Osservai il seno. Non mi dispiaceva la floridezza naturale non ancora mortificata dagli anni e neppure le gambe, toniche e senza evidenti segni di cellulite.
Mi disturbava invece la rotondità attorno all’addome.
Passai sotto la doccia e, cosa che facevo raramente, alternai getti d’acqua calda e fredda.
Volevo svegliarmi dal torpore, ma anche levarmi di dosso le malinconie che mi stavano assalendo.
Mi ricordai in quel momento che dovevo fare un salto in posta e comprare il pane e, vista l’ora, mi concentrai sulle cose da fare.
Tirai su il letto, passai l’aspirapolvere, riordinai in cucina.
In pochi minuti ero vestita, truccata e pronta per uscire.
Vivevo a Trieste, lungo le rive, al terzo piano di una palazzina in stile neoclassico nel borgo teresiano e avevo l’abitudine di non prendere mai l’ascensore.
Nonostante vivessi da oltre trent’anni in quella casa, i miei rapporti con gli altri inquilini erano puramente formali, infatti ero piuttosto riservata: non mi piacevano le cordialità di facciata e nonostante amassi la mia città non ero mai riuscita a fare mio, fino in fondo, lo spirito triestino.
A Trieste si respira aria mitteleuropea e si nota in ogni dove, dall’architettura dei palazzi ai numerosi caffè letterari, veri gioielli dove annusare la presenza di Svevo, Joyce, Saba che trovarono in questo luogo ispirazione e accoglienza.
Ma all’austerità asburgica la città contrappone un’anima prettamente latina, picaresca, perché Trieste può essere considerata la più meridionale delle città del nord per la grande verve comunicativa e lo spirito gaudente dei triestini che amano spremere la vita fino all’ultima goccia. Vivono con “allegria” e la loro grande apertura è forse dovuta al mare; il mare fa parte del loro quotidiano, è nelle loro stanze, ne costituisce una parete insieme alla bora che quando tira, spazza via preoccupazioni e pensieri e rappresenta un ponte tra loro e un’immaginaria proiezione altrove.
Eppure io mi sentivo estranea alla città dove avevo sempre abitato, non amavo quella disinvoltura di modi, eccessi di esteriorità, piccole sguaiatezze che mi sembrava tradissero un passato non troppo lontano in cui Trieste fu squartata, occupata, mortificata in una guerra che sembrava non finisse mai. Cercavo di dare una giustificazione al mio carattere schivo, ma non ero sempre stata così. Da ragazza ero un tornado e miei genitori dovevano addirittura frenare la mia eccessiva esuberanza.
Raramente incrociavo qualcuno sulla scalinata di granito che portava all’uscita: quasi tutti prendevano l’ascensore e spesso avevo l’impressione di essere osservata lungo il grande scalone, dalla balaustra degli ultimi piani. Mi piaceva volare giù dalle scale, sentire il rimbombo che faceva lo scricchiolio delle scarpe e poi in fondo guardare in alto e sentirmi come avvolta in un’avvolgente spirale.
Appena fuori mi sentii raggelare dal freddo pungente.
Il sole di febbraio splendeva e quell’apparenza di calore traeva in inganno.
Mi strinsi nel cappottino nero, forse troppo leggero per la giornata rigida e misi i guanti che avevo in borsetta.
Il traffico della tarda mattinata mi stordì quasi subito.
Non mi ero mai abituata al caotico sferragliare metallico e a quel viavai che mi sfiorava e guardavo fissa davanti a me per non rischiare di scontrarmi con qualcuno.
Mi fermai davanti all’Ufficio postale e salii l’enorme gradinata.
Presi il numero salva coda e aspettai il mio turno pensando a cosa potesse contenere il plico che era finito in posta dopo diversi passaggi infruttuosi del Corriere.
Finalmente il mio turno.
Espletai le formalità di rito e ritirai il pacco che da forma e spessore poteva sembrare un libro.
Non resistetti alla curiosità di vedere cosa contenesse: così, lontano da occhi indiscreti, strappai l’involucro e mi trovai in mano proprio un libro, che Anna, amica storica che non vedevo e sentivo da lunghi mesi, mi aveva inviato.
Lessi il titolo: Between strangers. Era di un autore americano che non conoscevo.
3
Mentre m’incamminavo verso il piccolo market, sorridevo pensando alla mia imprevedibile amica e a cosa volesse dirmi inviandomi quel libro.
Lei era separata da anni e da quando viveva sola non si era mai sentita così viva.
Il suo ex marito era un direttore d’orchestra bravo quanto noioso.
Si erano conosciuti al Conservatorio: entrambi suonavano il violino e lei scambiò la comunione d’interessi con l’amore che non decollò mai perché in realtà, a parte la musica, erano totalmente estranei l’uno all’altra.
Il matrimonio durò qualche anno, giusto il tempo per capire che non erano mai stati una coppia e che agli errori c’è sempre rimedio.
Lui cambiò casa e continuò a girare il mondo dirigendo prestigiose orchestre; lei smise di fare la violinista e iniziò a insegnare musicologia al Conservatorio della città.
Forse avrei dovuto andare a trovarla. Erano mesi che m’invitava a Pesaro, e i miei pensieri corsero con la mente ai giorni in cui fui sua ospite nella sua bellissima casa sul mare.
Risentivo le nostre voci, in giardino, in quelle serate afose, mezzo stordite dalla fragranza del pitosforo.
Erano passati ormai due anni dall’ultima volta che ci eravamo viste. Avevo lasciato marito e figlio a sbrigarsela da soli, con un senso di colpa che non ero riuscita a scrollarmi di dosso.
Ora stavo ascoltando quella vocina interna che da un po’ di tempo mi stava spronando a riscrivere la mia vita secondo altri parametri.
Non andavo più a scuola, non avevo compiti da correggere, riunioni da fare, consigli di classe, incontri con i genitori, scrutini…il figlio era cresciuto, Leonardo era quasi sempre assorbito dal lavoro e nei miei confronti sempre più distratto.
I primi tempi del mio pensionamento, contrariamente a quanto pensassi, mi sentivo soffocare e vagavo in giro per le stanze alla ricerca di qualcosa da fare.
Avevo ridotto la presenza della colf a una volta alla settimana e per passare il tempo mi ero dedicata con maggior cura alla cucina. Mio figlio era diventato vegetariano e a me sembrò quasi provvidenziale la sua conversione alimentare.
Leggevo avidamente nuove ricette che prevedevano l’uso di nuovi alimenti e mi sbizzarrivo a mettere insieme ingredienti, anche azzardati, provando spezie dai nomi improbabili per riuscire a soddisfare i gusti di mio figlio.
«Mamma come l’hai fatto?» e mentre compiaciuta gli spiegavo i vari passaggi Leo ci guardava perplesso.
Aveva un’aria schifata, non voleva neppure provare quelli che chiamava in senso dispregiativo attentati culinari e dovevo preparargli sempre il suo piatto di riso o carne, seguito da una porzione di verdura.
Era molto parco nel mangiare. Ci teneva alla linea e mi ero accorta che negli ultimi tempi, per rimanere in forma, si era iscritto in palestra e la sera rientrava piuttosto tardi.
I primi tempi lo aspettavo per cenare insieme.
Luca la sera non c’era: viveva già da tempo per conto suo in un loft regalo del padre.
Ero quasi arrivata a casa; giusto in tempo per preparare il pranzo.
4
Avevo appena ultimato di apparecchiare la tavola che suonò il campanello.
Erano Leo e Luca e li accolsi col sorriso, come sempre.
«Allora, Gemma, quando ti sei alzata? Ho cercato di non svegliarti, stamattina…dormivi così bene! Ho bloccato la sveglia prima che suonasse e mi sono alzato nel buio.»
«In effetti, dovevo proprio essere un tronco…non ho sentito nulla e mi sono svegliata più tardi che mai.»
Luca intervenne: «da quando papà è così premuroso? Ricordo che quando si alzava, tu eri già in piedi e lui chiamava da tutte le stanze perché non trovava le cose da mettersi».
«Ah!Ah! Perché tu no? Risposi ridendo…Vi ho abituato troppo bene entrambi. Se penso che quando andavo a scuola, oltre a servire voi, dovevo cambiarmi, fare colazione al volo, truccarmi, e poi affrontare una lunga scarpinata, quando non prendevo l’automobile, mi chiedo come facessi. Avevo il tempo per tutto. Ora che sono a casa mi sento soffocare e capita che arrivi sera senza che abbia combinato niente.»
Leo tagliava la bistecca con gli occhi nel piatto. Sembrava che le mie parole non l’avessero neppure sfiorato.
Avevo spesso la sensazione, quando ero con lui, di parlare da sola. Lui annuiva, ogni tanto alzava gli occhi dal giornale, mi guardava distrattamente per ripiombare subito dopo tra le pagine del quotidiano che gli facevo trovare ogni giorno sul tavolo.
Ma mentre una volta preferiva conversare con me, ora il giornale costituiva una barriera tra noi.
Mi chiedevo cosa l’avesse portato ad allontanarsi sempre di più, sì da ridurre la nostra unione a un insieme di formalità che si reggevano soltanto su abitudini scandite e consolidate dalla lunga convivenza.
Trent’anni non sono pochi ma erano volati e se pensavo a come li avevo vissuti, la mente era attraversata da immagini piacevoli ma…da quando non facevamo più l’amore?
Me lo chiedevo spesso e non riuscivo mai a darmi una risposta convincente.
Pensavo ai cambiamenti avvenuti in me nell’ultimo periodo.
Fortunatamente ero entrata in menopausa prima di finire la scuola e a parte gli scarsi segnali di disagio sia a livello fisico che psicologico, il lavoro mi aveva preservato dal rischio di concentrarmi troppo su me stessa tanto che l’assenza del ciclo mi traghettò nella nuova condizione facendomi quasi sentire alleggerita di un peso.
Ero addirittura dimagrita e non soffrivo neppure di vampate di calore.
Anche la mia vita sessuale non ne aveva risentito ma nonostante desiderassi mio marito come prima, mi ero accorta che lui mi cercava sempre meno anche se attribuivo questo fatto all’eccessivo lavoro che lo assorbiva ancora come in gioventù.
Forse la risposta stava nella sua scelta d’intensificare il suo impegno lavorativo invece di rallentarlo nonostante fossimo benestanti e Luca si sentisse pronto a gestire lo studio in piena autonomia.
Tatiana
I
«Yuri… Yuri… scendi…. devo farti vedere una cosa.» Stavo chiamando mio fratello, più piccolo di me di un anno. Ero scesa in strada ed ero ferma davanti a un grosso albero dalle radici nodose che col tempo si erano estese a dismisura, rendendo il manto d’asfalto pieno di gobbe e crepe. Avevo in mano un piccolo riccio trovato sul ciglio della strada e volevo metterlo al riparo dal pericolo delle macchine. Lo mostravo a Yuri con orgoglio perché ero riuscita a prenderlo tra le mani senza pungermi, come la Babushka mi aveva insegnato e ora correvamo insieme nel parco per liberarlo. Trovammo un posto adatto, lo appoggiai per terra e in men che non si dica lo perdemmo di vista. In quel luogo si svolgevano i nostri giochi ma non avevo mai sopportato la crudeltà di certi bambini che torturavano piccoli animaletti per dimostrarsi grandi. Ero impietosa nei loro confronti e un po’ mi temevano perché nonostante fossi esile avevo un carattere deciso e riuscivo a impormi solo con lo sguardo. Il ritrovo preferito era lo stagno, circondato da betulle che si stagliavano alte nel cielo. Ai primi tepori d’aprile si riempiva di animali acquatici, anatre, cigni e noi, bocconi sull’erba, ci divertivamo a contare i pesci che guizzavano a pelo d’acqua. D’inverno diventava una lastra di ghiaccio e chi riusciva a far stridere con maggior forza i pattini e a sollevare la neve ghiacciata veniva guardato con ammirazione.
Il giorno in cui Yuri, nella foga delle sue sfrenate evoluzioni, si era allontanato dal gruppo diventando un puntino lontano, ci accorgemmo soltanto dalle sue urla che doveva essere successo qualcosa. Corremmo verso di lui intuendo che doveva essersi spaccata la lastra di ghiaccio e ci fermammo a qualche metro dall’enorme buco che si era formato, per evitare di cadere anche noi. Yuri era sprofondato nell’acqua gelida e appariva cianotico. Agitava le braccia e le gambe per non farsi trascinare sotto ma le forze gli stavano venendo meno. Senza esitare mi distesi sul ghiaccio e con entrambe le mani lo afferrai energicamente per le braccia mentre i miei compagni mi tiravano indietro afferrando i pattini che facevano da presa.
«Forza Yuri!» gli gridavamo concitati. «Forza! non mollare!» Yuri, in un estremo tentativo di salvezza, diede un colpo di reni e riuscì ad issarsi facendosi trainare dalla catena umana che avevamo creato. Intanto attirati dalle urla, alcuni passanti arrivarono con delle coperte e avvolsero mio fratello in modo da fargli riacquistare la temperatura corporea. Io lo tenevo stretto, cercavo di parlargli per tenerlo sveglio mentre gli accarezzavo il capo. Piangevo per la tensione e tutti intorno a me piangevano, ma erano lacrime di gioia. Quell’incidente mi fece capire quanto amassi Yuri ma mi diede anche la percezione esatta del mio coraggio.
Rosalba Margherita (proprietario verificato)
Ho effettuato il preordine e.💞… ho scaricato il pdf e ho cominciato a … innamorarmi del romanzo …lo trovo avvincente e mi sembra una vita vissuta . Colmo di particolari che ti trasportano in quei posti come se li vivessi in prima persona ….una “spettatrice” seduta ad un tavolino di un bar che ascolta con attenzione e … a questo punto non vedo l’ora che mi arrivi il cartaceo , poterlo sfogliare , leggerlo con piu’ attenzione, potermi soffermare, ritornare ad alcuni passaggi ….Averlo tra le mani mi provocherà la sensazione di poter far parte della storia … mi perderò tra le righe e … “tra le storie” …non racconto altro .. troppo intrigante … bisogna lasciare i punti interrogativi aperti altrimenti come potrei dirvi di ordinarlo già da adesso così lo potrete anche voi leggere tutto d’un fiato??? Brava Loretta Fusco un’altra perla tra le tue perle ….. <3
ENIA BOSCARATO (proprietario verificato)
In questo romanzo coesistono molti stati d’animo, che l’arricchiscono di sentimenti espressi ed inespressi, ma palpabili all’intuizione, rappresentando quello che l’umano essere ha dentro di sè.
La trama ha come sfondo il tradimento, senso di colpa, stoicismo, passione e l’amore, non tanto con la A maiuscola, bensì manipolato e condannato ad un’importanza secondaria, ma che riprende e ritorna alla propria caratteristica, attraverso il senso di libertà che primeggia su tutto.
Vi emerge Gemma, devastata dal tradimento del marito, abbandona lo stoicismo di cui si era caricata con fredda abnegazione, durante tutta la vita matrimoniale, incontrando un nuovo inaspettato amore.
Leonardo, non disdegna l’avventura che lo permea di giovinezza, per poi essere lasciato a sè stesso, nella solitudine e il peso della colpa.
Tatiana, studentessa russa in Italia, sfrutta l’opportunismo attraverso Leonardo che lascerà a riconoscere la grande illusione che si era creato.
Gli altri personaggi aiutano a capire l’intero evolversi del romanzo, che si legge con molta scioltezza. Lo raccomando vivamente!
Enia Boscarato.