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Farfalle bianche

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Un amore che non conosce i limiti del tempo e dello spazio, che travalica i confini del corpo e si cristallizza in un momento eterno. Quante parole conosce il cuore per parlare di sé? Nessuna che renda davvero l’idea.
Eppure una donna, in una città, un giorno, impugna la penna e in un diario racconta un incontro che cambierà la sua realtà. Incontri inaspettati, attese dolorose, scoperte inaccettabili, viaggi verso l’ignoto, il perdersi e il ritrovarsi di due anime che avrebbero potuto non incontrarsi mai e invece si sono scontrate a un incrocio delle loro esistenze.
Un ritaglio di dieci anni di vita raccontato e confessato da tre diverse penne, quella di lei, quella di lui e quella di una testimone che tenta di ricostruire i fatti. Una storia di vita, di coraggio e d’amore, sull’orlo del precipizio, sempre in bilico tra la scelta di vivere e quella di arrendersi alla propria follia.

 

I QUADERNO
16 gennaio 1962
Ho visto uomini. Migliaia di uomini. Correvano. Migliaia di
uomini, donne, bambini, anziani si scontravano su una larga,
lunga, strada. Tutti uguali nell’essere così diversamente vestiti.
Non c’era panico nei loro volti, non la disperazione, non il dolore.
Vi era una certa concentrazione nei loro occhi che li rendeva
alienati, distanti, benché corressero tutti nella stessa direzione.
Andavano di fretta, era evidente, erano ansiosi. Fremevano irrequieti.
E correvano. Tutti verso uno stesso punto prospettico,
come se non avessero ognuno una propria meta a cui arrivare.
Ma ecco. Nella folla vi erano due spartiacque e intorno a
loro si creava lo stesso effetto che crea l’acqua di un fiume
quando nello scorrere incontra un masso. Ora immagina i due
sassi disposti l’uno di fronte all’altro, come se uniti formassero
una linea perpendicolare rispetto alla direzione del fiume.
Ho guardato più attentamente quegli spartiacque che le migliaia di
anime scansavano creando il vuoto subito dopo.Continua a leggere
Continua a leggere

Eravamo io e te. Io e te senza una direzione se non quella
dell’altro, io e te senza fretta, io e te senza paura di non farcela,
io e te infinitamente distanti dal mondo che pure ci sfiorava nel
correre. Noi non correvamo, noi non avevamo nulla da cercare.
Aveva già trovato ognuno quello che voleva. Ognuno aveva l’altro
e nient’altro poteva desiderare. E non ci trascinava la folla,
non ci travolgeva nel suo scorrere irruento e rapido. Le anime ci
evitavano con evidente attenzione. Non è nella natura dell’uomo
desiderare il confronto e la conoscenza del diverso. La tolleranza
oggi raggiunta ed esercitata è solo il frutto di un’evoluzione
dell’etica. L’uomo istintivamente rifiuta il diverso, così come
una leonessa lascerebbe morire un cucciolo nato deforme. E le
persone avevano paura di noi. Forse ci guardavano con sospetto,
forse con ribrezzo. Alcuni magari fingevano di ignorarci. In ogni
caso ci evitavano. Disturbavamo la visione di una fuga colossale
verso un punto zero. Rompevamo la struttura di una costruzione
prospettica perfetta. Cosa eravamo? Cosa siamo noi? Due anime
che non fanno parte del quadro? Due esseri dunque senza luogo.
Forse senza tempo. Di quale limbo facciamo parte? Da dove veniamo?
A chi apparteniamo? Chi abbraccia la nostra esistenza
così diversa e, come cuccioli deformi, continua a chiamarci figli?
Dovevamo forse nascere in un’altra vita o in un altro mondo
di cui avremmo potuto fare armonicamente parte. O forse siamo
nati per stonare con tutto. Siamo forse due tasti rotti di un
pianoforte: danneggiamo ogni composizione da esso eseguita.
Ma non ho paura. Qualcosa mi dice che il nostro essere
danneggiati e diversi serve a dare al quadro un significato che
noi oggi non capiamo. Il ritmo zoppicante di una sinfonia con
due tasti mancanti, io sono sicura sia opera di qualcuno che
ama l’umanità tanto da non volerla guardare nella sua utopica
armonia, ma nel suo verseggiare rotto, nel suo fraseggiare
frammentario, nel suo compiere in modo mai finito, nel suo
raggiungere senza mai del tutto arrivare. Qualcuno, mia stella,
io ci credo, ci ama perché siamo imperfetti.
17 gennaio 1962
Penso alla tua voce quasi ogni giorno. Il modo in cui seppe
trapelare nel mio silenzio di gomma senza distruggerlo, né
danneggiarlo. Era soffice, pulita, profonda. Scivolava addosso
come sabbia e mi lasciava sulla pelle quella polverina dorata,
a prova che l’avessi udita davvero.
Sono trascorsi sei mesi e cinque giorni da quella notte.
Chissà cosa vedesti nei miei occhi, cosa sentisti nella mia
voce, chissà perché ti trovasti sui miei passi. E io cerco e
ricerco, risalendo i fili di noi pupi per scoprire nelle mani di
quale burattinaio finiscono.
29 gennaio 1962
Oggi non mi resta che don Tonino. Poco prima di incontrarti
c’era sua moglie Nina. Ora non più e io sono una persona più sola.
Lui dice che non ho amici e, per quanto lo contraddica, in
effetti ci sono tanti volti nella mia vita, ma pochi davvero
familiari. La realtà è che gli altri guardano verso di me, ma
non fanno altro che scontrarsi con la mia timidezza e con la
mia discrezione cristallizzate. Mi si avvicinano solo per specchiarsi,
senza mai riuscire ad andare oltre se stessi.
La mia anima inquieta l’altro, lo so. Perché mi precede il
vuoto, perché non ho famiglia e quindi non ho passato. Perché
sono una parentesi nel nulla e nessuno vede in me un punto
d’appoggio solido, sicuro.
Ma poi sei arrivato tu. Ed è stato diverso. Nello stesso momento
io ero nuda dei miei specchi, e tu non hai avuto vergogna di guardarmi,
né il pudore di voltarti. Hai scrutato dentro
di me con un’attenzione tale da farmi sentire la tua presenza
fra le mie fibre. Sei entrato nella mia notte come un bambino
che non conosce paura e ti sei soffermato a osservare ogni angolo
scolpito della mia anima. La mia natura non ti ha scandalizzato,
né ti ha affascinato. Io ho la sensazione che tu ne
abbia semplicemente preso atto e l’abbia amata.
10 febbraio 1962
Un giorno vorrò vivere in una casa assolata. Una casa piccola, su
due piani. Voglio che stia a ridosso della spiaggia. A letto
la sera voglio sentire il bisbiglio del mare sulla sabbia che solletica
le onde. Voglio sentire l’acqua che ride tra i denti e fugge con un
risolino nella risacca. Voglio svegliarmi al mattino,
restare a guardarti per dieci minuti o più, mentre i raggi del
sole già inondano la stanza, come avesse anche lui un tempo
di alta e bassa marea.
Ti lamenterai che la sera prima non ho tirato le tende, perché la
luce al risveglio ti dà fastidio. Io non ti dirò che le ho lasciate
aperte per poterti ammirare alla luce dell’alba. Continuerò a guardarti,
mentre nasconderai il viso nel cuscino e io mi nasconderò con
te. E sotto le lenzuola fingerò che domani non debba arrivare e
che il tempo si sia ridotto a quegli istanti eterni di noi due.
Se davvero potessi fermare il tempo vorrei che fosse all’alba.
Un’eterna alba. Un eterno nascere, fiorire, creare. Vorrei
poter vivere con te sempre l’emozione dell’inizio, l’emozione
del prologo, di uno strumento che si accorda. Un eterno odore
di primavera, di pastafrolla che cuoce in forno. Un’infinità di
prime pagine, un eccesso di giovinezza. No, non è di morire
che ho paura. Se giungesse oggi la morte la seguirei senza
protestare. Mi basterebbe avere la certezza che anche dall’altra
parte c’è una casa sulla spiaggia in cui possiamo svegliarci al
mattino ancora abbracciati.
Ma se così non fosse, se la morte ci dovesse un giorno vedere
divisi, allora, lo sappia Dio, io vivrò in eterno e mai senza di te.
13 marzo 1962
Mancavano solo poche ore all’alba. Ti eri alzato di colpo
dal piccolo lembo di spiaggia buia e deserta dove parlavamo.
Avevi iniziato a camminare nervosamente su e giù. Poi mi hai
afferrato per un braccio e mi hai tirato su. Mi hai stretto le
spalle con entrambe le mani. Mi hai guardato, animato da una
nuova idea, esaltato quasi da quella folle nuova speranza a cui
improvvisamente ti stavi aggrappando.
«Vieni via con me! Lasceresti tutto per me? Andremo lontano,
insieme, noi soli. Ovunque tu voglia. In qualunque città,
paese, campagna, continente, purché siamo io e te!»
Rimasi in silenzio, persa, stupita. Ebbi la pessima idea di
pensarci su.
«Ci conosciamo solo da poche ore.»
Mi hai avvicinato a te sospirando. Poggiai la fronte alla tua
spalla e mi stringesti tra le braccia, mentre i nostri piedi
affondavano nella sabbia umida.
«Un treno, un aereo, una nave. Andremo lontano. In tanti
paesi, tutti diversi. Incontreremo persone, vedremo la vita in
ogni sua forma» continuavi mentre io mi lasciavo cullare dai
tuoi sogni. «Devi dirmi di sì e non avrò altro da desiderare.»
Credo che la morte di Nina due giorni prima e don Tonino ormai solo
fossero l’unica scusa plausibile per il mio rientro a casa
un paio d’ore dopo. Gli studi, gli amici, invece, erano solo stupide
bugie. In realtà non c’era niente che mi trattenesse sul serio legata
lì. Tu solo saresti potuto essere la mia casa e io non ti ho seguito.
21 marzo 1962
Tornavo dal cimitero. Ero talmente scossa che non ricordo neanche
perché non salii a casa. Lasciai don Tonino fuori
dal portone. Era invecchiato di vent’anni in due giorni. Volevo camminare,
solo camminare, e camminai tanto, probabilmente nell’assurdo tentativo
di lasciarmi alle spalle i fatti e
le immagini degli ultimi giorni. Ma quelli continuavano a inseguirmi
facendo lo stesso fracasso che fanno i barattoli e le
lattine legati coi fili alle macchine degli sposi.
Mi fermai solo quando ormai era notte inoltrata. Le scarpe
mi avevano procurato delle vesciche ai piedi. Mi sedetti sul
grosso muro che da via Caracciolo in alcuni punti separa il
marciapiede da una sottile lingua di spiaggia. Tolsi le scarpe e
feci penzolare giù le gambe.
Non sapevo che ore fossero. Deducevo che fosse tardi dal
fatto che non ci fossero automobili, persone a passeggiare,
coppie a nascondersi da occhi indiscreti.
Non so in che momento arrivasti. Un attimo prima ero sola
con gli occhi persi nella notte e un attimo dopo altri due occhi,
qualche metro più in là, vagavano nel vuoto.
Due anime del tutto fuori dal mondo, era evidente. Non è
un’anima serena quella che vive sola nella città notturna. Chi
è solo di notte ha delle colpe da scontare, dei dolori da stillare
in lacrime o una solitudine incancrenita. Avevamo entrambi
il dolore di chi stava perdendo qualcosa e nessuno dei due la
consapevolezza di ciò che stavamo per acquistare.
Rimisi le scarpe, ma una cadde giù sulla sabbia. Saltai sulla
spiaggia e solo cadendo mi resi conto di quanto fosse alto. Recuperai
la scarpa e guardai il muro altissimo. Provai ad arrampicarmi più
volte e ogni volta caddi. Stavo per tentare ancora,
ma vidi una mano. Alzai gli occhi. Un braccio, una spalla, poi
un volto. Mi guardavi. Rimanesti ancora un po’ con la mano
tesa, poi salisti anche tu sul muro e saltasti sulla spiaggia.
Se il resto del mondo leggesse, non capirebbe. Ma il resto del
mondo non siamo noi, il resto del mondo non ha i nostri occhi,
non comprende le nostre anime, non sa, non può percepire,
come lo percepivamo noi, che finalmente i pezzi si incastravano,
che ognuno di noi due trovava forma nell’altro. Avevamo
trovato il nostro senso, il perché al nostro essere diversi.
Sono venuta al mondo la notte in cui ti ho incontrato e la mia
vita non può essere durata una notte soltanto. C’è un continuo, ci
sono altre pagine, e parlano di noi. E io so che, da qualche parte
nel mondo, tu ci credi con la stessa fede con cui ci credo io.

04 maggio 2019

Evento

Cappella San Giuseppe Calasanzio - Torre del Greco (NA) Analisi e intervento critico a cura di Prof.ssa GRAZIA PAOLELLA Interventi musicali a cura del pianista ENRICO SFORZA e la soprano MARIATERESA POLESE Letture a cura di ALESSANDRA DELL’AVERSANA e ARMANDO DE SIO presentazione farfalle bianche

Commenti

  1. Recensione Blog Ti serve un libro http://tiserveunlibro.blogspot.com/
    ” Io voglio soltanto correre per il resto del niente che rimane.”

    ” Nei tuoi giorni migliori, tu portami con te. Per quelle strade della vita che non ho vissuto, nell’amore per le persone che non ho amato, portami con te.”

    ” Giochiamo a turno a fare gli adulti l’uno con l’altro. La verità è che siamo tutti figli senza genitori, tutti fragili, tutti spaventosamente terrorizzati da ciò che ci attende domani.”

    ” La vita non ha modo di decidere di se stessa”.

    Questo è il secondo romanzo edito da Bookabook che ho il piacere di leggere, per gentile concessione della casa editrice stessa. È la seconda volta che resto piacevolmente colpita dalla qualità dell’opera, se pure molto diversa dal romanzo precedentemente letto (“Un momento di chiarezza” di Silvia Trevisone, qui trovate la recensione e la spiegazione di come funziona Bookabook ) .

    Non è facile parlare di questo romanzo, proprio perchè non è una storia semplice e perchè descriverla sarebbe probabilmente riduttivo.
    Diciamo che ci sono i diari,risalenti agli anni Sessanta, di Maria, una ragazza poco più che ventenne con alle spalle una vita piuttosto complicata. In questi diari Maria descrive i suoi travagli interiori, la sua difficoltà nell’affrontare la vita quotidiana lontana da Davide, l’uomo che lei reputa la sua anima gemella, che sembra però destinato ad essere un amore essenzialmente platonico o poco più.
    La prima parte del romanzo risulta un pò difficile e confusa, si fa fatica a mettere a fuoco la storia e gli stessi personaggi, ma superato quell’attimo la storia prende pieghe inaspettate, risvolti appassionanti, per venire poi completata, verso la fine, da scritti di Davide e non solo, in un coro di tre voci distinte che farà luce sull’intera vicenda, dal passato al presente.

    Chiara Polese, qui alla sua seconda opera, sa infondere alla storia narrata una poeticità intrisa di delicatezza, che rende la sua prosa inaspettatamente potente e di una profondità introspettiva rara.
    La capacità di scavare nell’animo puro e fragile di Maria, è sicuramente qualcosa di innato, denota una sensibilità, un’empatia che non è da tutti, come non è da tutti saper rendere così bene l’ineluttabilità della vita nonchè i sentimenti che possono unire tanto profondamente un uomo e una donna, così come una madre ed un figlio, anche al di fuori dei legami di sangue.

    Per concludere, “Farfalle bianche” è un romanzo di una poeticità e profondità poco comuni, da leggere con calma ed attenzione, da assaporare pagina dopo pagina, parola dopo parola, annotando frasi che sono piccole perle letterarie, e che ci trasportano verso un finale non scontato e necessariamente doloroso, ma meritevole di essere letto e compreso appieno.

  2. (proprietario verificato)

    È difficile parlare di quello che ci fa male. Ancora più difficile è leggerne, perché le parole altrui, quando ben meditate, hanno il potere di squarciare la corazza dietro la quale ci trinceriamo. Il coraggio di affondare la kafkiana scure nel mare gelato dell’animo umano non è prerogativa comune: occorrono sensibilità, capacità di immedesimazione, grande umanità.
    Chiara Polese possiede tali doti. Il suo “Farfalle bianche” sa essere il coltello con cui frugare dentro sé stessi, quello di cui lo scrittore praghese parlava nella corrispondenza a Milena Jesenska-Polak e che ha ispirato uno dei più noti romanzi di David Grossman.
    Come accade in “Che tu sia per me il coltello”, anche in “Farfalle bianche” un solo incontro muta radicalmente un’esistenza. Alla stregua di un  sassolino lanciato in un lago quieto, esso genera un perturbazione che si propaga in onde concentriche: dopo aver incrociato la strada di Davide, Maria non sarà più la stessa. O, forse,  imparerà ad esserlo per la prima volta.
    Nel ripercorrere le tappe del viaggio, reale e metaforico, che la condurrà a Davide e alla consapevolezza di sé, Maria affida alla pagina scritta il proprio dolore, i sogni, le paure e, dopo un costante perdersi, si ritrova. Parole, quaderni, un diario che è in realtà una lunga lettera piena di gratitudine verso la persona amata e, di riflesso, verso la vita.
    “Farfalle bianche” non è il volo leggero che il titolo sembra promettere. Non plana con superficialità sugli eventi, ma scava nel loro significato. È una storia di uomini e di donne, di madri per scelta e per necessità, di figli abbandonati e accolti. È una storia di fede cieca, ma anche di dubbio, di solitudine, ma anche di solidarietà.
    Con uno stile ricco di suggestioni artistiche e letterarie, l’autrice racconta una vicenda di dolorosa intensità che proprio nella narrazione acquista senso e che si sublima, nelle pagine conclusive, grazie al potere evocativo della parola.

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Chiara Polese
CHIARA POLESE, laureata con lode in Filologia Moderna presso l’università Federico II di Napoli e diplomata in canto presso il conservatorio San Pietro a Majella, si dedica alla scrittura in versi e in prosa sin da bambina. Farfalle bianche è il suo secondo romanzo, dopo L’ultima Dubois (2012).
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