«Questa scuola diventerà più giovane, più veloce e più efficiente. È meglio che vi prepariate» dice il preside.
«Mi scusi preside» il collega di matematica di cui sopra.
«Dirigente scolastico» dice lui.
«Ah, preside non si può più?».
«No».
«Posso chiamarla doc?».
«No. Può chiamarmi manager».
«Ok, va bene. Senta preside».
«Ho detto dirigente».
«Sì, è vero. Dirigente-slash-manager-slash-doc: che cazzo vuol dire quello che ha detto?».
«Che o vi adattate o perite. Siamo stanchi di perdere tempo…».
«Scusi dirigente-slash-manager-slash-doc» riprende lui. «Ma noi chi?».
Il preside lo squadra irritato. «Noi siamo stanchi di perdere tempo in questa bolla di consuetudini e conservatorismo che si chiama scuola pubblica. L’Italia va avanti!»
Una piccolissima parte del corpo docente, laggiù sul lato destro dell’aula magna dal tetto alto e dal pavimento di parquet, dalle sedie verdi e dai corridoi stretti, dalle luci calde e dall’acustica insopportabile, sembra reagire con soddisfazione. Uno si gira a guardarmi, il mio senso di colpa si fa più acuto, mi estraneo dalla discussione, vado fuori a fumare anche se non fumo, il gruppetto del lato destro mi osserva con disapprovazione, la colpa è troppo grande, le spalle troppo strette. Mi guardo intorno, il marciapiede è deserto, il sole sta tramontando, lo scenario è lo stesso dell’ora di ricreazione, quando noi docenti siamo costretti a uscire dai cancelli per fumare: è fatto assolutamente divieto di farlo nei locali della scuola, ivi compreso il cortile, le palestre, i bagni dei docenti (come da circolare del dirigente numero non-ricordo). Mi raggiunge una collega di inglese, e gli insegnanti di inglese sono i nostri nemici naturali. Nostri di chi?
«Quanti anni hai tu?» mi chiede mentre lavora sulla pietra focaia.
«Trenta».
«Be’, più o meno la mia stessa età. Il futuro della scuola è sulle nostre spalle».
Della percezione delle mie spalle ho già detto, quindi le scrollo incapace di formulare un pensiero.
«Cosa insegni tu?».
«Filosofia e storia».
«Be’, allora dovresti sapere che la nostra è una cultura di pace».
«Quella scolastica intendi?».
«No, mi riferivo a Parigi».
Nostra chi-cazzo-chi?
Rientriamo che sui muri rimbomba la parola valutazione, il preside sta in piedi dietro il banco, una segretaria ingiallita prende gli appunti.
«…e perciò posso dire che in questi mesi, in ottemperanza alle indicative ministeriali abbiamo realizzato tutto ciò che ci eravamo proposti, abbiamo raggiunto gli obiettivi prestabiliti, siamo entrati di prepotenza nel ventunesimo secolo. Oggi noi mandiamo in soffitta i professionisti del non-ce-la-farete-mai». Il gruppetto sulla destra applaude, io penso di avere addosso l’espressione dello stupore più ingenuo.
«Lei» mi dice il preside.
«Io?».
«Sì, lei. Professor…»
«D.».
«Solo D?».
«Già, solo D.»
«Bene, lei rappresenta il futuro. I giovani, le forze libere dai vincoli di questa società gerontocratica e inadeguata, conservatrice e reazionaria. Lei rappresenta il futuro della scuola, di questa scuola e del nostro paese».
«Scusi, preside» replico io.
«Manager» mi corregge.
«Scusi, manager. Ma lei quanti anni ha?».
Mi gela con lo sguardo, la seduta è tolta.
Il giorno dopo, Calboni discute con il preside fuori dell’aula professori, sono le 9 del mattino, io entro alla seconda ora (senza giustificazione ah ah ah), e mi infilo dentro l’aula senza dare nell’occhio.
«Oh buongiorno, professor D.» mi accoglie il preside.
«Buongiorno» rispondo io.
Calboni, quello di matematica, fa un cenno, poi riprende a guardare tabelle e parlare. Per quanto mi sforzi è troppo tardi, ormai devo sentire quello di cui discutono.
«Vede, manager, noi potremmo lavorare su questi parametri, velocizzare questi processi e migliorare così l’efficienza» commenta Calboni, quello di matematica.
«Efficienza è un termine che adoro» risponde gongolante il preside. «È importante raggiungere gli obiettivi».
«Gli obiettivi senz’altro. Ho calcolato che potremmo abbattere i costi se pagassimo gli insegnanti per orario. Chiariamo le cose: darci uno stipendio anche quando la scuola è chiusa mi sembra paradossale e anti-economico. Andrebbe fissato un pagamento orario: se un martedì capita che sia vacanza, ovviamente non percepisci la paga rispettiva, dato che non hai lavorato».
«Molto interessante».
«L’autonomia scolastica d’altronde ce lo permetterebbe».
«L’autonomia è un’importante conquista».
«Pensi anche al caso in cui alla quinta ora una parte della classe, quella composta da pendolari, esca un quarto d’ora prima, come da permesso scritto concesso all’inizio dell’anno dal consiglio di classe e regolarmente registrato nel registro elettronico. L’insegnante a quel punto smette di spiegare e per un quarto d’ora si aspetta la campanella in altro modo. Perciò l’insegnante dovrebbe ricevere una paga corrispettiva ai quarantacinque minuti effettivi di lezione, e non ai convenzionali sessanta».
È ancora più tardi, cioè è ormai ancora più tardi, nel senso che è ulteriormente troppo tardi. Voglio dire che ora non mi basta ascoltare, devo intervenire. «Vedete» debutto, «io ho calcolato che spostando alcune lezioni da scuola a casa, in collegamento in video-conferenza, potremmo risparmiare sul tempo e su costi di trasporto». Ho fatto il mio intervento e sorrido beffardo.
«Sa, professor D., questa è un’idea brillante» risponde il preside. E mentre suona la campana mi dice che dovremmo approfondirla, che ci vedremo, che apprezza il mio spirito. Apprezza, fatemi capire, la cosa più idiota che mi sia venuta in mente e che ho detto solo e soltanto per essere fuori luogo e irritante, cosa che adoro fare alle 9 del mattino.
Nella rotta verso la classe incrocio una nuova collega, occhi celesti, capelli neri e ventisei anni, insegna spagnolo. «Oh ciao» mi dice. Percorre un pezzo del corridoio con me e mi racconta di come noi (noi chi?) siamo molto più vicini alle esigenze dei ragazzi, perché abbiamo un’età simile alla loro ecc. ecc. ecc. e io entro in classe, mi chiudo la porta dietro e non voglio sentirla parlare mai più.
«Buongiorno ragazzi».
«Buongiorno prof».
Il resto lo si immagina, va avanti così per qualche ora. Ho la testa al pomeriggio, torno a pranzo e poi finalmente posso prepararmi con calma le lezioni della settimana. No, invece: c’è anche oggi una riunione pomeridiana, di dipartimento, tutti i docenti di filosofia e storia della scuola. Spero che anche loro abbiano lezioni da preparare e con questa speranza — e nessun’altra — alle 16 sono di nuovo a scuola. Massimiliano, che insegna nel corso C, fissa la macchinetta del caffè, lo raggiungo, mi offre quel surrogato di caffeina che l’avanzata tecnologia della nostra scuola offre e stiamo a parlare del suo passato mentre aspettiamo che gli altri arrivino, uno per volta.
«Sai» mi dice, «dopo aver fatto il dottorato in filosofia e avere collaborato per qualche anno con una cattedra di storia del pensiero politico, posso dirti che venire a lavorare a scuola è stato un ritorno nel mondo reale. Hai presente, ce lo avrai presente, no?, quella faccenda di Russell che dall’idealismo abbraccia l’empirismo e dice che dopo aver ritenuto per anni irreale il mondo sensibile, potere nuovamente credere che esistessero per davvero cose quali tavoli e sedie fu una grande emozione? Ecco, è la stessa identica emozione che ho provato io».
Dall’angolo compare il dirigente. «Professor D.» mi dice. «Vedo dal suo curriculum che lei ha lavorato per tre anni in Sudafrica».
«Non è assolutamente vero» rispondo.
«Ah ah ah. Simpatico. Lei è un ottimo candidato per il CLIL».
«Un nuovo sindacato?» glisso io.
«Ah ah ah. Simpatico».
La caffeina diluita in acqua viene fuori e sa del disinfettante che l’addetto ci spruzza dentro due volte al giorno. Pensare che ce l’aveva un bar questa scuola, così mi hanno raccontato i colleghi più grandi, un bel bar ad angolo, con bancone in zinco, panini, bibite, caffè e — lontano da occhi indiscreti e solo in alcuni momenti particolari — un bicchierino digestivo, anche due magari. Nel 2009 scoprirono che non era sicuro per le normative europee e lo spostarono in un’aula vuota. Anche lì non andava bene, perché per aprire un bar in una scuola bisogna fare la regolare gara di appalto e qui non era mai stata fatta e in ogni caso imponeva delle spese che a bilancio avrebbero figurato come… ma qui ho perso il filo del discorso. Fatto sta che fino al 2009 ce lo aveva un bar questa scuola, l’unica scuola ad averne uno in tutta la città e ora invece ci beviamo il disinfettante e facciamo pure la fila dietro gli studenti. Tutti tranne Calboni, che si porta il termos da casa e non sono sempre sicuro che lì dentro ci sia solo caffè e da quanto dice il suo alito in effetti le cose potrebbero stare diversamente. Così come non mi convince quella sua solita battuta, quando lo mette dentro una busta di cartone e beve così e ride e scherza: «Sai sono abituato dai tempi del proibizionismo», o la sorsata che ne dà ora, prima di entrare alla riunione del suo dipartimento.
Nell’aula 15, dove ci riuniamo noi filosofi, Gianni Mordente si schiarisce la voce: «Possiamo mettere agli atti che queste riunioni mi hanno rotto i coglioni?»
Laura Sini
Un testo mordace (o forse Mordente), ironico e sarcastico, tanto nei dialoghi quanto nello stile e nei contenuti.
Una critica non troppo velata al modernismo dilagante che fa anche della scuola e dei suoi abitanti un bene da mercificare.
Un libro che mi ha fatto divertire e riflettere…
Un grazie a Maurizio perché, tra le pagine, mi ha concesso di rivivere suoni e profumi della tarda adolescenza… Emozionante!