La luce entra dalla finestra, tenue nel suo bagliore mattutino, ma allo stesso tempo incredibilmente energica quando si posa sul profilo del suo corpo. Ne accentua i contrasti tra chiaro e scuro, riempie il volto leggermente scavato intorno agli zigomi e illumina l’espressione rilassata nel sonno, la bocca semiaperta in un sorriso.
Inclino la testa delicatamente a destra, ormai sveglio per la troppa luce proveniente dalla finestra. Pochi minuti a occhi aperti e sono già perso nella precisione di quei piccoli dettagli che, sommati, fanno il mio migliore amico. Sorrido e mi lascio sfuggire un sospiro, che nella sua pesantezza esprime il dolore del silenzio. Una quiete che vorrebbe sfociare in un fiume di parole in piena, fino a ricoprire ogni centimetro di quel corpo meravigliosamente imperfetto, in cui ogni cicatrice, mostrata con orgoglio, è un pezzo di storia passato a miglior vita.
I miei occhi attenti, puri e azzurri come il mare al tramonto, assaporano ogni piccolezza di quel corpo immerso nell’ennesimo sogno. Un sogno che somiglia a un quadro di cui non mi resta che fare da cornice, mentre Matteo ed Elena ne sono i protagonisti al centro, intenti in una delle loro smancerie. Il volto dapprima disteso di Matteo si apre, regalando inconsciamente un nuovo spettacolo da ammirare. Gli occhi, castani come i capelli annodati e scomposti, mi fissano per un attimo mentre cerco di ritrarmi, spaventato da quel gioco di sguardi. Perché Matteo non deve sapere quanto io vorrei qualcosa in più tra noi, oltre a qualche occhiata fugace; quello che io vorrei attraversa un limite indicibile, che sfocia nella vergogna di esporsi troppo. Un bacio, una carezza, una frase diversa dal solito: un limite che varca la linea sottile dell’amicizia e che si converte in amore.
«Da quanto sei sveglio?» mi domanda, lo sguardo ancora smarrito a causa della sbronza della sera precedente.
«Da qualche minuto» rispondo, omettendo quello che in pochi secondi mi ero ritrovato a pensare. Lo stomaco si contorce al pensiero di un nuovo giorno di bugie. Un altro giorno da depennare.
«Ti prego, la prossima volta che decidi di sbronzarti evita di coinvolgere anche me. Domani inizia anche la scuola, in questo stato Elena mi potrebbe scambiare per un barbone!» aggiunge lui.
Sono come un funambolo, ho un filo su cui camminare e nessuna rete a proteggermi: una parola sbagliata, una giornata storta e la corda si torce, si tende troppo, fino a far cadere l’equilibrista nel baratro dell’imbarazzo. Ho paura, non voglio cadere da quel filo così sottile e so che basterebbe avvicinarmi di qualche centimetro per ottenere, anche se in una parte infinitamente piccola, quello che vorrei. Ma non lo farò.
«Ma smettila, tanto con Elena non hai problemi in qualunque stato tu sia» replico, con tono evidentemente scocciato e la voce incrinata.
«Ancora con questa storia? Dai, per favore.»
«Per favore? Sai come la penso. È una come tante. Lei andrà via col primo che passa e io rimarrò qui, come ogni volta.»
«Perché finisce sempre così?»
«Così come?»
«Basta che venga fuori il suo nome e tu subito diventi una furia. Non ha senso. Adesso c’è lei e so che domani potrebbe non esserci e tu invece rimarrai. Ma non so che dire per convincerti e sono stanco. Io torno a dormire.»
Un muro invisibile, fatto di milioni di mattoni pesanti come macigni, si erge tra noi al termine della conversazione. Il peso di quel silenzio non fa che crescere, sommergendo la mia bocca. Il respiro di Matteo, aggravato dalla pesantezza dello scontro in corso, si fa regolare e lieve, soave come il ronzio lontano di un’ape che sai essere innocua.
E se stavolta ci riuscissi? No, l’ennesima idea da scacciare via. Un’idea pericolosa, che potrebbe spezzare l’equilibrio precario di quest’amicizia costruita in diciotto anni di silenzi. Non posso mandare tutto alle ortiche per un impulso. Non devo. Ma nessuno lo saprebbe mai, nessuno lo vedrebbe. Un segreto incastonato tra le lenzuola leggere, tra la federa colorata del cuscino e le labbra morbide e carnose di Matteo. Un segreto suggellato da quel contatto fisico a cui aspiro da almeno due anni.
Ormai non si torna indietro, sarebbe vigliaccheria. Sarebbe idiota lasciarsi sfuggire l’unica cosa che è capace di rimetterti al mondo, abbastanza forte da permetterti di rialzarti in piedi, ma sufficientemente lieve da rimanere sospesa nell’aria respirata, nelle pulsazioni di due cuori che si trovano vicini come mai prima. Separati da quello che nessuno si aspetterebbe di vedere.
Ora o mai più.
Impegnato nel non fare movimenti troppo bruschi che potrebbero svegliarlo, mi alzo dal letto, sentendo il peso del mio corpo completamente fuori controllo.
Niente ripensamenti.
Le molle del letto sembrano volermi spingere nella direzione desiderata, come se ogni oggetto e atomo nell’aria sapesse qual è la cosa giusta da fare.
Mi sento una marionetta nelle mani di una cosa più grande di me. Ogni passo è uno sbaglio da non rifare, ogni centimetro che mi lascio alle spalle è un’imprecazione a tutto quello che non ho fatto per paura di un rifiuto che mi avrebbe marchiato a fuoco, rendendomi visibile a chiunque. Adesso non siamo noi, non ci sono io: ci sono due corpi qualunque in una stanza qualunque. C’è qualcuno che dall’alto ha scelto noi, facendo scorrere un dito sul mappamondo e poi fermandone la forza motrice. E per fortuna! Ma basterà la fortuna a non svegliarlo, a non perdere l’occasione che ho rincorso dal primo momento in cui ho incrociato il suo sguardo? Nessuno può saperlo adesso. Un altro passo e quell’occasione diventerà concreta, trasformandosi in ricordo. Uno di quelli a cui finisci per affezionarti, forse condizionato proprio dalla sua segretezza, dal fatto che solo tu ne sei a conoscenza e che quella esperienza si aggiungerà all’interminabile lista di cose da non dire.
La vicinanza è tale che basterebbe un orecchio più attento per sentire il battito regolare di Matteo che, come musica, dà un ritmo alla mia timidezza e a tutte le paure che non rinunciano a frenarmi nonostante tutto. Ma adesso basta.
Di che colore è il coraggio?
La stanza, claustrofobica per la sua improvvisa piccolezza, riflette ogni colore proveniente dall’esterno come uno specchio d’acqua pura in una giornata soleggiata. Il viola che forma una sottile striscia per terra, tra la finestra e la parete bianca. Il rosso, l’arancione e il giallo che come una freccia indicano il percorso da seguire per raggiungere il viso disteso di Matteo, che dorme nella sua inconsapevole bellezza.
Indeciso sul da farsi, scelgo di chinarmi per evitare di far muovere troppo il letto, scansando così la remota possibilità di un risveglio non previsto che rovinerebbe un attimo sconsiderato, cercato infinite volte. Tengo gli occhi ben aperti e catturo ogni istante come una fotografia che potrò rivedere successivamente, quando la mia bolla di sapone sarà scoppiata. Li chiudo solo quando sento il mio naso sfiorare il suo con un brivido.
Pochi secondi e il mondo rinasce e muore istantaneamente, il tempo necessario alla mia mente per scattare quelle famose foto che, però, avranno un sapore del tutto nuovo, inaspettatamente dolce, al quale per poco non finisco per abituarmi.
Come si spiega un bacio su cui ti sei soffermato a fantasticare così tante volte da non riuscire più a tenere il conto? Come descrivi il rumore dei tuoi pensieri che, come in tilt, non smettono di rimbalzare da un angolo all’altro? Un bacio si vive, non si racconta.
Le labbra di Matteo, seppur addormentate e socchiuse in un piccolo cerchio perfetto, sembrano ricambiare l’errore che non sa fermarsi, un errore di cui potrò darmi la colpa e il merito finché la memoria me lo consentirà. Il fuoco che stava per spegnersi sembra bruciarci fino alla morte. Le mie labbra divorano con dolcezza la stanchezza alcolica di Matteo, la sua calma che non riesce a placare la mia insistenza. Il suo sonno che non fa che svegliarmi.
Il nostro, il mio bacio sancisce una promessa fatta a me stesso, che non sono mai stato capace di mantenere: niente più dolore. Ma l’amore è soffrire. L’amore è aspettare momenti come questo che ti ripagano di tutte le volte in cui avresti voluto prendere a sberle quel poco che la vita ti offriva. L’amore è a senso unico. L’amore è quel bacio che solo tu ricorderai.
Quando decido di staccarmi, la realtà mi si appiccica addosso come una pellicola trasparente, mi incatena al suolo e non mi lascia muovere. È una forza invisibile che parte dalla bocca e arriva dritta al cuore, senza seguire un percorso preciso. Zigzaga un po’ ovunque senza un criterio, colpendo muscoli e ossa e lasciando cicatrici come quelle di cui Matteo va tanto fiero. Ma queste cicatrici non si mostrano come un trofeo di guerra, non sono il risultato di una caduta dal motorino, di un taglio con la carta, di un gioco con la sorella finito male. Queste sono le mie ferite. Le ferite di un guerriero che combatte contro un nemico silenzioso, identificandolo con il silenzio stesso.
Il sangue che sento scorrere nelle vene se ne frega delle pulsazioni, di quello che il resto del corpo decide di fare. La stanza inizia a girare vorticosamente, in un moto instabile che mi fa apprezzare l’abituale stabilità che, nella mia vita, regna sovrana. Mi permetto di guardare ancora una volta la persona che riesce a far tremare il pavimento sotto i miei piedi, e mi sorprendo del suo aspetto: può qualcuno cambiare da un momento all’altro solo grazie a un bacio?
Gli zigomi, che fino a qualche minuto fa vedevo come una parte insignificante e nemmeno troppo bella del viso di Matteo, adesso sono il punto del suo volto in cui il mio respiro si è posato per la prima e ultima volta.
Gli occhi, in procinto di aprirsi, diventano le finestre sbarrate che non ho avuto il coraggio di spalancare.
La bocca piena si trasforma nel luogo in cui vorrei rifugiarmi nei momenti più neri.
Le braccia, muscolose ma non troppo, adesso sono custodi di un segreto indicibile, un gesto sconsiderato che farebbe spalancare la bocca ai più bigotti.
Il petto si alza e si abbassa a ritmo lento, quasi ipnotizzandomi in una cantilena senza alcun rumore reale, un movimento continuo che sembra evidenziare la maglietta stropicciata. Tutto cambia e non posso fare nulla per fermare il corso delle cose che mi sbattono da una parte all’altra. Per una volta, non c’è nessun altro: non sono la spalla di nessuno, non me ne sto da parte a guardare la vita degli altri come le persone comuni guardano un bel film. Stavolta tocca a me, anche se il mio momento di gloria è durato un solo istante. In quel minuto, in quei sessanta secondi o più, la mia vita, i miei problemi e quella maledetta sensazione permanente di non saper mai fare la cosa giusta al momento giusto spariscono, per lasciar spazio alla parte più audace di me. Basta però un minuto ancora, e quelle impronte lasciate diventano invisibili, il sapore del mio respiro diventa tutt’uno con l’ossigeno, i due battiti cardiaci che sembrano essersi fusi in un cuore solo perdono la loro sincronia. Un minuto soltanto. Lo stesso lasso di tempo che serve alla causa di tanto trambusto per svegliarsi appena, voltandosi su un fianco in posizione fetale.
«Edo?»
«Che c’è?»
Gli occhi di Matteo non riescono a rimanere aperti, prossimi a un cedimento che, senza ombra di dubbio, durerà più di qualche minuto.
«Sei il mio migliore amico, vero?»
Eccolo: il momento in cui potrei rispondere di no. Ma anche stavolta mi gioca un brutto tiro, facendo riemergere quella parte di me che alla luce preferisce il buio. Che alla verità preferisce una bugia dolceamara, un segreto sporco.
«Certo, che domande fai?» rispondo, mentre sento un groviglio pesante crescere nella gola, spezzandomi il fiato, troncando seconde opportunità.
Al sentire l’ovvietà di quella risposta, Matteo chiude nuovamente gli occhi e, con un sorriso etereo stampato sul viso, affonda la testa sul cuscino e crolla addormentato.
Senza pensare troppo, esco dalla mia camera sbattendo la porta. Mi trovo faccia a faccia con mia madre che, sbigottita, è accovacciata all’altezza della serratura della mia porta. L’aria colpevole accentua incredibilmente le rughe d’espressione che le incorniciano il viso senza appesantirla troppo, diventando poi più profonde in prossimità degli angoli degl’occhi. Quegli stessi occhi che non è riuscita a tramandarmi, di quel verde chiaro che nelle fredde giornate d’inverno sembrano piccoli cerchietti d’oro puro, adesso schizzano in ogni direzione con frenesia. Come a voler trovare una buona scusa, un nascondiglio, in poco tempo. Ma perché?
«Tutto bene, mamma?»
«Sì, certo. Mi era caduta una molletta e mi sono chinata a raccoglierla. Tutto bene?»
Noto subito che in mano non ha assolutamente niente. Distolgo lo sguardo.
«Sì, Matteo sta dormendo. Ieri ha bevuto troppo. Devo uscire, ci vediamo dopo.» E per tranquillizzarla, consapevole di ciò che ha appena visto accadere tra me e Matteo, sfodero il più falso dei sorrisi, uno di quelli talmente forzati da risultare credibili a chiunque.
Capitolo uno
«Edoardo, svegliati.» La voce flebile di mia madre mi scuote, ricordandomi che giorno è oggi: il primo giorno di scuola. Non per me, ovvio; se fai parte di questa famiglia non puoi permetterti di sognare un futuro diverso da quello che hanno già deciso per te. L’anno scorso, alla fine del quarto anno di liceo, mio padre ha deciso il mio futuro. Lo fa così tanto spesso che ormai è difficile distinguere dove finisce lui e inizio io. Era iniziato tutto come sempre, come un capriccio su una cosa talmente stupida da non ricordarla nemmeno.
«Credi davvero di essere tu quello che decide qualcosa in questa casa? Bene, ti accontento: l’anno prossimo niente scuola e vai a lavorare» mi aveva ordinato. Ricordo di essermi sentito talmente tanto piccolo da non aver nemmeno provato a convincerlo del contrario: il verdetto era stato pronunciato e non c’era certo bisogno di mettere in mezzo giudici o giurie.
Tutto d’un tratto, mio padre ha trovato indispensabile buttarmi nel mondo del lavoro, a un solo anno dalla maturità. Avevo provato a farlo ragionare, cosa ben difficile avendo a che fare con un alcolista, ma era come se le mie parole non lo raggiungessero nemmeno. È così che sono finito a lavorare in un bar per tutta l’estate, mentre i miei amici se la spassavano tra salsedine, feste in spiaggia e qualche ragazza di troppo. Con l’arrivo di settembre, è anche arrivato il benservito da parte del proprietario di quello stesso bar, che mi invitava a tornare a casa ritenendomi “non più necessario”.
Ora, invece, mentre i miei vecchi compagni di classe se ne stanno chiusi a scuola tra compiti e interrogazioni programmate, io passo le giornate in una prigione ancora più angusta: casa mia. In una famiglia così, non posso certo aspettarmi di poter apprendere quelle poche nozioni in più per spiccare il volo verso la mia personale montagna piena di sogni. Per me scalare quella vetta e toccarne la cima sarebbe la realizzazione di tutte quelle parole che metto insieme senza star attento all’ordine. Quelle che raccolgo negli angoli del ripostiglio, nella polvere di una delle mie mensole stracolme di libri. Ma sono un lusso che non posso permettermi.
«Mamma, perché mi hai svegliato? Tanto a scuola non ci vado.» Ancora spossato dal sonno, vedo gli occhi verdi di mia madre che si alzano verso il soffitto. Un gesto che negli ultimi diciotto anni ha ripetuto infinite volte quando era stufa di qualcosa.
«Ieri sera mi avevi detto di svegliarti, perché volevi accompagnare Matteo a scuola. Ma dove hai la testa? Fai come vuoi, io adesso devo andare a lavoro.» Le sento sussurrare l’ultima frase con quel tono spaventato e un po’ scocciato che nasconde un segreto. Un segreto che, se attraversasse la parete e arrivasse in cucina, potrebbe essere la causa dell’ennesima serata sbagliata.
Ci sono momenti in cui vorrei solo scavare un tunnel sotterraneo per andare in una famiglia vera, una senza angoli bui, né segreti inconfessabili. Una famiglia dove non dovrei preoccuparmi di ogni respiro che faccio. Un altro sogno non concesso, tenuto stretto tra i denti per non farlo trapelare. Un’altra montagna da scalare in solitario, coperta dalla vergogna di doversi nascondere agli occhi della persona che hai promesso di amare.
«Ah, lo avevo dimenticato. Ci vediamo a pranzo» dico, alzandomi e poggiando il peso su un gomito e stampandole un piccolo bacio sulla guancia.
Prima di andarsene mi regala un sorriso. Era da mesi che non la vedevo sorridere davvero.
La sveglia accanto a me segna il mio ritardo con chiarezza. Veloce come mai, ma in ogni caso attento a non creare troppo scompiglio, prendo i vestiti del giorno prima, appoggiati sulla sedia in completo disordine. E perché agghindarsi? Oggi sono di troppo, non dovrei nemmeno esserci. Maledetto Matteo e maledetta forza di volontà che viene sempre a mancare. Infilo i jeans sdruciti senza neanche provare a dar loro una piega decente e in tutta fretta metto la maglietta bianca che l’anno scorso Matteo mi aveva regalato per il compleanno. Consapevole che nemmeno un cartellone con scritto sopra quel che vorrei dire sarebbe capace di attirare la sua attenzione. Un fantasma nel quale passerebbe attraverso, mano nella mano con Elena.
Preso dalla frenesia e dalla paura di far tardi come mio solito, mi accorgo appena di qualcuno che sta bussando dall’altra parte della porta. Tre tocchi e un piccolo singhiozzo. Non ci sarebbe neanche bisogno di aprire la porta per sapere di chi si tratta. Un metro o poco più, il dito in bocca come sua abitudine, una cascata di capelli biondissimi che le ricadono fin sotto alla schiena, lisci con qualche piccolo ricciolo in fondo. Gli occhi, verde chiaro come quelli della madre, sono impregnati di lacrime e guardano da una parte all’altra senza fermarsi. Ha quell’aria dolcemente spaventata che in cinque anni ho imparato a riconoscere. Una serie irregolare di singulti le scuotono il corpo esile, una bambolina in miniatura: così fragile e delicata che, se la stringessi troppo, avrei paura di romperla.
«Edo, ho paura» le sento dire con voce flebile, il piccolo cuore che corre all’impazzata per qualcosa che sembra averla spaventata a morte. O qualcuno.
«Piccolina, che è successo?» le chiedo. Mi inginocchio per vederla da vicino.
«Papà è arrabbiato, ha la faccia tutta rossa!» mi spiega velocemente, piangendo.
«E che ha fatto papà?» le domando con dolcezza, accarezzandole il viso umido.
«Ha fatto male alla mamma. Edo, ho paura!»
«Tesoro, lo sai com’è papà, dopo gli passa. Io adesso devo andare a scuola con Matteo, tu mi prometti che torni a dormire e non piangi più?» Accompagno la mia richiesta con un buffetto sulla guancia, scherzoso. Alice annuisce con convinzione, scuotendo un po’ la testolina bionda. «Fammi un sorriso, che le principesse sorridono sempre!» le sussurro piano all’orecchio, intento a non svegliare l’energumeno accalorato e rabbioso sdraiato sul divano. Quell’uomo che, in teoria, dovrebbe essere nostro padre.
«Quando sarò grande come te, io sarò una principessa e tu il mio principe!» ribatte allegramente Alice, asciugandosi le lacrime con una mano.
Torna nella camera in punta di piedi per non fare rumore, voltandosi per mandarmi un bacio con la mano. E in quel momento la sola cosa che chiederei come ultimo desiderio a un ipotetico genio della lampada sarebbe vedere quel volto sorridente lontano dalla cattiveria e dalle mani pesanti di quell’uomo. In una famiglia vera, in cui i segreti sono piccoli e innocenti, in cui la sera è normale vedere la televisione tutti insieme o parlare della propria giornata, e non andarsi a nascondere per evitare la furia del suo componente principale. Ma sono troppo in ritardo per fantasticare.
Corro a passi piccoli e veloci verso la porta, concedendomi un’occhiata rapida alla cucina, per essere sicuro di una relativa pace fin quando non sarò tornato: il silenzio regna in ogni metro quadrato della casa. Unica eccezione è il respiro lento e pesante di mio padre che, sudato e rosso in volto per le troppe bottiglie scolate la sera precedente, dorme scompostamente sul divano.
Sento il telefono vibrare nella tasca dei pantaloni, come a volermi ricordare il mio ritardo spropositato. Rispondo alla chiamata, pronto a sentire la voce di Matteo all’altro capo che sbraita per la mia perenne lentezza.
«Ma dove sei finito? Fra venti minuti chiudono i cancelli! Sei sempre il solito. Io fra cinque minuti parto con la macchina. Ah, c’è anche Elena. A dopo!» dice, tutto in un fiato, prima di riattaccarmi in faccia senza troppe spiegazioni. Come al solito.
Ormai abituato alla sua fretta e alla mia lentezza, due poli opposti che invece di completarsi a vicenda finiscono spesso per scontrarsi, inizio a correre. È buffo come la maggior parte del tempo, in vita mia, io mi sia ritrovato a correre: correvo da piccolo, dopo qualche mese appena che avevo imparato a reggermi in piedi. Correvo via da mia madre che, al culmine della felicità quando la casa era libera ed eravamo soli, mi inseguiva in giro senza stancarsi mai. Non c’erano “se”, non c’erano le scuse ricorrenti della stanchezza, del poco tempo, della poca voglia o del dovere morale di far silenzio. C’erano un bambino e una giovane donna, nella loro personale fiaba. Nessun mostro sotto il letto o sul divano. Correvo qualche anno dopo, quando i mostri avevano iniziato a venire fuori e a essere una presenza fissa in casa nostra, insieme a Matteo, nel giardino di casa sua. E adesso corro incessantemente, ma non dietro alle persone, al cane dei vicini che non la smette di abbaiare, non dietro a una sorella piccola che vorrebbe giocare con me tutto il giorno: corro dietro alle occasioni in bilico, alle persone che stanno appese a un filo sottile, ai ricordi che non sarei in grado di replicare.
Corro dietro a cosa non c’è, a cosa c’è stato e non tornerà più indietro. Corro dietro all’astratto, a ciò che non posso toccare, o sentire. A cose o persone che non staranno ad aspettarti in eterno, che devi essere abbastanza svelto da acchiappare. C’è chi rincorre i treni in ritardo, chi l’amore e chi un sogno.
Io rincorro quel tipo di occasione che non ti darà una seconda possibilità e so che se non mi sbrigo, una persona non aspetterà certo me per iniziare l’ultimo anno di liceo. A maggior ragione se in dolce, dolcissima compagnia.
Non posso dire di odiare Elena. Io sono più un tipo che disprezza: sono capace di fingere un sorriso, magari parlando con la persona interessata per qualche minuto, ma di covare dentro tutto il male che mi passa per la mente. È un sentimento aspro, che finisce per incenerire quel briciolo di bontà che ancora ti rimane. La cura? La sopportazione.
Ma come si fa a tollerare la vista di quel visino irritabile che si avvicina con pathos e che si butta sul ragazzo che fino a un giorno fa era mio? Come sopportare le loro mani intrecciate? Le mani di Matteo nei capelli di Elena? L’apice è quando lei lo bacia davanti a me, come a sottolineare a chi appartiene chi. Come se non lo sapessi già abbastanza bene da solo senza il suo aiuto.
«Alla buon’ora!» La voce squillante di Elena mi scuote dai miei pensieri fitti. E quel trillare fastidioso, incredibilmente simile al rumore di un paio di unghie lunghe che graffiano una lavagna, mi ricorda perché non ho ancora capito cosa Matteo ci trovi in lei. Un bel culo? Un bel corpo? I bei capelli? Gli occhi grandi e celesti? Le gambe slanciate, le braccia esili? La solita lista della spesa. Le caratteristiche di una vecchia Barbie, passata da un pezzo di moda. Una Barbie che, personalmente, butterei nel primo cestino disponibile.
«Scusate, a casa c’era il solito casino e ho fatto tardi» cerco di giustificarmi con Matteo, ignorando volutamente lo sguardo impertinente e scocciato di Elena che mi squadra da capo a piedi senza alcun ritegno. Salgo in macchina e mi infilo davanti, fregando il posto a Elena, che così è costretta ad allontanarsi da Matteo. Le rivolgo un sorriso forzato e mi volto verso Matteo che, nervoso e a tutta velocità, tiene le mani ferme sul volante in una corsa folle contro il tempo e il traffico del lunedì mattina. Senza dire una parola mi guarda facendomi capire, senza doverlo dire esplicitamente, che sarebbe bello se almeno provassi a non essere così apertamente odioso nei confronti di Elena. Senza aprire bocca a mia volta, alzo gli occhi al cielo com’è solita fare mia madre quando dico la cosa sbagliata al momento sbagliato, facendo intendere il mio rifiuto alla sua proposta silenziosa. Ed è proprio Elena a interrompere quel taciturno scambio d’opinioni.
«Che è ’sto silenzio? Avete litigato?» squittisce lei, da una parte speranzosa nell’intonazione della domanda, dall’altra mostrandosi interessata.
«Ma no, è una cosa che facciamo sempre. Non puoi capire» rispondo sbrigativo io.
«Ah, certo, io non posso mai capire» ribatte Elena offesa, mettendo su il broncio come fa mia sorella, che è almeno giustificata dalla sua tenera età per i suoi capricci.
I capelli, originariamente castano scuro, diventati biondo chiaro qualche settimana fa, sono legati in una treccia lunghissima che le arriva fino a metà schiena e ondeggia lievemente da una parte all’altra. Come se il nervosismo si irradiasse persino nei suoi capelli lunghi, che si trasformano in milioni di fili elettrici pronti a fulminarmi da un momento all’altro. Pronti a eliminare l’unico ostacolo tra lei e Matteo, l’unica persona che non si limita a guardarli sognante, invidiando chi lui e chi lei. L’unico a non averla mai davvero apprezzata.
«Veramente io…»
«Quello che Edoardo intendeva è che spesso ci capiamo senza parlare. Era questo che volevi dire, vero, Edo?» mi interrompe bruscamente Matteo, cercando di non creare l’ennesimo litigio e dandomi un’occasione per rimediare.
«Sì, è più o meno come hai detto tu» rispondo meccanicamente io. C’è una lunga pausa, un silenzio imbarazzante ogni tanto interrotto da un melodrammatico sospiro proveniente dal sedile posteriore, o dalla musica particolarmente alta di una macchina truccata che ci sfreccia accanto nel traffico.
«Ieri pomeriggio ho fatto un sogno stranissimo, sapete?» inizia a dire Matteo.
«Che hai sognato?» chiedo subito io, incuriosito dalla precisazione di Matteo.
Ieri pomeriggio? Ma intende il momento in cui stava dormendo a casa mia? Quando mi ha fatto amare la sua incapacità di reggere l’alcol?
«È stato quando mi sono addormentato a casa tua, Edo. Non so se sia stato l’effetto dell’alcol o la stanchezza. Ma era strano, non so neanche descriverlo bene a parole» inizia lui, a stento. «In ogni caso, ero in una stanza bianca, con le pareti spoglie, sul pavimento, niente di niente. Ero disteso su un letto e anche nel sogno dormivo.» Il racconto di Matteo è bruscamente interrotto.
«Che vuol dire anche nel sogno? Dove stavi dormendo, scusa?»
Il tono che Elena usa per porgere la sua domanda è tutto fuorché comprensivo. Quello di una donna che vuole il suo uomo tutto per sé.
«Ero a casa di Edo, avevo bevuto un po’ troppo. In ogni caso… dormivo, ma ero cosciente di quello che stava succedendo intorno a me, però non riuscivo ad aprire gli occhi per controllare la situazione. Mi sentivo in trappola, come se qualcuno mi stesse tenendo prigioniero chissà dove.»
«Come quando hai un incubo e non vedi l’ora di svegliarti» aggiungo io.
«Sì, esatto. A un certo punto, sento un rumore di passi. Ed è così reale che mi sembra di sentire davvero tutto. Improvvisamente, sento una mano fare pressione sul mio braccio, come se mi stesse accarezzando. E in quel momento apro gli occhi. Nel sogno, non nella realtà. E cosa vedo? Una figura senza volto, con lineamenti confusi» continua a raccontare Matteo, mantenendo gli occhi sulla strada. «Questa figura si avvicina sempre di più, sempre con un fare dolce e gentile, e all’improvviso mi bacia. Così, dal nulla. Ma non mi sentivo strano, o in trappola come quando avevo gli occhi obbligatoriamente chiusi. Mi sentivo a casa. Come quando capisci qualcosa dopo tanto tempo e ti senti più leggero. Non so spiegarlo. So solo che quando mi sono svegliato sorridevo» conclude.
Nel momento esatto in cui Matteo finisce di raccontare, mi accorgo che sto sorridendo anche io, con uno di quei sorrisi che sembrano tirarti la faccia fino ad allargarla in ogni direzione. Quei sorrisi che ti si attaccano e non riesci più a mandare via, che ti fanno vedere un mondo storpiato, ma nel verso giusto. Cerco di tornare serio per non attirare una delle domande stupide di Elena.
«Secondo voi cosa significa?» chiede curioso Matteo.
«L’ho cercato su Google mentre raccontavi. Qui c’è scritto che sognare qualcuno senza volto è molto ricorrente e rappresenta qualche elemento della nostra realtà che ci sfugge e che sarebbe bene invece conoscere. Possono essere anche persone esistenti a cui dovremmo dare più attenzione, o almeno così c’è scritto in questo sito. Non è che mi nascondi qualcosa?» chiede sospettosa Elena, rimettendo bruscamente il cellulare in tasca.
«Ma che stai dicendo? Dai, Ele, ma scherzi?» risponde al volo Matteo, visibilmente irritato dai sospetti della sua ragazza.
Che sia la volta buona? La volta in cui capirà davvero accanto a chi si è messo? La volta in cui un bel culo e una risatina acuta non basteranno a incantarlo?
«Vorresti negare che passi più tempo con lui che con me? Dai, siete peggio di una coppia sposata: dove va uno, va anche l’altro. Se uno sta male, va a casa dell’altro. Vivete in simbiosi. E io starei dicendo cose strane? Non prendermi in giro. Lo hanno già fatto in tanti, prima di te. Io non devo essere seconda a nessuno.» Il tono di voce scocciato e quasi ferito dà al discorso fondamentalmente stupido di Elena un peso maggiore di quello che anche lei stessa avrebbe potuto immaginare.
Non siamo due ragazze che vanno pure in bagno insieme. Eppure, per chi ci vede dall’esterno, questa vicinanza rasenta i limiti dell’ossessione, quasi me ne vergogno e continuo a tenermi dentro tutto, per non far scoppiare una bomba. Bomba che ha appena innescato Elena. È davvero così strano avere un migliore amico del tuo stesso sesso? Ed è davvero così assurdo passarci così tanto tempo insieme? Nessuno risponde, nessuno controbatte, nessuno osa contraddire questa tesi.
«Ele, puoi scendere un attimo dalla macchina? Vorrei parlare con Edoardo. Da soli, se non ti dispiace» chiede stordito Matteo, invitando Elena a uscire con un gesto della mano. Elena, senza scomporsi e senza azzardare ulteriori domande, lascia lo zaino sul sedile ed esce dalla macchina di Matteo con tutta calma.
Ora sì che i nodi vengono al pettine.
«Sei d’accordo con lei, non è così?» inizio immediatamente io, per non lasciare spazi vuoti.
«Non è così semplice, Edo.»
«Non pensavo sarebbe andata a finire in questo modo.»
«E chi ti dice che sta finendo?»
Un sorriso incerto si apre sul volto di Matteo, gli occhi brillano di quella complicità che non vedevo da mesi, ormai. Quel qualcosa che solo io e lui sappiamo.
Clara Marcolli (proprietario verificato)
Perché scommettere su un libro non ancora pubblicato quando sarebbe più semplice comprare un prodotto già finito e rifinito? Perché altrimenti alcune storie non avrebbero mai l’occasione di venire alla luce, e quella di Edo, Matteo e Sofia di luce ne merita. Una storia fresca e vibrante, viva. Una di quelle storie che ti rapiscono e ti fanno (ri)scoprire un intero spettro di emozioni che forse erano sepolte da un po’. Che in fondo ci rendono umani e che ci fanno venir voglia di correre ad affrontare la vita. “Storia di chi ama sottovoce” è un canto alla libertà che ognuno dovrebbe avere nel provare i propri sentimenti, anche quando esprimerli è come fare una scommessa con sé stessi. Ecco perché vale la pena scommettere su questo libro.
Antonia Lonardo (proprietario verificato)
“Storia di chi ama sottovoce” è un libro che vi lascerà senza fiato. La sorpresa, le emozioni, i sentimenti, la descrizione minuziosa e delicata delle fragilità e delle debolezze di tutti i personaggi che vengono a galla piano a piano e ti portano così vicino a loro da volerli vivere. Ed è così che vorresti donare una carezza alla mamma di Edo, urlare contro suo padre, aprire gli occhi a Matteo, abbracciare Sofia e proteggere Alice. È così che vorresti tenere la mano ad Edoardo tutto il tempo. La scrittura di Elisa permette di entrare a contatto con ognuno di loro e ad instaurare un rapporto unico con le loro storie. Perché “storia di chi ama sottovoce” non è solo una banale storia d’amore ma è la storia di tutti coloro che ne sono coinvolti, è specchio di emozioni a cui nessuno riesce a dare nomi se non attraverso la lettura. Lasciatevi bucare il cuore da queste pagine, fate venire fuori le lacrime, dedicate almeno 5 minuti al giorno a questa storia. Inspiegabilmente vi ritroverete a scendere a patti con voi stessi e a sentirvi incredibilmente più leggeri.