CAPITOLO UNO
C’era una ragazza.
Era lì, alla vista di tutti, e si muoveva con estrema attenzione.
Voglio dire, il bello era che ogni movimento aveva un significato.
Aveva una piuma in mano, una comunissima piuma bianca,
leggermente ricurva come possono essere le piume. A terra,
pezzi di corteccia di palma di varie dimensioni.
Ne prese uno, tenendolo in orizzontale; sull’estremità vi
pose, in equilibrio, il calamo della piuma.
Poi prese un altro pezzo più lungo della medesima corteccia e,
con gesti ancor più misurati, pose l’estremità del primo
pezzo, che già reggeva la piuma, sulla punta di quest’altro.
Si muoveva lenta, leggera, ma tutto in lei era attenzione.
La parola esatta è attenzione.
E significato.
Ed esatto.
Queste, le tre parole che descrivono quei movimenti.
Non potevano essere sbagliati. E, per essere esatti, dovevano
essere attenti. Attenti ed esatti, affinché si realizzasse il
significato.
Continuò ancora, con un altro ramo di corteccia, ancora
più lungo dei precedenti, ponendo l’ultimo di quelli sopra
quest’altro, affinché, a catena, ciascuno reggesse quello di
prima.
C’era anche la musica, perché la vita si svolge dentro una
sinfonia, un coro armonico di suoni che ci accompagna nel
percorso.
Una musica che cadenzava i suoi gesti.
Essenziali.
Ecco una quarta parola.
Né un gesto in più, né uno in meno.
Quelli giusti, affinché non fossero sbagliati.
Ed era sempre attenta a che ogni suo movimento percorresse
l’esatto spazio, perché se così non fosse stato, si sarebbe
perso il significato.
E continuò ancora così, con un altro ramo di corteccia ancora
più lungo, a comporre una sorta di scheletro primordiale
che, in ultimo, reggeva la piuma.
Tredici rami aggiunse, uno alla volta, e l’insieme era controbilanciato
dall’elemento più piccolo fra tutti, il più insignificante,
il più leggero, quello che classificheremmo senza
peso alcuno.
Infine, sollevò un bastone da terra, lo pose in piedi e su di
esso collocò quell’enorme gioco di contrappesi.
Rimasero in piedi, sospesi su un grande vuoto, ma stavano
lì, edificati con cura, con attenzione ed esatta ponderazione
degli equilibri, come la più stabile delle costruzioni.
Si voltò a guardare lo spettacolo, come se non le appartenesse più.
Tutti quei rami, l’uno a sorreggere l’altro, con intersezioni in punti
precisi, trovavano il loro senso, una collocazione esatta, in
funzione ciascuno della propria misura e, tutti
quanti, con l’unico maestoso significato di reggere lei,
la regina dell’inconsistenza, la soavità dell’infinitesimo, la piuma.
Ciascuno di quei tredici rami era retto, all’estremità posteriore,
da quello più grande. Dall’altro lato, ciascuno reggeva
a sua volta quello più piccolo. Solo da un’angolatura esterna
si poteva avere la visione prospettica della perfezione di
quell’insieme. Più bello di una cattedrale, pensai. Una
celebrazione, l’osanna alla perfezione dell’universo.
D’un tratto, sembrava fosse andata via, la ragazza tornò
indietro sui suoi passi.
Diede ancora uno sguardo al soave intreccio, poi, con
naturalezza, prese la piuma.
E tutto quel gioco di equilibri, quell’attenta, precisa, esatta
costruzione, crollò.
Non il significato, però.
Quello rimase.
CAPITOLO DUE
Equilibri.
Lo scorrere della vita assomiglia a quel gioco di equilibri,
quello formato da quei rami di corteccia.
Più passano gli anni e più si intensifica il sistema degli
equilibri.
E ciascuno di noi è un equilibrista.
È il percorso, Leo, il percorso che ciascuno compie. Prima
di me, i miei genitori, dopo di me, tu e tuo fratello.
I padri e le madri non sono più bravi né sono esenti da
errori: semplicemente, hanno percorso il cammino prima dei figli.
Me la sono presa all’inizio, me la sono presa non poco.
Con me stesso, con ciascuno, non so.
Per tutte le ragioni o torti del caso.
Poi ho voluto guardare meglio. Anzi, ho voluto guardare e
basta. Guardare, osservare, guardarmi dentro.
Per capire, per capirmi e per capirti.
Sai Leo, hai un grande pregio, stai sul punto, non molli, su di
esso costruisci le geometrie della vita.
Come a calcio, come quando ci giocavi, eri il play maker, il
regista del gioco. Osservavi, un solo colpo d’occhio, e capivi
gli assetti, quello degli avversari e quello dei tuoi compagni
di squadra. E fra essi lanciavi quello messo meglio. Perché lo
scopo è arrivare all’obiettivo.
Ma è meglio fare un po’ di conti, Leo, ciascuno con la propria
vita. Perché è così, ciascuno percorre la propria passerella.
A me non piace guardarmi indietro, sai?
Eppure, penso a te, a voi due, e devo guardarmi indietro.
Devo capire come è stato per me, come sono stato figlio,
come tuo nonno mi fu padre.
Per arrivare a dirti le cose, Leo, a dirti di me, a leggerti le
mie ragioni prima che diventino solo torti o ragioni.
CAPITOLO TRE
Me lo ricordo, mio padre, tu non lo hai conosciuto.
Lo guardavo da bambino, vedevo le sue braccia forti. Lo
ammiravo, credo. D’estate indossava una specie di polo di quei
tempi, azzurrina. Sotto, la classica canottiera bianca a righe
verticali. Erano ben evidenti i bicipiti, non il petto.
Quando non metteva la brillantina sui capelli pettinati
all’indietro, il ciuffo davanti scendeva sul lato sinistro della
fronte a formare una mezzaluna che arrivava fino all’angolo
dell’occhio.
Mia madre lo preferiva senza baffi. A me invece ha sempre
affascinato la foto di quando li portava. Non è un fatto estetico,
ma lo ricordo così: capello che scende a sinistra e baffi.
E viso fiero.
Lo ricordo, o meglio, la mia memoria ha fissato l’immagine
di una foto, di quando mi teneva in braccio. Io piccolino, con
un berretto bianco e tondo, e lui ritto sulla sua schiena ben
strutturata.
Lo ricordo anche nel viso che abbiamo scelto, io e mia madre,
per immortalarlo perennemente sulla lapide.
Perché va detto, la foto della lapide, quella che la ditta realizza
sull’ovale di ceramica, quella è perenne.
È la foto definitiva. In quella, aveva un viso già scavato. Era
stata ricavata da una foto che aveva fatto con me in un’occasione
particolare, una festa o un compleanno.
Nella foto integrale, io comparivo magro e brutto, con un
viso quasi da teschio, con gli occhi infossati e gli zigomi troppo
marcati rispetto all’ampiezza della fronte. Lui già provato
dalle fatiche di una vita spesa a costruire case.
“Alla fine della sua vita” avremmo detto.
Oppure anche “nella sua vecchiaia”.
Se non fosse che morì persino prima di percepire la pensione.
Il cranio gli si era allungato dalla fronte per tutta la parte
superiore, come una specie di pallone da rugby.
Il suo viso smagrito sottostava a una calotta di capelli scuri,
sempre impomatati e portati, come diceva lui, alla Mascagni.
Chi fosse, poi, questo Mascagni, lo scoprii molto più tardi, e
per puro spirito di curiosità, nell’epoca del web.
Pietro Mascagni, compositore italiano, vissuto a cavallo fra
l’Ottocento e il Novecento.
Che poi, a guardare le foto di questo Mascagni quando era
giovane vien fuori che avesse una capigliatura molto folta e
ribelle.
Solo in età più attempata mio padre cominciò a portarli
così, all’indietro e impomatati. Ma probabilmente, nel suo
immaginario, o per le foto che gli passarono davanti, Mascagni era così.
Con quei capelli e quell’aspetto.
A me piaceva quello sguardo sempre fiero e sicuro. Mi appariva
forte quando ero piccolo. Mi sembrava il tipo d’uomo
che si accolla ogni preoccupazione, che risolve ogni situazione
ingarbugliata.
Quando ero bambino, a ridosso del monte Ventoux, l’inverno
della Provenza era piuttosto freddo e non avevamo il riscaldamento.
La nostra casa era su due piani: primo e secondo.
Al primo piano si arrivava attraverso una scala molto stretta.
Il gabinetto non era nel bagno del primo piano: si trovava a
pianterreno appena subito dopo il portone d’ingresso.
Chissà perché poi.
Il bagno del primo piano aveva invece la vasca, il lavabo e il
bidet. Al piano superiore, le due stanze da letto, le porte una
di fronte all’altra. E un altro bagno, accanto alla mia porta,
con una chiusura a rotella molto dura.
C’era freddo d’inverno.
Molto freddo.
Mio padre prendeva una latta, ai tempi si diceva una boîte,
alla francese, e vi metteva dentro un po’ di gasolio, o non so
che tipo esattamente di combustibile.
Poi l’accendeva e la poneva nella mia stanza, a un metro circa
dal mio letto e ben visibile dal loro, tramite le due porte
aperte. A riscaldarmi non era quel fuoco, ben inteso, ma la sua
vista. Le fiammelle guizzanti mi cullavano più di un dondolo e
mi facevano dimenticare il freddo.
Le coperte a strati facevano il resto.
Quando ebbi cinque o sei anni eravamo davvero poveri.
Anche prima, probabilmente, ma non era accaduto ancora
nulla che mi permettesse di diventarne, a quella età, consapevole.
Quel Natale non potevano permettersi nulla. Ma davvero
nulla. Mio zio, il fratello maggiore di mio padre, colui che di
fatto prendeva le decisioni nell’impresa edile, non aveva dato
neppure un acconto sulla paga.
Io, bambino, non conoscevo ancora queste meccaniche della vita.
La televisione e l’asilo, corruttori dell’animo umano sin dalla nascita
e grande veicolo di informazioni primordiali, avevano impresso
l’equazione nota a tutti i bambini.
Natale uguale regali.
Altro che Gesù bambino e quant’altro.
Non ebbero il coraggio di spiegarmi che non avrei avuto regali.
Non li biasimo oggi per questo.
Non potevano.
E questo era un fatto.
D’altronde, come spiegarlo a un bambino nel cui display
mentale lampeggiano doni multicolori?
Arrivò la mattina di Natale, quella in cui si va sotto l’albero
e si scartano i regali. Gesù bambino, caso mai, viene dopo. E
per dovere.
Nonostante le avvisaglie riferitemi con i modi e le cautele
maldestre di cui erano stati capaci, trovai un pacco incartato
sotto l’alberello smunto.
Era il mio regalo!
Alla fine, almeno un regalo era spuntato.
Almeno uno.
Lo scartai con un sorriso ingenuo, forse anche con quella
primissima malizia con cui si pensa che i grandi mettono le
mani avanti ma poi ti accontentano. Tutta una strategia per
farti essere più buono e menate varie. Ma io ancora non sapevo
ancora cosa fosse una strategia e quali fossero le modalità
con cui i genitori cercano di educare i figli.
L’unica cosa che sapevo allora, quella che il mio piccolo cervello
era in grado di recepire, era che non avrei avuto regali. E
invece eccone uno qui.
Sembra banale dirlo, ma fu un indicibile dolore.
Un bambino non sa associare il significato recondito al tipo
di dolore provato. Ricordo solo la delusione e la rabbia.
Mi avevano incartato un giocattolo già mio.
Probabilmente pensavano che un bambino non capisse.
Probabilmente pensavano che un bambino non avesse memoria.
Probabilmente non capivano che i bambini, proprio perché hanno
meno cose da ricordare, si attaccano molto di più a
quelle poche che entrano a far parte del loro mondo.
“Probabilmente un cazzo!” mi verrebbe da dire oggi da adulto.
Non serve ricordare che nei paesi del terzo mondo i bambini
muoiono di fame e vivono in condizioni peggiori, molto
peggiori.
Non c’entra affatto.
Io vivevo in quella società e in essa si costruiva la mia
identità.
Quello fu un primo segnalibro nel racconto della mia esistenza.
Avrei preferito un dignitoso nulla.
Forse avrei trovato una mia prima collocazione più precisa
come bambino. O meglio, come bambino povero.
Ma non fu tutto. Il peggio accadde poco dopo.
Il giorno di Natale o nei giorni immediatamente successivi,
non ricordo.
Però non so, a tutt’oggi, come mio padre e mia madre possano
aver compiuto quell’errore.
Anzi. Quello fu l’errore.
Si trovarono fra adulti.
Una delle tante occasioni in cui i grandi si ritrovano fra loro
per un caffè. O più semplicemente per una di quelle visite che
a quei tempi ci si scambiava fra parenti e amici, soprattutto
durante le festività.
Parlavano fra loro. Io giocavo nella medesima stanza, non
ricordo esattamente come. Ma ero lì.
E ai grandi dovetti sembrare certamente assorto nel mio gioco.
Credo che si raccontassero l’un l’altro quelle storie di miserie, quelle che
si rimarcano ancora di più sotto le festività.
Ci scherzavano sopra.
Un po’ per consolarsi con l’ironia, un po’ perché è vero che
“mal comune è mezzo gaudio”.
Nel mezzo del loro sfidone in ambito povertà, uno dei miei
genitori enfatizzò che mi avevano incartato un mio stesso
giocattolo.
“Tanto è piccolo e non si accorge.”
Genitori?
Leo, ti assicuro, il più complicato dei mestieri. L’unico che
si impara solo facendolo. L’unico che, pur sbagliando, non
sempre si impara. L’unico, in cui le cantonate hanno davvero
un caro prezzo. E da pagare per tutta la vita. L’unico, che
quando pensi, forse, di aver imparato qualcosa tanto da poterlo
cominciare davvero a fare, sei già nella senilità.
Ros
Grazie Alina, la “chèvre de Monsieur Seguin” sin da bambino mi pose davanti cio’ che la vita di ciascuno fa ogni giorno, ovvero porci l’alternativa fra un conformismo socialmente “correct”, persino ovvio e conveniente, e finanche giusto per certi versi, e ciò che l’animo nostro, nella sua unicità, sente. Sarà l’interrogativo di sempre e per ciascuno. Nessuno poteva sostituirsi alla cara “chèvre” di cui parla Daudet, nello scegliere per se’, a ciascuno il diritto di percorrere la propria passerella, il proprio cammino, cercando dentro di se’ le ragioni di ogni scelta compiuta.
Alina Ligotti (proprietario verificato)
Ho letto, tutto d’un fiato, il romanzo “La passerella” di Rosario Galatioto, mio compagno di classe al liceo.
Di notte, quando tutto taceva, mi sono immersa nella lettura e insieme a “Ros” ho provato rabbia, tenerezza e ho pianto di commozione.
Ho cercato di leggerlo con un animo libero da pregiudizi e guardando alla ricerca di senso, di bontà, di giustizia e di verità di una esistenza che non scende a compromessi.
Ancora una volta nella vita ciò che all’inizio può apparire come uno svantaggio, come la povertà o la timidezza, si sono trasformate in un mondo interiore ricco e fecondo.
Grazie Rosario per l’onestà e la sincerità con cui ci hai donato te stesso!
Alina