Rimasto da solo nel cantiere del nartece, Diodato badò particolarmente di non avere anima viva nei paraggi, così da assiso si volse a prelevare dal pavimento il mattone che lo aveva fatto precipitare in terra.
Era proprio come Diodato immaginava: sul fondo di quella foggia in cui era coricato quel laterizio impertinente, vi era un piccolo brandello di pergamena legato con un filo di spago, che il nostro monaco slegò immediatamente senza esitazioni di sorta.
Quando Diodato ebbe aperto quel piccolo frammento di pergamena, ai suoi occhi apparve un breve testo caratterizzato da un calligrafia stentata, che lasciava presagire una scrittura affrettata e sbrigativa:
Al termine della lettura di quel presagio così nefasto Diodato fu colto da un momento di apprensione in cui numerosi pensieri saturarono velocemente la sua giovane mente: “cosa fare di questo brandello di pergamena? Portarlo al cospetto dell’Abate? E se questo biglietto stesse raccontando nient’altro che fantasie? L’Abbazia tutta si allarmerebbe inutilmente e probabilmente tutta la comunità se la prenderebbe con me; sicuramente se portassi adesso questo scritto al priore mi riderebbe in faccia, non è datato né autografato, farei la figura dello stolto.”
Quei messaggi così inquietanti erano materiale fin troppo scottante nelle mani di un giovane inesperto come Diodato, il quale in un impeto di paura e bruciante agitazione straziò quel brandello di pergamena in ulteriori frammenti che ripose prontamente nella conca del mattone.
Come se nulla fosse successo, Diodato credette di aver fatto la mossa più saggia e si diresse imperturbato all’esercizio delle proprie mansioni.
Nel frattempo, Michele giunse alla porta della cella di Guido e bussando fortemente su questa chiese più volte al nostro giovane monaco d’aprirgli.
Guido, dapprima un po’ riluttante, scelse di acconsentire alla richiesta, e non appena si aperse un varco Michele si precipitò all’interno della cella, così voltandosi di scatto intimò al nostro Guido di spiegargli la sua teoria per filo e per segno, chiudendo la porta spingendo contro di essa il suo gracile corpo.
“Spiegami questa pazzia di cui parli” esordì il cantor Michele.
“Se è così folle ai tuoi orecchi perché dovrei spiegartela” rispose Guido.
“Beh perché non ammetto che un giovane inesperto sia a conoscenza di qualcosa che io non so nell’ambito che mi compete.”
“Allora penso che avresti fatto bene a lasciarmi esporre laggiù in basilica” replicò Guido seccato.
“Sei ancora in tempo per rimediare, altrimenti sarò costretto a riferire con il priore del tuo impeto di superbia.”
“A dir il vero, tutto quel che ho detto l’ho detto mosso da intenzioni servili, con cui nulla a che vedere la superbia.”
“E da quando riesci a discernere la superbia dall’umiltà? Suppongo che tu sappia importi anche i castighi e le penitenze allora. Fai anche a meno di confessarti dall’Abate o dal priore? Perché per come parli puoi ben fare da te!”
“Semplicemente sono sicuro di ciò che avevo nel cuore quando ho deciso di condividere la mia idea, e se il priore riterrà opportuno smentirmi, che smentisca quanto dico.”
“Capisco, stai forse cercando di spingermi a conferire l’accaduto?”
“Esattamente, la ritengo la mossa più saggia.”
Michele inizialmente mirava a far crollare Guido con la minaccia di riferire al priore, ma quando sentì la sua ultima risposta rimase in silenzio a cercare di scrutare la purezza negli occhi di Guido e rimase persuaso del candore delle sue affermazioni: “Non riesci mai a smettere di regalar sorprese, fratello mio.” Dopodiché notò nuovamente le scritte sulla mano di Guido e chiese di decifrargliele.
“Anche volendo non sarebbe saggio, devo ancora perfezionare la mia idea e non sarebbe utile spiegare qualcosa di fallace, sarebbe un’assurdità” gli rispose Guido. A Michele non rimase che annuire sconsolato in segno di assenso.
“Tuttavia ti propongo di aiutarmi a svilupparla, dato che anch’avessi avuto una felice intuizione, diverrebbe necessaria la tua preparazione per codificarla” disse Guido rompendo il silenzio. Michele rimase sbalordito da una tale richiesta e non sapeva sinceramente cosa rispondere, e considerando che era salito in fretta e furia fin su la cella di Guido per far propria una teoria musicale fatta e finita, rimase in un primo momento deluso, inoltre la prospettiva di cimentarsi in un qualcosa di ignoto che non comprendeva lo spaventava non poco, per via di una certa indolenza mentale che Michele non faticò a riconoscersi. Quindi seguì una risposta da parte del cantore positiva seppure sofferta, che lo portò a essere un profondo estimatore della mente di Guido nelle giornate seguenti.
In effetti il giorno del loro primo incontro, sotto gli occhi vigili del vecchio Argo, i due ebbero modo di constatare un certo flebile legame, poiché seppur Guido rimase folgorato dai suoi modi gentili, per Michele il giovane monaco rappresentò da principio poco più che uno sventurato con il quale esercitare la carità.
Tuttavia quel pomeriggio ebbero l’occasione di misurare la stima che nutrivano l’uno per l’altro, cercando di perfezionare ipotesi e sciogliendo contraddittori.
Sia Guido che Michele presero numerosi appunti, nel tentativo di individuare una via alla soluzione del problema, perdendosi qui e là in numerose riflessioni e speculazioni sul significato della musica, del ritmo, della misura del tempo.
Al termine del pomeriggio il proponimento di formulare un metodo innovativo per ricordare le intonazioni delle varie canzoni era ancora tutt’altro che raggiunto, seppur si fossero compiuti importanti passi avanti. Così giunta sera Michele si congedò da Guido per recarsi nella sua cella.
Guido si arrovellò ancora lungamente in solitudine sulla bontà della sua intuizione, senza riuscire a esemplificarla se non attraverso dei segni, dei punti o disegnando linee. Nel mentre che continuava i suoi studi ricevette nuovamente delle visite inaspettate.
Guido ricurvo sul suo scrittoio rivolto alla finestra, sentì ancora una volta bussare con discrezione alla sua porta; quindi cominciò a sistemare il suo piano di lavoro e a riordinare sommariamente le pergamene per riporle al sicuro, allora si diresse ad aprire la porta della sua cella.
“Era ora! Disgraziato d’uno storpio.” Si trattava di Terenzio, che esordì con queste parole con al seguito i monaci che quel giorno cantarono con lui.
“Cosa succede… fratello Terenzio?!”
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