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La lezione di Mandelli

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L’ultimo anno di liceo è finalmente arrivato e Lorenzo non vede l’ora di uscire da quella prigione. Per fortuna ci sono le serate all’Hemingway, i suoi amici di sempre e la leggerezza dei diciotto anni.
Eppure le cose stanno per cambiare: Lorenzo per la prima volta si innamora, anche se la sua felicità non è destinata a durare. Dopo l’amara delusione, tutto il suo mondo sembra crollare.
Ma la vita presenta sempre delle sorprese: arriverà l’università, amici straordinari e altre avventure da vivere e, forse, anche un nuovo amore.

Capitolo uno
Settembre, ultimo giorno di vacanza prima della ripresa della scuola. Era tardi, forse mezzogiorno, quando sentii squillare il mio cellulare sul comodino. Non risposi, appena sveglio non avevo voglia di parlare con nessuno, soprattutto dopo una serata come quella che avevo passato. Non ricordavo nulla, quindi non poteva che essere stata una serataccia. Fatti accaduti solo qualche ora prima mi sembravano lontani anni luce, cose da ripescare sul fondo della mia mente, da mettere a fuoco faticosamente. Nella mia testa venivano proiettate luci e voci, fumo e oscurità: c’erano cocktail, birra, sigarette e una ragazza che non riconoscevo. Forse un bacio, forse.Continua a leggere
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Faceva caldo, avevo la schiena sudata e appiccicata alla maglietta ma sentivo i piedi freddi sospesi nel vuoto. Uscivano di una quindicina di centimetri dal fondo del letto. Ero cresciuto più del previsto nell’ultimo anno e mezzo ed era assolutamente arrivato il momento di comprarne uno nuovo. Mi riaddormentai.
Dopo quelli che mi sembrarono solo pochi istanti, il cellulare squillò di nuovo, ma non risposi ancora una volta. Mi girai sul lato destro del mio giovane corpo per cercare un angolo fresco nel letto, ma i miei occhi furono trafitti da un raggio di sole proveniente dalla finestra che mi costrinse a rigirarmi di scatto con un mugolio d’insofferenza. A quel punto fui dolorosamente costretto ad aprirli.
Mi sollevai sui gomiti, ebbi un leggero giramento di testa e misi lentamente e panoramicamente a fuoco la mia stanza. La scrivania era un disastro: c’erano una valanga di dischi ammucchiati senza ordine, il computer affogava tra le bottiglie di Coca-Cola finite e le carte delle merendine. Quel libro di inglese si trovava placidamente là sopra da almeno due mesi, immobile, a pagina 51. Non sembrava per nulla turbato da quello che lo circondava. Vidi un pacchetto di sigarette vuoto, le chiavi del motorino e un paio di magliette sporche. Mia madre si rifiutava di mettere in ordine quello schifo e si aspettava che da un giorno all’altro l’avrei fatto io. Io aspettavo che lei si stancasse di aspettare e che lo facesse per me. Il risultato era la mia camera da letto ridotta come una fogna di Calcutta. La parete alla quale era appoggiata la scrivania era dedicata a una grande bacheca, una di quelle di sughero che potete trovare in una qualsiasi aula di liceo. Nella mia però non c’erano scritte che inneggiavano a folli amori adolescenziali, bestemmie o suggerimenti su quello che avrebbe dovuto fare la madre di un certo professore; c’erano appese disordinatamente locandine di concerti, biglietti del cinema, vecchie figurine, liste di canzoni da scaricare, qualche disegno e sulla destra un paio di foto. Sul muro accanto alla finestra stava per staccarsi il poster di Alex Turner e quello non potevo assolutamente permetterlo. Più tardi l’avrei messo a posto, così sarebbe tornato in piena forma a troneggiare fra una vecchia foto mia e di mia sorella da una parte e il poster di Star Wars dall’altra. La finestra era leggermente aperta, non abbastanza per far entrare un po’ d’aria, ma abbastanza per far entrare quel maledetto raggio di luce che mi aveva accecato qualche secondo prima. Lì, confinato in un angolo, c’era l’amplificatore al quale non ricordavo di aver appoggiato la chitarra la sera precedente, poco prima di uscire. La parete vicino a quella del letto era occupata da un piccolo divano a due posti, dal quale potevo comodamente guardare la televisione. Dietro il divano, sul muro, erano appese in maniera sparsa delle foto di me da bambino che mi dimenticavo sempre di togliere. Ogni volta che entrava qualcuno per la prima volta in camera mia era imbarazzante dover spiegare perché alla mia età avessi ancora le foto di quel carnevale in cui mi ero vestito da Spiderman o di quando avevo fatto la prima comunione. Ovviamente per mia madre erano reliquie sacre. Sul pavimento, nemmeno quelli al loro posto, vidi un paio di skinny grigio scuro appallottolati, una calza e un paio di Vans nere, tutto quello che indossavo la sera precedente. Ricordavo anche una maglietta nera. La trovai buttata sulla mia sedia. Guardandola più attentamente mi accorsi di qualcosa che non andava. Decisi che era arrivato il momento di alzarsi dal letto e stancamente mi trascinai fino alla sedia. Ebbi un altro leggero giramento di testa nel tragitto. A quel punto sollevai la mia maglietta nera tenendola tra indici e pollici e vidi uno squarcio che partiva dal collo e arrivava al fianco destro. Cazzo, pensai. La mia attenzione cadde di nuovo sui pantaloni appallottolati sul pavimento, riappoggiai la maglietta sulla sedia e tirandoli su sentii, prima ancora di vederla, una terrificante chiazza di vomito tra il giallognolo e l’arancione. Era secca e puzzava da impazzire, mi chiesi come avessi fatto a non accorgermi prima di quello schifo. Ebbi un altro giramento di testa, però stavolta sembrava molto più forte dei precedenti. Le gambe mi si stavano lentamente squagliando, dei brividi freddi mi percorsero velocemente la schiena e il mio diaframma ebbe un spasmo d’avvertimento. Non so nemmeno dove trovai la forza, ma buttai per terra i pantaloni, aprii la porta della mia camera, arrivai fino al bagno, mi inginocchiai, infilai la testa nel water e cominciai a vomitare cercando di farlo il più silenziosamente possibile. Tutto questo in quella che a me parve una frazione di secondo. Una volta finito tornai in piedi e mi guardai allo specchio, avevo gli occhi rossi e un angolo della mia bocca era ancora sporco. Mi chiesi cosa avessi combinato di male per meritarmi quel riflesso. Mi lavai la faccia e i denti, ma prima di uscire dal bagno tesi l’orecchio per sentire se qualcuno si fosse accorto di qualcosa: silenzio. Uscii per accertarmi che non ci fosse nessuno e almeno quella volta fui fortunato. Tornato in camera, trovai un sacchetto, ci misi dentro i pantaloni e la maglietta squarciata e lo infilai in fondo a un armadio. A loro avrei pensato a tempo debito.
Stavo lasciando la camera per andare in cucina a fare colazione quando sentii squillare il telefono per la terza volta, guardai lo schermo ed ebbi una sorta di epifania: bastò leggere il nome di Pietro per farmi tornare in mente quello che era successo. Certo, non proprio tutto, ma almeno a grandi linee il quadro della situazione sembrava schiarirsi.
Eravamo usciti per bere una cosa, come ogni sera da quando eravamo tornati tutti dalle vacanze. Si ammazzava il tempo aspettando l’inevitabile. All’Hemingway, Pietro aveva incontrato alcuni suoi compagni di classe seduti a un tavolo, così ci eravamo seduti insieme per bere in compagnia. Dopo le dovute presentazioni, mi ricordai che aveva continuato a ripetermi che mancava una certa Laura, una sua compagna di classe della quale mi aveva parlato talmente tante volte che ormai non stavo più nemmeno ad ascoltarlo. Diciamo che quando il Signore, o chi per lui, distribuiva il killer instinct con l’altro sesso, il buon P. era in coda per l’imbranataggine. Prendete questa Laura: non aveva il coraggio di dirle nulla, si teneva tutto dentro e continuava a chiedermi se fosse il caso di parlarle prima o poi. Quando gli facevo presente che erano due anni che gli dicevo di buttarsi, lui annuiva lentamente, bofonchiava qualcosa e tornava a fissare i lacci delle scarpe. La settimana dopo eravamo punto e a capo.
Pietro era veramente perso per questa Laura, ma era troppo timido per non aspettare che le cose succedessero da sé. Nemmeno noi, che eravamo i suoi amici, afferrammo subito con cosa avessimo a che fare. Purtroppo lo facemmo solo dopo, completamente a nostre spese, chi in un modo e chi nell’altro, chi prima e chi dopo.
Ma torniamo a noi, avremo tempo e modo di raccontare quelle storie. Eravamo usciti dal locale e io stavo parlando con una ragazza di cui ricordavo a malapena il viso, doveva essere anche lei una compagna di classe del buon Pietro. Ecco, a questo punto c’era un buco nero. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare. Mi trovavo seduto su una panchina ancora in compagnia della ragazza di cui non ricordavo nemmeno il nome, ma intorno adesso non c’era nessuno. Eravamo solo io e lei. Avevo tirato fuori da fumare e stavo preparando quando lei mi aveva preso per una mano, mi aveva tirato a sé e mi aveva baciato senza alcun preavviso. Altro piccolo buco nero al quale erano seguiti rumore di stoffa strappata e di conati di vomito. Buco nero. Risveglio di quella mattina.
Tornai alla realtà, il telefono stava ancora squillando e Pietro aspettava ancora che qualcuno rispondesse.
«Pronto…»
Quella non poteva essere la mia voce, pensai.
«Cazzo, finalmente! Sono due ore che ti chiamo!»
«Scusa, Peter, stavo dormendo…»
«Vai, tranquillo…»
Mi bastarono poche sillabe per capire che non c’era da andare tranquilli. Aveva una voce debole e rassegnata e io mi preparai al peggio. «Dimmi.» Respirai.
«Niente, hai presente Laura, la mia compagna di classe?»
Adesso capite perché non voglio parlare con nessuno appena sveglio?
«Sì, certo…»
Sperai per un secondo che in qualche modo avesse combinato qualcosa, nel bene o nel male. Speravo in una meravigliosa dichiarazione d’amore degna di tale nome o in un fallimentare farfugliare senza senso. Conoscendolo avrei scommesso tutto sulla seconda, ma sarebbe stato comunque un passo avanti. Giurai a me stesso di sbattergli il telefono in faccia nel caso avesse ricominciato, poi me ne pentii. Volevo troppo bene a P.
«Ecco, ieri sera ho parlato con gli altri e mi han detto che cambia scuola». Gli rimase un filo di voce a cui appendersi.
«Ah sì? E dove si trasferisce?» Mi sentii in colpa nel rendermi conto che in realtà non mi importava nulla.
«Al Verga.» Sobbalzai. Pronunciò il nome della mia scuola come se fosse l’annuncio funesto della fine del mondo. Io, solo sentendola nominare, sentii un altro conato di vomito, ed ebbi la piena, fatale e struggente consapevolezza che le vacanze estive sarebbero finite quel giorno. Ecco risalire vecchi odi e infinite faide che pensavo di aver sepolto sotto due mesi d’estate. Provai a smettere di pensarci. Troppo tardi.
A ogni modo, avrei voluto dire a P. un sacco di cose, che certe occasioni nella vita non capitano due volte e che sta a noi non farcele sfuggire, o che se avesse seguito da subito i miei consigli starebbe con Laura da una vita, ma non dissi nulla. Avrei almeno potuto provare a rincuorarlo in un momento che per lui era così difficile, ma le parole non mi uscirono. Non era del tutto colpa mia, appena sveglio non voglio parlare con nessuno. In realtà, nascosta nel profondo, una piccola parte di me sorrideva sadicamente. Mi guardai intorno per verificare che non se ne fosse accorto nessuno, ma la mia stanza era vuota.
Riattaccai il telefono, ma non prima di avergli promesso che sarei passato a casa sua nel pomeriggio per parlarne meglio, anche se in tutta sincerità non ne avevo nessuna voglia. Però Pietro non si abbandonava, mai. Era uno dei pochi doveri che la vita mi imponeva. Nonostante avessimo la stessa età, in alcune situazioni mi sentivo come un fratello maggiore per lui. Con le ragazze, per esempio, ero sempre stato un passo avanti. Con la matematica no, ma quella non era importante.
Mi diressi verso la cucina per mangiare finalmente qualcosa e per un po’ non pensai più a P. e alle sue lagne esistenziali.
Ovviamente in quel momento non potevo sapere quanto quella telefonata avrebbe rivoluzionato la mia vita e nemmeno come Laura sarebbe entrata a farne parte per sempre. Anzi, ci misi parecchio tempo a capire tutto.

Quel pomeriggio passai a casa di P. a prenderlo e facemmo una passeggiata a piedi. Il pensiero che non avrebbe più visto Laura lo uccideva veramente, e guardarlo in faccia era mille volte peggio che ascoltarlo al telefono. Mi faceva piangere il cuore. Ci fumammo un po’ d’erba seduti su una panchina al parco, fregandocene completamente delle famigliole che ci giravano intorno e ci guardavano sospettosamente. I genitori prendevano in fretta e furia i bambini sottobraccio e se ne andavano, come se stessero assistendo a un omicidio o come se i loro figli di tre anni riuscissero a capire la differenza tra il fumo di una canna e quello delle sigarette che i loro genitori fumavano tranquillamente di fronte a loro. Facemmo un altro noioso giretto, stavolta passando per la piazza, comprammo le cartine e riaccompagnai Pietro a casa. Era più depresso di prima, ma riuscii comunque a convincerlo a uscire quella sera. Sarebbe stato un disperato tentativo, l’ennesimo, di migliorarci vicendevolmente le esistenze in un momento in cui non si poteva far altro che migliorare.
Entrai in casa esattamente nel momento in cui sulla tavola era apparsa la cena. Mangiai qualcosa trattenendo la nausea che mi portavo dietro da quella mattina e cercando di evitare qualunque tipo di futile e noioso farfugliare che i miei scambiavano per conversazione. Non è che non volessi bene ai miei genitori e a mia sorella, solo che da un paio d’anni a quella parte mi sembrava che vivessimo su due pianeti diversi: non avevamo nulla in comune a parte la tavola dove mangiavamo e il tetto sotto il quale dormivamo. Mia sorella passava le sue giornate a studiare, mio padre mi parlava a malapena dopo che avevo lasciato il calcio e mia madre, la vera padrona di casa, era il collante che cercava di tenerci uniti.
Mi feci una doccia e uscii con i capelli ancora bagnati. Al bar non trovai nessuno ma mi sedetti comunque al nostro tavolo e mi feci portare una birra. Gli altri arrivarono con delle facce che non potevano che essere il riflesso della mia. Sconsolate e incredule, erano le facce di chi si era rassegnato alla fine dell’estate.
Non ci furono grandi bevute, ma solo occhi spenti che guardavano le bottiglie di birra vuote. Chiunque a quel tavolo avrebbe pagato tutto l’oro del mondo perché quella sera non finisse mai.
Pietro fu il primo ad andarsene, avrebbe preferito non uscire e lo capii all’istante. Non insistetti nemmeno perché mi facesse compagnia come al solito. Io e lui eravamo sempre i primi ad arrivare e gli ultimi ad andarcene. Esisteva tra di noi il tacito accordo di trovarci dieci minuti prima di tutti e di tornare a casa dieci minuti dopo. Ci fumavamo una sigaretta o due, ci raccontavamo la giornata o ci dicevamo cazzate, non importava. Era il nostro piccolo rito. Quella sera Pietro se ne andò per primo, ma andava bene così.
Una ventina di minuti dopo di lui, a uno a uno, gli altri cominciarono a tornare a casa e alla fine rimasi con Dario a bere l’ennesima birra. Dopo un quarto d’ora mi abbandonò anche lui. «Oh, Lo-Lorenzino, s’è fatta una certa ora e do-domani devo prendere la metro all’alba…» raccolse il pacchetto di sigarette dal tavolo e si alzò. Salutai anche lui e finii la birra da solo, esattamente come qualche ora prima, soltanto che ormai non c’era più nessuno e Frank, il burbero proprietario dell’Hemingway, doveva chiudere. Alzandomi mi accorsi di essere alticcio. Non era una di quelle sbronze che ricordi – o non ricordi – con piacere, ma una di quelle tristi, quando ti viene solo voglia di dormire e risvegliarti mesi e mesi dopo. Mi accesi una sigaretta e tornai barcollando a casa. Dormivano tutti, ma appena entrato feci cadere goffamente le chiavi, che fecero un baccano del diavolo. Quel suono metallico rimbombò nel corridoio, o solo nella mia testa, per una ventina di secondi, ma per fortuna non si svegliò nessuno. Arrivai al bagno evitando i muri che mi stavano cadendo addosso e mi lavai i denti. Ripensai al vomito di quella mattina e mi ricordai della ragazza senza volto che doveva avermi baciato. Chissà chi diavolo era. Non lo scoprii mai.
Mi sorrisi compiaciuto allo specchio, nonostante tutto. Il mio viso era ancora abbronzato e non c’era l’ombra di un’occhiaia. Le cose sarebbero cambiate molto presto, e non per il meglio.
Entrai in camera mia. C’erano ancora vestiti dappertutto, il pacchetto di sigarette vuoto era ancora sulla mia scrivania insieme a tutte quelle magliette sporche. Il libro di inglese era ancora placidamente lì, immobile, a pagina 51.
Alzarsi dal letto, il mattino seguente, fu terribilmente faticoso. Mi gustai appieno quei magnifici secondi prima di svegliarmi definitivamente in quell’incubo che sarebbe stato il primo giorno di scuola. Mi trascinai in cucina con una forza che nemmeno speravo di avere a quell’ora e feci una colazione tranquilla almeno fino a quando non alzai la testa e guardai l’orologio appeso vicino al frigorifero: ero già in ritardo. Non ero ancora del tutto sveglio ed ero già in ritardo. Abbandonai ogni cosa così com’era e schizzai a lavarmi faccia e denti. Affidai le ultime residue speranze di svegliarmi all’acqua gelata che usciva dal lavandino, senza troppo successo. In meno di cinque minuti ero pronto a uscire: zaino in spalla, occhiali da sole e chiavi della macchina in mano. Avevo preso la patente solo da una settimana e quella era la prima volta che andavo a scuola in auto. Mia madre mi fece una testa così prima di lasciarmi uscire e persi il conto delle volte in cui mi disse di andare piano. Ovviamente in questo modo mi fece perdere altro tempo, tempo che non avevo.
La mia scuola era a una quindicina di chilometri di distanza da dove abitavo. Erano cinque fermate di metropolitana oppure una decina di minuti in macchina. Certo, una decina di minuti senza calcolare il traffico del primo lunedì mattina al rientro dalle vacanze estive. Ci impiegai mezz’ora piena, arrivai davanti alla scuola quando i cancelli erano già chiusi e fui costretto a parcheggiare la macchina fuori. La giornata era partita male, ma sarebbe proseguita peggio.
Davanti ai miei occhi si ergeva il liceo Giovanni Verga, croce più che delizia della mia adolescenza. Era una costruzione imponente, solida e di un verde scuro inquietante, circondata da un enorme giardino sempre molto curato e a sua volta cinto da una spessa cancellata. Descritto così potrebbe sembrare uno di quei college dove mia madre avrebbe sempre voluto mandarmi d’estate per farmi studiare inglese, ma in realtà era più che altro una versione lussureggiante di una prigione. Sul lato ovest si trovava il parcheggio per le macchine, mentre sul lato est c’erano la pista di atletica, un campo da calcio e uno da basket. Tutto quello che c’era intorno era qualche blocco di condomini in costruzione e campagna a perdita d’occhio, nient’altro.
Mi fermai a osservarlo. Il Verga mi rivolse il suo sguardo famelico, come un mostro gigante davanti a una piccola preda inerme. Il cancelletto vicino a quello più grande era rimasto aperto, perciò riuscii a entrare e mi avviai verso l’ingresso. Più mi avvicinavo e più la luce del sole veniva divorata dall’ombra della mia scuola, ma io camminavo senza paura perché, fino a prova contraria, contro il grande mostro verde avevo vinto sempre io. Fino a quel momento, per lo meno.
Dopo aver salutato Gigi, il bidello, salii al secondo piano pregando qualunque santo ci fosse all’ascolto di non trovare la professoressa di tedesco in classe. Bussai e aprii la porta in un unico gesto.
«Oh, signor Neri…»
Evidentemente, nel caso ci fossero, i santi non stavano ascoltando le mie preghiere. Riconobbi immediatamente il timbro troppo nasale di Frau Moretti. Alzai lo sguardo al cielo pensando: Dai, ma seriamente? Poi sfoggiai la più disperata delle mie smorfie. La professoressa proseguì pungente e sarcastica: «Siamo in ritardo, eh? Questo suo ultimo anno non poteva cominciare meglio!».
Odiavo quando mi dava del lei.
«Mi dispiace, professoressa, mi scusi. Le prometto che non succederà più». Collezionai sedici ritardi solo nel primo quadrimestre.
Un paio di occhiolini e cenni d’intesa con qualche mio compagno di classe prima di sedere all’ultimo banco vicino alla finestra, opportunamente lasciato libero da tutti gli altri.
In genere i primi giorni di scuola passavano velocemente: si correggevano i compiti delle vacanze e i professori ci illustravano i programmi delle loro materie mentre noi non facevamo altro che guardare il sole fuori dalla finestra, che non era mai stato così splendente. Quell’anno però sarebbe stato l’ultimo, sarebbe stato diverso. Con il passare dei giorni, delle ore, dei secondi, avrebbe preso sempre più corpo il fantasma della maturità. Nel clima di terrore che di lì a poco si sarebbe instaurato, io ero il piccolo più esile e indifeso del nido: nel caso ci fosse stato qualcuno da fare fuori, non potevo che essere io.
Ovviamente non avevo aperto libro durante quei mesi. Cazzo, avevo da fare. La Moretti ci avrebbe messo la mano sul fuoco fino al gomito e mi chiese i compiti delle vacanze senza indugiare ulteriormente. Avrei dovuto leggere uno stupido libro in tedesco e rispondere a una decina di domande di analisi del testo. Il libro era di una quarantina di pagine e il lavoro totale avrebbe richiesto probabilmente mezzo pomeriggio, ma non avevo mai nemmeno preso in considerazione l’idea di farlo. Non esisteva una vera ragione, semplicemente non volevo.
Le dissi la verità nuda e cruda: «Non li ho fatti, professoressa, avevo da fare…». La mia insolenza fu accolta da un serie di risatine. Ma la Moretti non rideva affatto. Mi beccai immediatamente un 3. Me l’ero proprio meritato.
Non avevo nemmeno tirato fuori un quaderno dallo zaino che l’anno era già in salita. Sorridevo e mi godevo il mio piccolo momento di gloria, ma in quel momento nemmeno immaginavo quanto sarebbe stata dura.
Furono tre ore interminabili, ma alla fine suonò la campanella dell’intervallo e ci liberammo di quella strega della Moretti. Avevo decisamente bisogno di una sigaretta. Uscendo salutai finalmente i miei compagni di classe come si deve e cominciammo immediatamente i racconti delle nostre estati, ma nello scendere le scale che ci avrebbero portato in cortile incrociai uno sguardo conosciuto. Ci misi un secondo di troppo ma riconobbi gli occhi nocciola di Stefania Bramati, la mia ex ragazza. Ebbi un piccolo sussulto, come una fitta nelle costole. Se il senso di colpa fosse un organo del nostro corpo probabilmente risiederebbe lì. Certo che se quella povera ragazza avesse saputo la verità su cosa era successo l’anno prima, probabilmente avrebbe usato la stessa mano con la quale mi stava gentilmente salutando per ficcarmi un coltello nella schiena.
Eravamo stati insieme praticamente per tutto il quarto anno: lei era dolce, bella, educata, riservata e dai modi gentili. Io ero un’affascinante testa di cazzo. I primi mesi passarono velocemente e meravigliosamente; per quello che ne sapevo quello era amore. Ma ne sapevo troppo poco e me ne accorsi una sera di metà primavera, quando andai alla festa di compleanno di una mia compagna di classe, Valentina.
Valentina aveva una casa monumentale con annesso giardino in un paese non lontano dal mio nella provincia milanese e ogni anno, verso fine aprile, organizzava la sua maledetta festa di compleanno. Valentina era amica di Stefania da parecchio tempo, avevano fatto le elementari insieme prima che Vale si trasferisse nella reggia qualche chilometro più in là, ma erano rimaste comunque in contatto. Si erano ritrovate con entusiasmo al Verga, una studiava lingue con me, l’altra faceva il classico. Una meravigliosa storia di amicizie ritrovate, insomma. Stefania però non sapeva cosa mi scriveva la sua cara amica nel cuore della notte, non sapeva come cercava il mio sguardo tra un’ora e l’altra, non sapeva quanto il mio baricentro fosse attratto da quello di Valentina. Avevo fatto i salti mortali perché la cosa non fosse di dominio pubblico, la posta in gioco era troppo alta.
Finché non rimaniamo soli, sono salvo, pensavo.
Sapevo che la sera della festa Stefania non ci sarebbe stata, forse era malata o forse aveva un impegno, perciò portai con me un paio di amici. Arrivammo senza fretta di fronte alla reggia, parcheggiammo i motorini di fianco all’enorme cancello d’ingresso ed entrammo. Quel giardino megagalattico era pieno di ragazzi e ragazze che ballavano, c’era un tavolo con talmente tante bottiglie che sembrava di essere al supermercato, la musica faceva un fracasso infernale e una miriade di luci balenavano in ogni direzione. Rimanemmo un attimo piacevolmente storditi da tutto ciò. Dietro il giardino si trovava la caserma che, illuminata dal basso, sembrava fosse ancora più maestosa. Per pagare una casa del genere ci sarebbero volute un paio di vite di stipendio dei miei genitori, forse tre. Era veramente una figata.
Facemmo cinque passi in direzione del tavolo con le bottiglie, dieci al massimo, quando Valentina ci venne incontro sorridendo, come se ci stesse aspettando impazientemente da almeno un paio d’ore. Niente, era una bomba. Mi fece gelare il sangue e sudare nello stesso momento. Aveva i lunghi capelli mori sciolti che le si appoggiavano sulle spalle e indossava un vestito azzurro davvero troppo corto. Seguii le due spalline sottilissime che andavano dal collo sempre più giù, sempre più giù, fino a ricongiungersi al centro del suo petto. A quel punto mi persi un attimo, ma abbassai lo sguardo sulle sue caviglie giusto in tempo, poco prima che lei si accorgesse da cosa era attratta la mia attenzione. Ma, abbassato lo sguardo, la situazione non era migliore. Purtroppo dei tacchi da vertigini le slanciavano le gambe fino alle stelle. La guardai dal basso verso l’alto, sempre più su, sempre più su, e mi accorsi che le gambe incontravano la stoffa del vestito troppo tardi per non far impazzire la mia immaginazione. Trasalii, mi ripresi in fretta e pensai alla mia ragazza, che non era con me, e al bene che mi voleva.
Dopo averci accolto e ringraziato per essere venuti e dopo le dovute presentazioni i miei amici non ce la facevano più, sentivano il bisogno fisico di lanciarsi in mezzo alla folla, perciò li lasciai andare. Valentina mi guardò e mi disse: «E Stefania?».
Le risposi cercando di guardarla in faccia: «Ha un impegno, ti fa comunque gli auguri».
Le si illuminarono per un millesimo di secondo gli occhi. Fu solo per un attimo, ma io me ne accorsi.
«Che peccato, mi avrebbe fatto piacere vederla…» rispose. Non era vero e lo sapevo bene, ma cosa avrei potuto dire?
«Be’, se hai bisogno di me sono in giro…»
Mi sorrise, mi fece l’occhiolino e si allontanò mettendosi la cannuccia del suo cocktail in bocca. Iperventilai.
Ritrovai i miei amici, cercai di raffreddare i bollenti spiriti bevendo una birra con loro e cercando il più possibile di evitare Valentina, ma ovunque andassi i nostri sguardi continuavano a cercarsi e a trovarsi magneticamente. Non poteva essere sempre un caso. Cominciai a pensare che il modo in cui si sarebbe conclusa la serata non sarebbe dipeso solamente da me: qualcuno o qualcosa voleva che finisse in quella maniera. Io al caso non ci credevo, credevo in un disegno sovrannaturale e nell’allineamento dei pianeti, o forse cercavo solamente una giustificazione. La festa fu davvero clamorosa, io continuai a bere e a bere e a bere, P. mi passò roba da fumare e tutto il resto divenne una nuvola di fumo spesso e denso.
Mi dimenticai di Valentina e non la vidi per quella che mi sembrò un’oretta. Tirai un sospiro di sollievo quando mi resi conto che forse le leggi della probabilità mi stavano dando una tregua e mi ritrovai, ancora una volta, senza i miei amici, a parlare con un tizio che avevo conosciuto lì, anche lui mezzo ubriaco. Improvvisamente sentii il tremendo bisogno di urinare. Ma quanto avevo bevuto? Salutai il tizio e attraversai il giardino facendomi spazio tra una miriade di persone e raggiungendo con fatica l’entrata della casa. La grande porta verde smeraldo era spalancata e mostrava un ingresso illuminato da una luce calda e accogliente. C’era un ragazzo addormentato sul parquet con la testa appoggiata a una pianta ornamentale, forse aveva vomitato ma da quella distanza non si capiva. Non indagai ulteriormente, un po’ considerati i precedenti e un po’ perché sarei stato costretto a pisciargli addosso. Proseguii, il bagno doveva essere di sopra. Cominciai a salire le scale e trovai seduti il buon Pietro e una ragazza che limonavano senza ritegno, lei era piuttosto bruttina e lui doveva essere piuttosto ubriaco: una coppia perfetta. Li evitai accuratamente, tanto che non si accorsero nemmeno di me, e salii. Il bagno era libero, grazie a Dio, e feci una pisciata di circa tre minuti cercando di evitare di pensare al vomito a pochi centimetri dalle mie scarpe. Quando finii mi sentii talmente leggero che nella mia ubriachezza pensai di prendere il volo. Cristo se avevo bevuto. Guardai allo specchio la mia immagine leggermente distorta e ancora una volta mi chiesi cosa avessi combinato per meritarmi un riflesso del genere, mi diedi un paio di schiaffetti e mi lavai la faccia per riprendermi. Sembrava funzionare. Uscii dal bagno e feci tre passi in direzione delle scale per scendere di nuovo alla festa quando sentii il rumore di impazienti scarpe col tacco che si avvicinavano velocemente. Qualcuno mi prese la mano, mi portò in una camera e chiuse la porta alle nostre spalle. Un attimo di silenzio. Prima di poter dire qualunque cosa fui sbattuto contro un armadio e, alla tenue luce di una lampada in un angolo della stanza, vidi Valentina gettarsi addosso a me e baciarmi. Lì per lì rimasi immobile come una statua, i miei occhi terrorizzati cercavano aiuto in ogni angolo della stanza, ma qualche istante dopo fui come dolcemente anestetizzato e abbandonai le mie mani rassegnate alla sua schiena, poi sempre più giù, sempre più giù. Iniziò a sbottonarmi la camicia continuando a baciarmi, come se temesse che, una volta lasciate libere le mie labbra, sarei scappato. Forse l’avrei fatto davvero. No, forse il mio cervello l’avrebbe fatto. Il resto del corpo era già un pezzo avanti, ma nella direzione opposta.
C’era ancora una minuscola possibilità di salvezza per me, non ero ancora al punto di non ritorno. Lei, come se mi avesse letto nel pensiero, mi prese per mano e mi trascinò su quello che presumevo fosse il suo letto. Non mi opposi minimamente, non avevo più nessun controllo sulla mia carne. Rimase in piedi di fianco al letto, si spogliò velocemente e mi guardò. Non mi diede il tempo di dire quello che avrei voluto dire, che avrei dovuto dire. Si sdraiò su di me, sinuosa come un serpente, e mi baciò ancora, questa volta molto più lentamente.
Mentre il calore delle sue labbra accarezzava le mie pensai per un attimo a Stefania, giuro che lo feci, ma ormai era troppo tardi.
Dopo quella sera ebbi la piena convinzione di non essere innamorato di Stefania. Promisi a Valentina che non sarebbe mai più accaduta una cosa del genere e lei fu d’accordo. Non accadde per circa una settimana. Poi incontrai Valentina quasi tutte le sere per tutta l’estate e, divorato dal senso di colpa, lasciai finalmente Stefania. La lasciai in lacrime davanti al portone di casa sua, io me ne andai senza nemmeno girarmi per un ultimo sguardo, come fanno i duri. Non avevo mai vissuto una scena così atroce in tutta la mia vita.
Non vedevo Stefania da quella sera. L’attesa di una sua reazione fu breve ma estenuante, poi lei alzò la mano per un cenno di saluto e mi sorrise. Non sospettava ancora nulla di quello che era successo con Valentina, non ero nemmeno tanto sicuro che a quel punto gliene sarebbe fregato ancora qualcosa.
Tirai un sospiro di sollievo che solo chi l’ha fatta veramente grossa può capire e apprezzare, poi mi resi conto che, in fondo e senza davvero sapere perché, avrei preferito una reazione diversa. Scesi in cortile a fumare una benedetta sigaretta, non ci pensai più.
Dall’altra parte del cortile, manco a dirlo, c’era Valentina con una sigaretta tra le labbra. Mi accorsi dei suoi occhi azzurri puntati su di me. Avevo gli occhiali da sole ma lei sapeva che anch’io la stavo guardando. Quella sera, a casa sua, feci il miglior sesso della mia vita.

30 dicembre 2018

Fuoridalcomune.it

A questo link l'intervista al magazine online Fuori dal Comune. Si è trattato di rispondere ad alcune domande riguardanti il crowdfunding, il romanzo, la sua nascita ed eventuali progetti futuri.
15 dicembre 2018

Evento

Biblioteca Franco Galato di Gorgonzola (MI)
Presentazione della campagna di crowdfunding per il romanzo La lezione di Mandelli, una serie di letture direttamente dal testo e a seguire aperitivo.

Commenti

  1. Andrea Rescalli

    (proprietario verificato)

    Finito. Ci ho messo un po’ più del previsto, me lo sono assaporato diciamo. È una bomba, fluente, moderno, ritmato, ci stai dietro molto volentieri. Mi sono emozionato varie volte. L’autore entra dentro alle cose e questo personalmente lo adoro. Insomma è un libro da 10 secondo me. Consiglio.

  2. (proprietario verificato)

    Congratulazioni per avere raggiunto un traguardo così importante.Ti auguro un brillante futuro pieno di successi.

  3. Letizia Sebastiani

    Sono enormemente incuriosita dalla sinossi!
    Ordino al volo e ti mando un grande in bocca al lupo per la sicura pubblicazione!!

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Michele Bianco
classe 1992, nato e cresciuto nella provincia
est milanese, laureato in Lettere Moderne presso l’Università degli
Studi di Milano.
La lezione di Mandelli è il suo primo romanzo.
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