Continuavo a guidare, avevo lasciato la Germania e procedevo in territorio ceco lungo tratte statali. L’asfalto si faceva più sdrucciolevole, ai margini numerose costruzioni abbandonate.
Perlopiù grandi fabbriche sinistre, dai mattoni rossicci, con finestrelle frantumate collocate a tre metri da terra per impedire agli operai un tempo impiegati di scrutare all’esterno.
E ancora la vista doveva tollerare imponenti comignoli di cemento, conici, grigi, simili a cannoni puntati al cielo.
Inquietanti testimonianze dello Stalinismo.
Mi pareva di percepire lo sgomento di uomini e donne imprigionati nella morsa della miseria, costretti ad annullarsi per sfamare i propri figli. Seguitavo a fissare quei fabbricati, nella mia mente risuonava il pianto convulso di donne stuprate da capi ubriachi, madri licenziate dopo essere state private della propria identità, era come se udissi il frastuono di macchinari industriali che non poteva coprire il rumore della carne violata, il tonfo di una giovane buttata a terra che trascinava con sé una sedia cui si era aggrappata, lo stridore del seno che sfregava sulle piastrelle. Potevo figurare il sudore di quell’angelo rendere più chiaro un pavimento sudicio, gocce d’innocenza incapaci di placare l’efferatezza di un padrone.
Uffici sconsacrati dove non poteva filtrare alcuna luce.
Dovetti fermarmi. Parcheggiai invadendo una banchina ed entrai in uno di quegli edifici, spingendo una pesante porta in ferro posta a un lato dello stesso. Mossi pochi passi e mi trovai al centro della costruzione; a terra vi erano detriti edili, vetro, polvere, cartacce, materiale ossidato. Imbullonata a una parete un’orribile scala di ferro conduceva a una stanza ricavata al piano alto. Il locale del direttore.
Mi sembrava di sentire l’odore dell’urina di operai che se l’erano fatta addosso non potendo resistere sino al cambio turno, l’odore del sangue e della paura che avrebbe avvolto per sempre quelle mura.
Sedetti a terra proprio al centro dello stabile, ignorai sporcizia, topi e materiali abrasivi. Sedetti e piansi a lungo.
Quando riacquistai le forze raggiunsi il furgone e disegnai sul fianco sinistro un grande angelo, donna, con il capo chino e le ali insanguinate.
Tra le mani, tutta la cenere che poteva trattenere.
Ripartii procedendo lentamente, privo di pensieri, incoraggiato dal fatto che grandi alberi erano ancora in vita, e lunghi fiumi continuavano a scorrere.
Chilometro dopo chilometro raggiunsi una cittadina boema e decisi di fermarmi presso un supermercato per acquistare provviste. Feci buona scorta, avevo soldi in tasca. Comprai persino diverse bottiglie di vino e whisky, così da affogare con certezza i dispiaceri che ancora mi attendevano.
Andai a sedere a un tavolo che si trovava nell’area esterna del supermercato, mangiavo formaggio, sorseggiavo vino. A un tratto vidi arrivare due ragazze a bordo di una Diane6 con targa francese, le guardavo abbandonarsi a manovre improprie, alla fine, parcheggiarono a una decina di metri da me.
Pensai che due così o erano inserite nell’ambiente pubblicitario, oppure si dirigevano a una festa illegale, pericolosa, di quelle a coinvolgimento internazionale.
Era da tempo che non mi ficcavo in un rave party o roba simile e forse era giusto alleggerire un po’ la mente.
Non era certo nel mio stile domandare loro le risposte alle mie ipotesi, conveniva semplicemente seguirle, anche perché il Daily era più veloce della Diane6.
Oltretutto le due ragazze risultavano piuttosto sprovvedute viaggiando con quell’auto, se potevo seguirle io con un furgone, qualunque malintenzionato avrebbe potuto fare lo stesso.
Gli facevo da scorta. Verso sera abbandonarono un’importante statale e imboccarono un’arteria secondaria che portava fuorimano, eravamo a circa cento chilometri da Praga.
Proseguimmo lungo quella tratta, le abitazioni diventavano sempre meno, poi cominciarono le fattorie e pian piano non vi era più traccia nemmeno di quelle, finché voltammo a destra battendo una strada dissestata che conduceva a una radura, situata all’interno di un territorio boscoso.
Anche quella volta ci avevo visto giusto. Dopo una semicurva serpeggiava una fila infinita di automobili, furgoni e caravan ammassati ovunque. Alcuni lungo la strada ormai al termine, altri disposti trasversalmente tra gli alberi. Il caos… Annunciato da musica techno che rimbombava tutt’attorno.
Le due francesi avevano trovato posto fra due alberi, davvero non vedevo altre zone libere, e se avessero posteggiato più avanti possibile sarei riuscito a piazzare il Daily dietro alla loro utilitaria.
In qualche modo capirono e riuscii a mettere il furgone come avevo pensato, dopo aver faticato a lungo nelle manovre. Le ragazze avevano potuto parcheggiare a marcia avanti, mentre io dovetti entrare tra i due alberi in retromarcia per via della trazione posteriore (a marcia avanti rischiavo di piantarmi) e dell’ingombro dettato dagli specchi.
Scesi impugnando una bottiglia di liquore mentre le ragazze facevano pastrocchi sul cofano della loro auto, erano già partite di brutto. Restai sorpreso dal fatto che non mi chiesero nessun chiarimento a proposito di un pedinamento durato parecchio, con tutta probabilità dettero per scontato che pure io stavo raggiungendo quel ritrovo, e non potevano immaginare che avevo intuito la loro meta incuriosito dalla loro eccentricità.
Nonostante la musica assordante riuscivo a sentire il rumore dei sassolini spostarsi del mio cammino, mille targhe di paesi europei svelavano la massiccia affluenza di tedeschi, francesi, spagnoli, italiani, insomma, ero capitato a un ritrovo nero.
Quelli organizzati raramente, pericolosissimi, che di solito evitavo. Durante eventi come quello molta gente oltrepassa il punto di non ritorno, raggirata dal male, ingoiando sostanze stupefacenti che annientano ogni difesa e conducono dallo stordimento alla morte.
Un processo di distruzione, un avvelenamento inarrestabile che colpisce un partecipante e lo prosciuga, un’infezione dilagante che si rafforza e agisce grazie all’indifferenza di cui si nutre.
I ritrovi neri rappresentano lo stadio successivo, quello che i ragazzi non possono controllare. Sono voragini temporali sovraccariche di energia maligna alimentata da concatenazioni esponenziali di errori e menzogne barattate tra anime inermi, plagiate da un sesso chimico, sanguigno, casuale.
Attività cerebrali interrotte, fasci di particelle anomale inviate contro nuclei ionizzati, segnali sovrapposti di piacere e delirio, involucri di carne lacerati da molecole improprie.
Reazioni che non possono essere bilanciate, atomi irradiati che bramano impazienti il conseguimento della scomposizione.
La mia mente non si alleggeriva per nulla, pensavo che mi sarei applicato con una delle due francesi, e invece, avevo voglia di vomitare. Mescolarsi a quegli smidollati non era affatto stimolante; ottenevo l’ennesima riprova di quanto stupidità e distruzione altro non siano che scelte.
E se scegli male, fai in modo di calcolare se in seguito potrai rivedere la tua decisione.
Ritornai al furgone quasi subito, salii nella cabina di guida e presi a sorseggiare la mia bottiglia distendendo le gambe sul cruscotto.
Oltretutto faceva schifo persino la musica; se avessi acceso il Daily e attaccato al tubo di scappamento un altoparlante e un amplificatore, le onde sonore emesse dal motore sarebbero risultate più ritmiche e melodiche. Dalla consolle passavano pezzi da non so quante battute al minuto, roba da tachicardia, fasci di luce potentissimi venivano sparati al cielo e diffusi circolarmente, così da investire e accecare tutti quei derelitti che ancora si reggevano in piedi. Gli altri, quelle decine di falsi innocenti che erano collassati a terra, raggiunsero in qualche modo la mia coscienza facendomi decidere che era tempo di sceverare. Abbandonai quello scenario postatomico seguendo verso la statale, e quando la raggiunsi, parcheggiai il furgone per continuare a piedi diretto alla prima abitazione numerata della strada secondaria. Suonai il campanello, mi aprì un uomo visivamente impaurito. Mi scusai parlando in lingua inglese, lo avvertii di ciò che stava avvenendo nella vicina radura e lo pregai più volte di avvisare la pubblica assistenza.
Non saprò mai se quell’uomo si prestò ad aiutare quei giovani, so solo che ci speravo, mentre proseguivo alla volta di Praga. Chiaramente potevo allertare le forze mediche con il cellulare, ma non volevo farmi coinvolgere.
Avrei rischiato di essere riconosciuto attraverso tabulati telefonici, e la scelta di recarsi a piedi verso quell’abitazione fu tutt’altro che casuale.
Evitai in aggiunta che si potesse leggere la targa del furgone.
Probabilmente la paura di ritorsioni poteva bloccare l’uomo che avevo disturbato, ma davvero mi auguravo che superasse ogni esitazione. Era nella posizione di aiutare molta gente, ottenendo sicuri riconoscimenti. Io avevo fatto la mia parte, mancavo di credibilità e coraggio per fare di più.
D’un tratto prese a piovere intensamente, la violenza dell’acqua mi impediva di avanzare in sicurezza. Per fortuna mi ero allontanato di circa trenta chilometri dalla zona del ritrovo nero, e avevo appena superato una cittadina che poteva fungere da punto d’appoggio per lo smistamento dei “reduci”.
Confidando in un certo vantaggio cominciai a diminuire la velocità, ma dovevo comunque essere prudente e nascondermi; se un’auto della polizia avesse avvistato il Daily, avrebbe ricondotto gli occupanti del mezzo all’evento appena smantellato e sarei incappato nella rete dei controlli.
Tuttavia esisteva anche la possibilità che nessun allarme fosse stato inoltrato, ma conveniva credere che alle mie spalle fosse in atto un sostanzioso dispiegamento di forze d’intervento.
Ragionevolmente incazzate.
Purtroppo togliersi dalla strada non era affatto semplice; nubi sovraccariche di energia liberavano saette che frantumavano alberi, enormi masse d’aria stravolgevano cartelli stradali e deboli strutture, il vento investiva ogni cosa.
Controllavo a fatica il furgone che scodava pericolosamente.
Inoltre trovandomi in aperta campagna non potevo nemmeno seguire una strada secondaria per parcheggiare da qualche parte, considerato il mio sodalizio con la sfortuna mi sarei certamente impantanato nella fanghiglia.
Con tutta quell’acqua a terra il Daily sbandava sempre più, ma non potevo fare altro che continuare a guidare.
Cercavo di mantenere alta la concentrazione fissando i lati della strada, che dovevano appunto restare a lato del campo visivo, così da avere margine di manovra in caso di imbardata. In tal modo prospettiva e punto di fuga inchiodavano lo sguardo sulla mezzeria, permettendomi di osservare attentamente ambedue le carreggiate. Continuavo verso Praga con estrema cautela, ogni chilometro in quelle condizioni assumeva un valore decuplicato, incrociavo pochi automezzi, il movimento dei tergicristalli mi sfiniva.
Probabilmente un turista vivendo una simile circostanza sarebbe stato raggiunto da qualcosa che si avvicina allo sconforto, se alle prime armi addirittura da uno stato di panico, io cercavo di contrastare l’avvento di una rara sospensione.
Non ero più tanto convinto di essere libero, né di essere padrone della mia vita, né di essere immune alla tristezza. Non lontano da Praga, per la prima volta, sentivo la mia linfa vitale allontanarsi, assorbita ferocemente da una moltitudine di timori. Anche se avevo il culo ben piantato sul sedile mi pareva di essere alle prese con assenze di gravità, era come se il mio volto fluttuasse tra quelle nubi violacee, era come se la parte più indipendente della mia spiritualità mi stesse giudicando da un’altezza che pareva punitiva e riservata, mentre il mio corpo perdeva sensibilmente il suo significato terreno.
Una tale sospensione dura istanti ma si percepisce come interminabile; respiravo con affanno, la testa pesava sul collo oltre ogni resistenza, reagivo digrignando i denti, gridavo al mio interno, continuavo a stringere il volante con maggior forza, non volevo cedere dinnanzi all’indiscussa supremazia della sorte.
Per quanto ne sapevo poteva essere in corso l’inattesa dipartita verosimilmente annunciata da quello stato di costipazione che non avevo potuto ignorare, oppure vivevo l’origine di un malore in maniera bizzarra. Mi convinsi per ultimo che si trattò di un avvertimento quando ripresi a respirare regolarmente.
Di fatto potevo credere di aver ricevuto un messaggio cosmico, ma diffidai senza ripensamenti, anzi, ritenevo offensivo ipotizzare che le potenze superiori non apprezzassero in maniera definitiva lo spirito di sacrificio che avevo tentato di professare negli anni. Serviva ancora rimarcare il dislivello che si frappone tra il mio potere d’azione e l’onnipotenza?
Da non so quanto tempo avevo imparato ad accettare la sadica determinazione dei rispettivi ordinamenti.
E pensare che sono sempre stato un eccellente allievo. Umile, educato, e sfrontatamente terrestre. Pieno di vizi e insoddisfatto.
Alla fine desunsi che l’avvertimento provenisse dal sistema immunitario del mio organismo.
Laura Venturini (proprietario verificato)
Guardi un’immagine violacea,crepuscolare, e riconosci il ponte di una tra le città più affascinanti del mondo. Poi leggi un titolo, una seconda volta, una terza, perché pare di facile interpretazione ma qualcosa ti suggerisce che non è così. Allora entri nella scheda libro e leggi tra l’altro un aggiornamento, poche righe che ti paralizzano per qualche secondo mentre lo sguardo fissa una seconda immagine che ritrae un ragazzo inghiottito da una violenta solitudine notturna, continui a guardare e forse complici le parole riportate sopra ti pare che quel ragazzo sia quasi luminescente, che emani energia. Quindi clicchi su preordina, acquisti una copia e cominci a leggere. Le pagine volano via veloci, vive, dolci e aggressive allo stesso tempo, senza pause e incertezze, intense, nel mentre ti accorgi di quanto senso abbiano le immagini della campagna, di quanto significato assuma il titolo e di quanto meno sospese risultino disamine concettuali irrisolte per molti, di quanto siano corpose le risposte che affiorano dal testo. Poi arrivi all’ultima frase, all’ultima sillaba, al punto finale.
Terminata la lettura dell’opera è stato come se un pregiato braccialetto si fosse stretto al mio polso… un gioiello… che non mi lascerà.
Pasquale Alessandro La Montagna (proprietario verificato)
Di solito non lascio commenti su internet, ma in questo caso mi sono sentito di farlo. Il motivo è che questo libro mi ha colpito e coinvolto moltissimo. Profondo, riflessivo, positivamente complesso. Spinge a farsi domande e osservare il mondo con uno sguardo diverso. Assolutamente consigliato!