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La falena dalle ali d’ombra

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C’è una cittadina, piccola e pallida, e c’è un fiume che la taglia a metà. Valentine Kain abita lì, in un quartiere popolare in cui la sua inadeguatezza passa inosservata. È un attore, ha ventotto anni, un aspetto anonimo, un paio di occhi penetranti e una mente piuttosto confusa. Vive una quotidianità in apparenza poco interessante, ma la sua insolita storia è segnata da qualcosa di sinistro: una lunga serie di omicidi. Valentine uccide da quando era bambino, e lo fa senza particolari restrizioni: compagni, insegnanti, attori, mendicanti, la sua stessa madre, così cinica ed egocentrica da venir assassinata ripetutamente.

CAPITOLO 1
«Sono forse le immagini intorno a noi presagio di imminenti futuri?
Il fumo di una sigaretta che brucia di rosso nel
buio, le luci di Natale sul gelsomino spoglio, il cielo grigio di
notte che si fa spazio tra i palazzi. È forse il tempo del buio
che avanza a inghiottire lo spirito, che invano cerca di far
bruciare la sua debole fiamma? Ogni luce è spenta nelle finestre vicine,
neppure la luna, pallida, si concede.Continua a leggere
Continua a leggere


E dietroil vetro della mia esistenza, solo,
cerco di immaginare il significato
di ciò che vedo. È spoglio l’inverno davanti a me, e
tutto ciò che dovrebbe essere rinascita ora mi pare congelato
in un limbo di ghiaccio. Muovo dei passi, in un mondo che
non mi appartiene, e cerco di capire perché la strada che calpesto
mi appare così distante. Sento la solitudine avvolgermi
nella sua stretta densa e la vedo attorno ai corpi abbandonati
di tutti i passanti. L’abbraccio di due amanti è tutto ciò
che rende palpabile la mia presenza e in quest’abbraccio io
consumo tutto ciò che sono. Individui siamo, così avidi di noi
stessi e così poco consapevoli della nostra solitudine. Cos’è
un uomo, se un altro uomo non lo vede? Il fantasma di un sogno
che al mattino svanisce? Che la notte duri per sempre
allora, perché il mio fantasma continui a sembrare reale agli
occhi di chi mi sogna e ai miei occhi. Fuggono i pensieri dal
mio stesso giudizio, si disperdono come serpenti sottili per
non farsi capire dai miei occhi vigili. Ma preme il respiro per
uscire dal petto e inondare con la sua presenza l’aria intera,
che sopra i tetti nuda corre. Viva vuole essere l’anima mia
che in un deserto di Tartari è abbandonata, sotto il controllo
del tempo nemico che arriva implacabile a ricordare ciò che
non è stato. Ed ecco tra i profili di muri apparire una luce.
Tenue e calda si dichiara da una finestra chiusa e chissà se
anch’essa è presagio di fiammelle future.»
«Stooop! Non ci siamo. Non funziona.»
«Mi sembrava buono.»
«Buono? Cos’è che non ti è chiaro della frase “Terminare
con una nota di positività”?»
«Il contesto, Jas. Niente più, niente meno che il contesto!
Qui si consuma una tragedia!»
«Ma non devi restare incollato al testo, Val! Interpretalo,
leggi i significati nascosti tra le righe!»
«Non ci sono significati nascosti, è questo il punto! Prova
a seguirmi solo per un momento: il protagonista è intrappolato
in una specie di limbo, costretto a rivivere ogni giorno
la stessa identica insoddisfazione, la stessa frustrazione di
sentirsi vittima di un sopruso non dimostrabile. Cosa c’è di
positivo in tutto questo?»
«L’atteggiamento, ecco cosa! Non vederla come una resa,
piuttosto come una presa di coscienza del suo pessimismo.
Lui sa qual è il suo limite e nel momento stesso in cui lo scopre,
quel limite, diventa cura. Capisci, adesso?»
«Sinceramente no.»
«Senti, non intendo perdere tempo in discussioni interminabili che
non portano da nessuna parte! Limitati a farla
più positiva, va bene?»
«Non va bene per niente! Scusami, Jasper, non riesco a
interpretare un testo se non ne capisco il significato.»
«Ma tu non devi capire, Valentine! Ci siamo noi registi
per trovare significati, voi attori dovete limitarvi a metter-
ci il bel faccino e imparare le quattro stronzate del copione.
Tutto chiaro? Possiamo ripartire adesso?»
«Ehi, non mi sta bene che tu ti rivolga a me in questi termini!
Sono un attore serio io, non uno dei tuoi studentelli
senza talento! Se la mia faccia non è su tutte le locandine è
solo perché mi sono sempre rifiutato di leccare il culo a registelli
da quattro soldi, insignificanti, privi di talento e… e…
grassi come te!»
Ma tra “rifiutato” e “leccare il culo” il telefono di Jasper
squillò, rendendo le parole di Valentine solo un lontano brusio.
«Carissima, scusa se non ti ho richiamato, ma sono giornate infernali.
Stiamo preparando lo spettacolo, una versione
dell’Amleto rivista da me… Certo che ho riscritto io il testo…
Tutta colpa degli attori, se ne trovasse uno capace al giorno d’oggi!»
Jasper chiacchierava animatamente passeggiando sul
bordo del palcoscenico, le sue parole squillavano qua e là
incuranti del silenzio, delle prove e di Valentine! L’attore se
ne stava sullo sfondo a sentirsi vomitare addosso l’ennesima
umiliazione, mentre un’acidità a cui era ormai avvezzo iniziava
a risalirgli lungo le pareti dell’esofago. Valeva davvero
la pena sudarsi ogni battuta per quattro spiccioli e un’ora di
fama? Sentiva il sangue caldo arrampicarsi nel torace, riempirgli
la testa, entrargli negli occhi. La rabbia lo accecava. Ma non era
solo quella; un faretto gli puntava dritto in
faccia. Strano che non l’abbia notato prima, pensò mentre
stringeva gli occhi. Indietreggiò di qualche passo togliendosi
dalla direzione della luce. C’era un pesante proiettore fissato
alla trave, era tenuto da un gancio, il faretto era nel mezzo.
Un istante dopo si udì un cigolio graffiante. Jasper, immerso
nella telefonata, neppure se ne accorse.
Val si sporse in avanti per guardare meglio e vide il gancio
cedere sotto il peso del marchingegno.
«Jas, è meglio che ti sposti.»
Il regista era sempre di spalle, con una mano reggeva il
telefono mentre con l’altra gesticolava in maniera teatrale.
«Jas, te lo ripeto, levati da lì.»
«Non vedi che sono al telefono? Perché invece di perdere
tempo non ti eserciti? La tua interpretazione faceva schifo!»
Si voltò solo un istante, il tempo di rivolgergli uno sguardo
sdegnato, poi riprese la telefonata.
«Scusami, cara, questi attori sono ingestibili. Dov’eravamo?»
Valentine si fermò, la sua volontà pure. Guardò il gancio
piegarsi sempre più velocemente, mentre il proiettore, che
scivolava verso il basso, aveva preso a dondolare riempiendo
la scena di effetti di luce coreografici. L’attore era immobile
nel mezzo dello spettacolo, stringendo a sé quel copione
cambiato all’ultimo minuto. Avrebbe potuto gridare, perché
Jasper si spaventasse, o correre e spingerlo via. Ma non fece
nulla, semplicemente restò fermo. E più le luci dondolavano
e il ferro cigolante si tendeva, più gli pareva di sentirne in
bocca il sapore metallico. Fino a che… Sbam!
Solo il sibilo della massa che precipitava nel vuoto, poi un
rumore sordo, ovattato, come se avesse schiacciato un enorme
pancake. La testa di Jasper, o ciò che ne restava, era spiaccicata
come poltiglia sotto il proiettore caduto, mentre un faretto, ancora
inspiegabilmente acceso, illuminava alcuni piccoli
brandelli di cervello schizzati lontano. Val se ne stava in piedi,
con le braccia conserte e un’espressione appagata sul viso.
«Te l’avevo detto che c’era della drammaticità nella scena» disse.
La testa di Jasper era ancora attaccata al resto del corpo
e nella mano sinistra, esanime, vibrava il cellulare acceso.
Mi chiamo Valentine Julian Kain, e sono un assassino.
La mia non è una pulsione psicopatica e non uccido su commissione.
Sono una persona per bene, pago le tasse, innaffio
le piante badando a non farle sgocciolare sul balcone del piano
di sotto, porto i cani dei vicini al parco ogni mattina e non ho
mai fatto del male a qualcuno che non meritasse davvero di
ricevere una lezione. Si potrebbe dire che la mia è una sorta
di missione, affidatami da un Dio in cui non credo, ma che
onoro. Ho ucciso il mio compagno di banco delle elementari, il
professore di matematica del college, mia madre, mia sorella
Charlotte e diverse fidanzate che in questi anni hanno fatto
davvero di tutto per meritarsi la punizione. Non ho mai ucciso
i miei cani, anche se spesso se lo sarebbero meritato, ma io non
ammazzo animali, mi fa impressione!
E ora eccomi qui a guardare il corpo inerme di questo
squallido regista di second’ordine, ma lui a essere onesti non
l’ho proprio ucciso io. Anche se mi sarebbe piaciuto. Non posso
prendermi onori che non mi appartengono. Diciamo che stavolta è stato
solo merito del fato, io mi sono limitato a restare fermo, non gli ho
neppure dato una spintarella. Certe cose
vanno così, anche se non le spingi tu, succedono da sole, perché in
fondo siamo tutti pedine di qualcosa di più grande, in
cui non credo, ma che onoro.
Mi chiamo Valentine Julian Kain e questo è il mio monologo.
«Valentine, perché te ne stai lì imbambolato? Non vedi
che ho finito la telefonata, possiamo riprendere per favore?»
«Sì, Jasper, subito. Come dicevi di volerlo, più positivo?»

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Francesca Di Maro
Francesca Di Maro, nata a Napoli nel 1982, vive a Milano dove lavora nel settore pubblicitario. La falena dalle ali d’ombra è il suo primo romanzo.
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