospitava gente proveniente perlopiù dal napoletano, qui trapiantata negli anni del dopo terremoto. La sua situazione era una conseguenza della disorganizzazione delle istituzioni e del cattivo costume dei burocrati, che finiscono per trasformare il disagio che sempre si accompagna agli eventi straordinari in qualcosa di cronico e inestricabile. Molti degli ordigni pronti a deflagrare sul territorio erano proprio il frutto di politiche sociali incomprensibili, basate perlopiù sull’approssimazione e sull’ignoranza delle dinamiche che la convivenza, in certi contesti, può generare. Atteggiamenti criminali che nessuno approfondisce e indaga, e che pure segnano per decenni le esistenze di migliaia e migliaia di giovani.
Anna non faceva eccezione a quel disagio, piuttosto si distingueva per la sua attitudine a sopportare in silenzio quel che il destino le riservava. Ragazza madre per scelta, si era addossata la responsabilità di partorire nonostante l’esito non favorevole dell’amniocentesi. Da sola si era occupata di assistere, curare e accudire il suo bambino “sensibile” e tuttora era questa la sua principale occupazione.
«Padre, mi è arrivata questa dal Comune» disse porgendo a padre Robin una lettera raccomandata.
Un’altra tegola caduta su quelle anime ormai abituate a campare sotto le macerie.
«Per farla breve, annunciano che so fernut’e soldi. Io però a Tonino, soldi o non soldi, al Centro ce lo devo portare.»
«Certo che ce lo portiamo!» disse padre Robin trasformando lo schifo che gli montava dentro in energia positiva. «Non ci sono problemi, fino a che non ripristinano la navetta, a Tonino lo accompagno io!»
Anna non fece una piega. Non le riuscì di dire grazie, che per certe cose proprio non era portata, ma si capiva benissimo quanto gli fosse riconoscente. Si alzò per andare via e per padre Robin fu naturale accompagnarla fino alla porta.
Nel breve volgere dei quattro passi che separavano i due dall’uscita, padre Robin realizzò che almeno per il momento la sua misura era colma. Non avrebbe ascoltato più nessuno. Doveva immediatamente raggiungere il Comune e parlare con quei cornuti!
«Signori, la messa è finita andate in pace!» disse perentorio alla folla che attendeva nella sala.
«Siete scostumato, ci avete ingannato!» disse alzandosi dalla panca una delle donne in attesa.
«Ho una cosa più urgente da fare al Comune ma, se avete pazienza, ritorno a onorare il mio impegno. Voi non mi abbandonate, che io non vi abbandonerò!» disse strizzando l’occhio a don Vittorio, il quale di certo non si era lasciato sfuggire il modo in cui don Domenico ci aveva tenuto a sottolineare quel “abbandonerò”.

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Francesco Aliperti Bigliardo
(FAB), napoletano, classe 1967, ha pubblicato nel 2009 per Edizioni Mayhem La grande combustione, una commedia in due atti di ispirazione ambientalista. Altre pubblicazioni minori sono contenute nell’antologia Assurdotempo e l’esatta logica di Edizione Corsare e nella raccolta del 2012 per nuovi autori campani di Caracò Editore Terra mia. Ciò nonostante resta un metalmeccanico presso lo stabilimento Avio Aero (ex Alfa Romeo Avio) di Pomigliano D’arco.
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