Il freddo era sempre più incombente durante l’inverno del 1978. Mentre stava per nevicare, osservavo deliziato la bellezza del lago di Garda, sul quale soffiava un vento dirompente, premonitore di un febbraio glaciale. Dopo essermi allontanato dal camino, ho fermato il giradischi e ho continuato a fumare profondamente la pipa. La densità della notte cresceva nella quiete, così ho approfittato di questi sovrumani silenzi per andare nel mio studiolo, nella mia Bottega. Era il tipico laboratorio all’italiana, dove le forme si univano ai colori dando vita alla mia creatività. Ma prima di varcare la soglia della stanza, ho parlato nuovamente con Beatrice.
Era il 1955 quando ho conosciuto per la prima volta Beatrice, la donna della mia vita.
Eravamo a Parigi, la città della luce. Eravamo entrambi due ventenni molto fortunati, perché sopravvissuti alla Seconda Guerra Mondiale. Un lusso concesso a pochi. Anche se nessuno, però, potrà mai cancellare dalla mia memoria i rimbombi dei bombardamenti. Quei bum improvvisi erano qualcosa di devastante, soprattutto per un piccolo bimbo come me, follemente innamorato della vita. Ricordo con dolore i tetti dei condomini sbriciolarsi lentamente, le esplosioni di mine antiuomo senza alcun preavviso: bum! Ricordo le grida di mia madre, i pianti dei miei amici. Ma ricordo anche le gomme da masticare degli americani (non avevo ancora capito l’importanza della loro venuta, io volevo le gomme): ricordo che l’unica che avevo, la mettevo in un bicchiere pieno d’acqua a fine giornata, sul comodino, tra il rosario e il breviario, così da masticarla il giorno dopo per altre ventiquattro ore.
Ma tornando a Beatrice, vi confesso che non appena la vidi, mi persi nel suo sorriso.
Stava osservando Notre-Dame. Non avevo saputo resistere all’innocenza del suo sguardo, al suo stupore di fronte alla cattedrale. Dunque, con ponderata accortezza, le avevo detto: “Mademoiselle, vous êtes merveilleuse comme ce grand œil qui nous regarde” (“Signorina, lei è meravigliosa come questo grande occhio che ci guarda”, in riferimento al rosone che occupa la facciata di Notre-Dame).
“Mais qui êtes-vous?” (“Ma chi è lei?”) mi aveva domandato, con l’aria spaventata di chi rifiuta uno sconosciuto.
“Je suis un ange envoyé par Dieu, parce qu’Il a vu votre souris et Il était jaloux”.
(“Sono un angelo inviato da Dio, perché Lui ha visto il suo sorriso ed era geloso”)
Lei aveva sorriso nuovamente: ecco che in me risorgeva il tipico sentimento adolescenziale che fa palpitare il sangue nelle vene degli innamorati.
“Je voudrais vous dire un autre secret: moi je ne suis pas français. Je suis italien, mais j’adore la France”.
(“Vorrei dirle un altro segreto: io non sono francese. Sono italiano, ma adoro la Francia”)
“Allora penso sia il caso di parlare italiano!” mi aveva risposto imbarazzata.
“Mio Dio, che coincidenza! Ma anche lei è italiana! Di dov’è elegantissima… signora o signorina?”.
“Signorina! Mi chiamo Beatrice Nardi e sono di Torino, ma abito con la mia famiglia a Parigi da qualche anno. Lei invece?”.
“Il mio nome è Giacomo Scalpellini, sono milanese, ma da qualche mese abito da solo sul lago di Garda, in una casa che ho ereditato dopo il decesso di mio zio”.
“Mi spiace per suo zio”.
“Non si preoccupi, era molto anziano. Come si dice in questi casi, ha veramente smesso di soffrire”. “Ma come mai qui a Parigi tutto solo?” mi aveva chiesto, dirottando il discorso verso argomenti migliori.
“Sono un pittore, sto visitando i musei europei per imparare il più possibile dai grandi del passato”.
“La pittura penso sia l’espressione più autentica della nostra sensibilità”.
Dopo questa frase, Beatrice aveva iniziato ad occupare i miei pensieri. Avevamo trascorso insieme i giorni successivi, senza che i suoi genitori se ne accorgessero. Dopo circa una settimana, il primo bacio: lasciandoci trasportare dalle note in Piazza degli Artisti, ci eravamo baciati e avevamo apprezzato il tramonto rossastro dalla cima di Montmartre. Perfino il sole sembrava commosso, oppure ero talmente innamorato da voler contagiare anche il paesaggio.
“Monsieur! Je voudrais ce chapeau, s’il vous plaît” (“Signore! Vorrei questo cappello, per favore”) avevo chiesto ad un artigiano sulla piazza “Tieni tesoro: ti amo”.
“Grazie Giacomo, è stupendo! Ti amo anch’io” mi aveva detto commossa.
Beatrice aveva subito sostituito il nuovo cappello con quello che aveva, sorridendo felice. Quel giorno vestiva un lungo tubino e una giacca con uno stretto punto vita, color pesca, e un bianco foulard le accarezzava il collo. La ammiravo, in silenzio. Mi lasciavo sedurre dalla sua bellezza come un girasole si lascia impregnare di luce.
“Bea vieni via con me. Guarda, perfino la Basilica del Sacro Cuore si è fatta garante del nostro amore – avevo detto, indicando la chiesa monumentale sul colle di Montmartre – non possiamo tradire la magia di Parigi”.
“Non posso Giacomo” mi aveva risposto piangendo “come faccio!”.
“L’amore è una battaglia: solo chi avrà voglia di combattere per lui, vincerà davvero”. Non mi davo per vinto e mi avvalevo della potenza della parola. Non potevo permettermi di perderla.
“Ti amo Giacomo, ma non posso abbandonare la mia vita: studio qui da due anni e devo ancora finire l’ultimo”.
“Bea, guardami” avevo ribattuto accarezzandole il viso “guardami e ripetimelo”.
Lei invece aveva abbassato ulteriormente lo sguardo, per poi rialzare il capo grondante di lacrime. Era scappata via, senza dire niente. Io ero rimasto davanti alla ciclopica scalinata della cattedrale, senza speranze: una pioggia improvvisa peggiorava la situazione, rendendo tutto più desolante e terribile. Restavo immobile, guardando la mia amata correre verso un taxi: la vedevo salire e allontanarsi gradualmente in mezzo a quella foschia creata dalla pioggia. Lì, sull’ultimo gradino, mi lasciavo cospargere dalle nuvole, che spaventose si riempivano sempre più: il mio pianto si fondeva con il temporale che mi devastava il viso, anche se nessuna delle gocce di pioggia era tanto grande quanto una mia lacrima.
Il giorno dopo avevo deciso di ripartire per Milano, ma fuori dall’hotel avevo notato una donna con un cappello simile a quello che avevo regalato a Beatrice.
“Bea! Cosa ci fai qui!”.
“Giacomo, la pazzia in amore è ciò che lo rende unico: senza follia sarebbe tutto troppo banale. Fuggiamo amore mio”.
“Sei bellissima” avevo risposto, custodendo gelosamente il suo faccino tra le mani.
“Grazie al nostro amore, anche tu potrai essere il protagonista di un’opera d’arte, non solo l’autore: io e te saremo il dipinto più bello della tua produzione”.
Una volta in Italia, Beatrice era la mia garanzia. Mai avrei pensato che sarebbe diventata la mia fedele alleata, la mia passionale amante, la mia gelosa compagna, la mia fidata sostenitrice, la mia dolce amica. Oggi siamo l’uno la colonna portante dell’altro, sperimentando insieme la vita alla Maricuccia. Una precisazione: avevo ereditato Villa Maricuccia qualche anno prima del nostro incontro, grazie al lascito di quel mio zio defunto, un nobile banchiere di Milano senza figli; insieme alla dimora, vi era annessa una smisurata quantità di denaro ed essendo io l’unico destinatario sul testamento, avevo ricevuto l’intera fortuna. Questo è il piccolo grande castello che custodisce la nostra fiaba.
“Bea, scusami” le ho detto continuando a fumare la pipa “Riccardo dovrà avere il prima possibile questa lettera, gliela spedisci tu per favore? Deve studiare un progetto per questo obelisco: guarda – indicando il foglio – andrà ad arricchire il giardino. Tra l’altro è una vita che non vedo Riccardo, chissà che fine avrà fatto”.
“Sicuramente l’ingegnere saprà aiutarti” ha risposto Beatrice “comunque stai tranquillo, gliela farò avere subito”.
“Ti ringrazio. Vado in Bottega: spero di disegnare qualcosa di interessante per la cima dell’obelisco. Pensavo ad un’alternativa alla solita croce, cosa ne dici?”
“Non è male! Cosa avevi in mente?”
“Forse un personaggio o un simbolo a cui dedicare il progetto. Non lo so, ci devo pensare. Comunque, se non ti chiamo prima, fatti trovare nella Stanza Onirica tra mezz’ora così beviamo una tisana insieme, va bene?”. Le ho baciato delicatamente il palmo della mano e me ne sono andato sollevato.
Vi starete chiedendo cosa sia la Stanza Onirica. Questa stanza era destinata alla conservazione delle mie passioni più grandi: una decina di librerie pienissime per l’amore verso la letteratura, innumerevoli copie di statue in gesso per la devozione all’arte, una serie di locandine della Scala per la passione verso l’opera, planisferi e mappamondi per il mio spirito avventuriero. Infine, accostato ad una parete della stanza, c’era un letto sul quale mi distendevo per fantasticare con la mente: la facilità di sognare in questa stanza aveva stabilito il nome che portava.
“Va bene, buon lavoro” mi ha detto Beatrice, salutandomi rapidamente con un dolcissimo bacio sulla guancia.
L’obelisco commissionato a Riccardo sarebbe stato un ulteriore omaggio all’estetica della villa, perché tutta la Maricuccia era intrisa d’arte. Ma mentre le luci dei lampioni in giardino si risvegliavano calde, il buio diventava padrone del giardino: io ero ancora rinchiuso in Bottega e abbozzavo idee fallimentari che gettavo nella bocca del caminetto, muovendomi impaziente intorno allo scrittoio.
Era passata mezz’ora e Beatrice mi stava aspettando. Sfregava le mani come vittima di nevrosi, districandole e intrecciandole, fino a sentire lo schioccare delle ossa.
Ad un tratto ho aperto la porta: ero un uomo stizzito, vinto dalla noia e dallo sconforto, per aver sprecato una grande quantità di tempo prezioso. Beatrice aveva riconosciuto questo mio malessere, poiché consapevole che quando creo intraprendo una durissima battaglia con me stesso, il cui esito determina il mio umore. Aveva paura ad usare parole banali, ma allo stesso tempo avrebbe voluto gettarsi tra le mie braccia. Alla fine, come sempre, le redini delle scelte le detiene l’istinto e ha urlato: “Giacomo, cos’è successo?”.
La frase di Beatrice mi è arrivata come una pietra, tanto da interrompere la mia camminata funerea. Mi sono voltato ammaccato e dolente, e con la mano aperta ho interrotto ogni altro commento: coprendomi il volto dalla vergogna, sono arrivato alla Stanza Onirica, chiudendola a chiave.
Beatrice si è seduta su una piccola poltroncina in corridoio e si domandava cosa avrebbe potuto fare per il mio animo tormentato. Pensava preoccupata, poggiando i gomiti sulle cosce e la testa fra la mani, con un musetto che faceva sporgere il labbro inferiore della boccuccia truccata.
Intanto io continuavo a pensare alla soluzione migliore per l’apice dell’obelisco: forse un santo, un uomo comune, un oggetto, un animale. Ma non mi davo pace. Ero nervoso, non riuscivo a stare fermo. Sbuffavo, mi dannavo l’anima, mi giravo e rigiravo sul letto, per poi alzarmi e riprendere a camminare come un ossesso. Ma ad un tratto ho preso un foglio, il primo che avevo a disposizione, insieme ad una matita mal temperata e ad un temperino sgangherato. Forse avevo la soluzione: dovevo disegnare una donna. Chi avrebbe dovuto occupare la sommità dell’obelisco, se non una donna? Nella sua magica complessità, la donna è semplicemente rivelatrice. Appaga, comprende e seduce con un velo di mordacità, proprio come l’arte.
“Bea, Bea! Corri, vieni qui!” urlavo euforico.
Beatrice ha sobbalzato (avevo sentito la sedia muoversi all’improvviso), ma non ha risposto subito. Si è avvicinata furtivamente alla porta della stanza, cercando di capire meglio la situazione.
“Tesoro, stai bene? Mi sono preoccupata prima… Giacomo… rispondimi!”.
Ho aperto piano piano la porta, senza desiderare altro. Ho baciato la mia amata, come il tramonto abbraccia l’orizzonte durante il suo lento calare. Essere artisti significa anche questo. L’arte, inevitabilmente, coordina e gestisce le mie giornate: dalla desolazione più totale alla pulsione più irrefrenabile. L’arte è la causa e l’effetto, l’inizio e la fine. L’arte unisce il piacere mentale ad un piacere carnale, il sogno al desiderio: il sesso, conseguenza dell’ispirazione, poteva sembrare la componente più trascurabile del nostro legame, ma nella sua apparente trascurabilità ci permetteva di essere leali. Anche in questo modo il nostro amore cresceva giorno dopo giorno e durava da sempre. Non eravamo ipocriti nel riconoscere al sesso il suo valore prezioso, indiscutibilmente necessario. L’attrazione mentale era importante tanto quanto l’attrazione fisica.
Dopo l’ebrezza massima, Beatrice era distesa sul letto e dormiva spensierata: così ho colto l’attimo e l’ho ritratta. Era nuda, avvolta da una morbida coperta che ne esaltava le forme: ho nominato questo dipinto “Innocenza”, frutto del piacere più vero. E lasciato il bozzetto sul comodino, mi sono avvicinato a lei per addormentarmi, approfittando del poco tempo rimasto per riposare.
Purtroppo però, nel giro di qualche ora, il sole aveva già divorato ogni brandello di notte, tanto da disturbare la vista con uno dei suoi raggi infuocati. Mi sono accorto dell’incombenza della luce e ho deciso di prepararmi. Mi sono vestito come se fossi un’opera vivente. Ho indossato una giacca marrone, ben chiusa grazie ai suoi cinque bottoni, e un dolcevita bianco dal morbido cotone, che avvolgeva il collo sbarbato. Il pantalone grigio poggiava su un paio di scarpe alte, con un accenno di tacco: la conclusione trionfale di questo mio autoritratto era affidata ad un paio di guanti chiarissimi, prodotti dal miglior artigiano del lago di Garda.
Dopo aver bevuto la mia solita tazza di tè (rigorosamente bollente e non zuccherata), sono tornato in camera da letto per rivedere il neonato disegno: per la prima volta il mio perfezionismo è stato sopraffatto da un oggettivo apprezzamento e, sempre per la prima volta, ho sorriso di fronte ad una mia opera, molto probabilmente perché ho riconosciuto in essa una piccola parte della mia amata.
Ho portato l’opera in Bottega. La solitudine della stanza generava un silenzio magnifico, assordante, in quel momento necessario: una condizione di tranquillità in cui il mio estro poteva mostrarsi e sedere di fianco a me per collaborare all’opera.
Beatrice si è risvegliata poco dopo la mia uscita di scena, avvolta da una felicità nuovissima come sorta dal pennello di un pittore. Dopo aver fatto colazione, non trovandomi altrove, si è diretta verso la Bottega: la porta era chiusa, ma ha riconosciuto la presenza di qualcuno; ha origliato silenziosamente e quanto sentito ha sconvolto la sua serenità: da quel momento continuava a percorrere senza sosta il corridoio della Maricuccia, come se fosse in preda ad un’inquietudine strana. Quello che aveva sentito aveva provocato in lei un turbamento incontenibile, allontanando la volontà di riabbracciarmi dopo la nottata trascorsa insieme (tra l’altro ancora ignara del ritratto al quale stavo lavorando).
Milena Ferrati (proprietario verificato)
<>. Sono trascorsi più di quarant’anni e, ciononostante, ci si sente comunque immersi in quell’atmosfera cupa e corrotta che accompagna i passi del protagonista Giacomo Scalpellini, dall’amata e apparentemente impenetrabile Sirmione all’ambigua e ambivalente città dei Papi.
Nato vent’anni dopo il periodo che racconta, Davide Chindamo sembra aver toccato con mano la fragilità profonda che attanaglia la società italiana del tempo, in bilico tra un benessere ormai agli sgoccioli e l’orrore degli anni di piombo. Con una verve di reminiscenza dannunziana e uno stile agli albori ma già sicuro di sé, “Il trionfo dell’Arte” fa emergere il proprio grido di protesta come un fascio di luce alla Caravaggio, che illumina all’improvviso la scena oscura che si sta contemplando. Quale viatico migliore per resistere e rispondere ai colpi bassi della logica del guadagno e dell’assenza di umanità? La risposta è semplice e, allo stesso tempo, incredibilmente complessa: l’Arte, con la A maiuscola, quella perseguita da un uomo e da una donna che si districano nella tetraggine di una Roma che rigurgita violenza ma anche possibilità di redenzione, se solo la si vuole trovare. Un’etica priva di connotazioni moralistiche o prescrittive, che si rivela una guida naturale e una scelta di vita per ricercare la vera Bellezza, anche dove spesso è impossibile scorgerla. Così, nel travagliato 1978 come nel faticoso 2020 ormai al suo crepuscolo, quale ruolo ha un Artista se non uscire dalla sua bolla dorata e immergersi fino al collo nella putrida palude della realtà, priva di mistificazioni? È tempo di prendere una decisione.
Riccardo Fumagalli (proprietario verificato)
Un libro molto interessante e accattivante perchè è il giusto connubio tra diversi generi di romanzo, dal giallo al storico passando per alcuni spunti filosofici.
Molto scorrevole alla lettura, viene creata molta suspense dall’autore nel lettore, aspetto che incuriosisce molto chi legge.
Consiglio caldamente la lettura di questo romanzo perchè genera molti spunti riflessioni su tematiche importanti della vita, quali l’amicizia, l’amore e la responsabilità. Inoltre, offre spunti di riflessione sull’IO, sulla propria anima e personalità.