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L’elogio del caos

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Mentre scrive al tavolino di un bar, una donna alza lo sguardo e riconosce un uomo. Sono passati quasi sedici anni da quella notte, ma l’incontro la scaraventa in una dimensione di dolore indelebile. Flavia riporta la mente all’autunno del 2001, quando è una studentessa di Lettere. Iniziano così il ricordo e la narrazione di una stagione di vita unica, intensa, con le certezze che franano nel momento in cui la ragazza conosce l’amore. Ed è attraverso quell’amore che le si rivelano la gioia e allo stesso tempo il terrore di perderla. Mentre la memoria si dipana restituendole ciò che è accaduto quando aveva ventuno anni, la protagonista sviscera il passato, comprendendolo più a fondo e mostrando l’incompiutezza della sua esistenza attraverso una colpa: l’incapacità di accogliere l’amore. Sullo sfondo una Roma antica e contemporanea, magnifica e caotica, che avvolge il divenire degli eventi diventandone parte essa stessa.

PARTE PRIMA
L’INCONTRO 

 

20 novembre 2001 

Quel martedì lo trascorsi quasi tutto in biblioteca a condurre le ricerche per il seminario di epigrafia latina.  

La biblioteca aveva la capacità di isolare i miei pensieri: era una vecchia stanza debolmente illuminata e arredata con un unico grande tavolo in legno e decine di armadi verdi, grigi e marroni a custodire inestimabili libri di antichità greche e romane.  

Alle diciotto l’edificio avrebbe chiuso: il rotondo orologio a muro segnava le diciassette e cinquantacinque minuti.  

Mi alzai, richiusi i libri e li riposi sulle mensole in rigoroso ordine alfabetico. Allontanandomi da quella stanza e dai suoi volumi depositari di storia e vita millenaria, mi riappropriavo dei miei pensieri e delle mie piccole e mortali vicissitudini, nella cieca certezza che stessi per compiere una delle azioni più difficili della mia esistenza. La mano infilata nella tasca del giaccone nascondeva il telefonino tenuto stretto, come in una morsa, quasi a voler fermare il tempo, a voler bloccare l’angoscia per la chiamata che dovevo compiere… che avevo deciso di compiere, perché altrimenti non avrei conosciuto più pace. 

Devi chiamare, devi farlo, è l’unico modo per capire, per sapere, per andare avanti con la tua vita. Questo è quello che mi ripetevo da quasi due giorni, senza tregua. Come se fosse davvero così. Come se stessi cercando un motivo per andare avanti con la mia vita e non, piuttosto, un modo per soffocarla, una via per distrarre il dolore.  

Nulla di complicato, componi il numero e parli. Senza problemi, perché tante storie? Chiama, devi chiamare e basta, non puoi fare nient’altro che chiamare 

Questi i pensieri martellanti con i quali mi facevo scudo e forza da giorni. 

E alla fine composi il numero. 

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26 ottobre 2001 

Era il boom dei negozi Tutto a 1000 lire: ci trovavi qualsiasi cosa, dai fermagli per capelli alle salviette struccanti, dai bagnoschiuma profumati al sandalo, muschio bianco e patchuli alle bacchettine di incenso che bruciate negli ambienti sprigionavano le più improbabili essenze esotiche. Il mio interesse, però, era tutto rivolto alle candele, di ogni genere, forma e grandezza, colorate e profumate: le utilizzavo come elemento di arredo della mia prima stanza in affitto a Roma, in un ampio e vecchio appartamento di piazza Crati.  

Ero percorsa, in quei giorni, da un’euforica voglia di vivere e di esserci. L’acquisto di quegli oggettini in cera variopinta rappresentava l’accento frivolo che ponevo, inconsapevole, sulla stagione più emozionante della mia esistenza. 

Mentre curiosavo nei cesti e sugli scaffali traboccanti di merce disposta in allegro disordine, feci appena in tempo ad accorgermi del telefonino che squillava e a catapultarmi fuori per rispondere. 

«Ehi, stavo per attaccare!» 

«Sono in un negozio, il tempo di raggiungere l’uscita.» 

«Che stai comperando di bello?» 

«Sciocchezze varie.» 

«E dove sei?» 

«Nel negozio sotto casa di Bea, siamo appena uscite dall’università.» 

«Allora ci vediamo più tardi?» 

«Sì… verso che ora?» 

«Vengo a prenderti appena chiudo. Sono ancora le sei e quaranta, tra le undici e mezzo e mezzanotte sono da te.» 

«Allora ti aspetto.» 

«Non è che ti addormenti prima?» 

«Proverò a resistere…» 

«Sarà così difficile aspettarmi?» 

«Non poi così tanto, dai» risposi ridendo. 

«Saremo soli stasera…» 

«Lo so…» 

«Cosa vuoi fare?» 

«Lo decidiamo quando arrivi.» 

«Come vuoi. A più tardi, piccola.» 

«Ciao.» 

«Ti mando un bacio… Non svuotare il negozio!» 

Saremmo usciti da soli per la prima volta.  

Non vedevo l’ora, ma non mi sentivo emozionata o tesa. Mi sentivo felice. Era tutto così naturale, l’unico epilogo possibile di un inizio inatteso, totalmente imprevisto, ma inevitabile. 

 

«Sono tremila e settecento lire, grazie.» 

Contai i soldi e li posi esatti sul bancone, salutai la signora alla cassa e uscii dal negozio con il mio bottino: una grande candela blu triangolare che poggiava su un piccolo piedistallo d’acciaio, una candela verde cilindrica con delle conchiglie incastonate nella base, un cofanetto in metallo giallo che racchiudeva un’altra candelina. 

Erano le sette, c’era ancora il tempo per un caffè a casa di Bea. 

«Perché non esci con Dario e gli altri questa sera?» le chiesi raschiando con il cucchiaino un po’ di zucchero dal fondo della zuccheriera. 

«No, questa serata la voglio solo per me, è da un secolo che non sto a casa con una pizza e un film. Ho tutta l’intenzione di perdermi da Blockbuster!» 

«Allora devi noleggiare American Beauty 

«Lo sai che io sono più per Muccino o Özpetek.» 

«Per fortuna ci sei tu a sostenere il cinema italiano! Stefano Accorsi ha il suo perché e Le fate ignoranti è un piccolo capolavoro, ma Kevin Spacey è tutto un altro mondo!» 

Bea si passò le dita attraverso i capelli dorati soffiando il fumo della sigaretta verso l’alto. 

«Dove andrete stasera?»  

«Non lo so, non ci ho pensato. Al pub sotto casa, a ballare, sotto un ponte o dall’altra parte del pianeta!» 

«Sei pazza. È ufficiale!» 

«Forse sì, forse sto impazzendo.» 

«Non ti ho mai vista così.» 

«Così come?» 

«Così brillante. Così entusiasta e in pace con il mondo.» 

«È come se lo avessi aspettato da sempre, senza saperlo.» 

«Lui ti vuole!» 

«Lo spero…» 

«Ne sono certa.» 

«È così facile stare insieme e non importa dove o quando. Capisci perché non ho idea di dove andremo e di cosa faremo?» 

«Lo capisco, e non c’è neanche bisogno che sappia che adesso sei libera?» 

«No invece! È arrivato il momento di dirglielo.» 

Si fecero in fretta le otto. Salutai Bea perché volevo fare tutto con calma, appropriandomi di ogni corpuscolo di quella serata, fino al momento in cui lo avrei rivisto. 

Una volta a casa entrai in bagno, mi svestii, legai i capelli e mi infilai sotto la doccia.  

 

Esistono sere delle quali si ricorda ogni particolare, proprio tutto: il vestito indossato, il colore dello smalto, gli orecchini, il profumo del vino, il sapore e la consistenza dei cibi. E poi il tessuto di un cardigan, la fragranza aspra di un dopobarba. E in particolare ci sono sere di cui la memoria restituisce alcuni dettagli, ce li regala nitidi e ricchi delle sensazioni e dei pensieri che li hanno attraversati, passaggi di vita che rimangono sospesi in un’azione da niente. Per me, le sensazioni e i pensieri di quella sera sono rimasti imprigionati nel getto d’acqua calda che scivolava via, in un’attesa vissuta, desiderata fino a un sommo atto di consapevolezza. 

Pensavo a lui, alla nostra prima uscita ufficiale, di sera, come una vera coppia, come un uomo e una donna che si desiderano, che si stanno innamorando. Ed ecco che sotto quella doccia mi concessi il privilegio dell’immaginazione, visualizzai i possibili scenari in cui presto mi sarei ritrovata insieme a lui. Ci vidi passeggiare nei vicoli di piazza Navona oppure fra le stradine di Trastevere. Avremmo preso una birra a Campo de’ Fiori per berla ai piedi della statua di Giordano Bruno oppure ci saremmo fermati per un cocktail al famoso Jonathan’s Angels. Non sapevo se lui ci fosse mai stato, avrei potuto proporglielo. Gli sarebbe piaciuto.  

Jonathan era il nome d’arte di questo ex acrobata e pittore: un uomo di mezza età, con i capelli lunghi e la barba brizzolata, che vestiva sempre in T-shirt nera senza maniche. Si trattava di un localino pieno di oggetti e di colori in cui il sacro e il profano si fondevano in modo dissacrante, ma mai volgare, oggi forse lo definirebbero kitsch. Statuine di putti travestiti, ritratti estrosi di Jonathan, foto e ritagli di giornali, antichi specchi opachi, tavolini in legno. Come si conviene a un locale di fama, la chicca stava nei bagni, anch’essi ridondanti di manufatti bizzarri: su tutti spiccava una fontana con tanto di acqua che sgorgava facendo un bel baccano. In quegli anni era difficile trovare un posto libero al Jonathan’s, costituiva una vera attrazione fra i locali del centro storico. Magari proprio lì avrei avuto modo di parlare con lui, di confidare ciò che non ero riuscita ancora a dirgli. Avevamo bisogno di stare insieme al di là delle serate affollate e caotiche trascorse fino ad allora con gli amici, serate divertenti, folli, che avremmo ripetuto, ma non quella sera, quella sera sarebbe stata la nostra.  

Il Jonathan’s Angels si trovava in via della Fossa, non distante dal Chiostro del Bramante. Sperai in un angolo libero per noi.  

Chiusi il rubinetto della doccia e mi infilai l’accappatoio. 

Alle dieci ero pronta.  

Con l’assenza di filtri di una luce al neon sparata in faccia, mi visualizzo seduta sul mobile dell’ingresso con le gambe dondolanti, come una bambina sull’altalena. Chiacchieravo beata con una coinquilina e il suo fidanzato. Stringevo il telefono nella mano, io, profumata e ottimista, dentro un gonnellino di jeans e una maglia color prugna sulla quale scendevano, morbidi, due giri di una collana variopinta.  

I capelli raccolti in una coda di cavallo. 

 

Settembre 2017 

Il computer dice che non posso salvare il documento, mi rimanda di continuo a una schermata che cerco di chiudere, ma che subito riappare. Mi sembra un braccio di ferro impari fra due mondi fatti di sostanze reciprocamente aliene. Quando accade, ho sempre il timore di perdere tutto il lavoro, che ciò che ho scritto si polverizzi, scomparendo in qualche angolo virtuale dell’etere. Mi è già successo e non c’è stato rimedio, se non quello di ricominciare da zero. Da allora salvo tutto su supporti esterni, invio mail a me stessa, alle quali allego file pesantissimi. A volte mi sembro un po’ “spostata”, maniacale, e la cosa mi urta perché in realtà mi infastidisce la pedanteria. Il problema è che con questi aggeggi l’inghippo è sempre dietro l’angolo. Procede tutto liscio per settimane, mesi, a volte anni, e un bel giorno… puff! Come nella vita, in fondo! 

Così abituati a questa convivenza di fatto, dimentichiamo che i computer sono macchine: eseguono comandi impartiti da una specie più intelligente, ma che per definizione sbaglia, perché è quella degli esseri umani. 

Voglio salvare e ordinare il pranzo. Sono incollata allo sgabello di questo bar dalle dieci di mattina. Avevo un incontro di lavoro, ma l’appuntamento è saltato quando ormai ero arrivata; perciò ho deciso di fermarmi a scrivere qui invece di riattraversare la città su autobus fantasma che quando appaiono sono straripanti di corpi adirati e sudaticci. Pensavo di trattenermi giusto un paio d’ore per non perdere la mattinata, invece questo posto è accogliente e comodo, silenzioso nella giusta misura: il tintinnio delle stoviglie per le colazioni, il volume della radio e il brusio così ben calibrati… Sembra quasi che questi suoni rispondano ai comandi di un invisibile direttore d’orchestra.  

Finalmente riesco a salvare il file, anche se non so bene come! Ordino il pranzo a un ragazzo mingherlino che ha la fronte e il mento martoriati dall’acne e che si muove e parla con la professionalità e la cortesia di un navigato maître di sala. Mi fa sentire benvoluta e accolta, come se partecipasse alla mia giornata con una solerzia speciale, come se per quel giorno la missione del suo lavoro coincidesse con il rendere confortevole il mio. 

Non conosco questa parte a sud di Roma, ci capito oggi per la prima volta.  

Il giovane cameriere si avvicina con un largo piatto sul quale il cibo sembra disegnato. Un medaglione di carne piccolo e alto accompagnato da tante verdurine grigliate disposte come raggi intorno a un sole, affettate a mano, tutte della stessa altezza, chiare nella polpa e di un verde e viola accesi nel tegumento. Quel piatto mi fa pensare alla presenza di un orticello celato nelle retrovie del bar, un fazzoletto di terra fresca e morbida, irrigato con dedizione, composto da file ordinatissime di piccoli ortaggi perfetti. 

Il cibo è tanto buono quanto bello. Mangio tutto. Bevo un caffè profumatissimo e ricomincio a scrivere senza altre pause fino a quando, alle sei del pomeriggio, mi rendo conto di essere andata così avanti che decido di anticipare l’aperitivo.  

Mi guardo intorno alla ricerca del ragazzetto con l’acne, ma non lo vedo più. Al suo posto un uomo alto, senza divisa, si aggira fra i tavoli con un blocchetto e una matita. Intercetta la mia faccia postulante e si avvicina al tavolo, posizionandosi di fronte a me. Gli ordino un bicchiere di vino bianco e lui inizia a elencarmi tutte le proposte del locale.  

Al principio mi sorprendo di quella lista così ricca e selezionata, ma ben presto quella voce che mi descrive i vitigni e le cantine diventa muta.  

Vedo delle labbra muoversi in un racconto affascinante che io non riesco più a seguire, vedo delle mani gesticolare in maniera composta, mentre sono tramortita e scaraventata in un altro tempo, indietro, dentro una notte senza luce, dentro un’alba senza colori. 

 

Terminata quella lezione di enologia, l’uomo si ferma nell’attesa che io elabori le informazioni e scelga il mio vino. 

Io non parlo, ma lui aspetta, mentre continuo a fissarlo. 

«Tu sei Luca. Tu sei il tassista!» 

Ho l’impressione che aspettasse solo di essere riconosciuto. Scende sulla sedia di fronte a me, pianta i gomiti sul tavolo e incrocia le mani sotto il mento.  

Adesso è lui a fissarmi in silenzio, a prendersi il suo tempo per parlare. 

«Ciao, Flavia. Tu sei identica, sai?» 

«Mi ha ingannata la barba lunga.» 

«E la testa rasata?» 

«Sì, anche quella.» 

«Vivi sempre a Roma, quindi?» 

«Ho girato un po’, parecchio in realtà, ma sono tornata.» 

«Di dove sei originaria tu?» 

«Del Gargano.» 

«È un bel posto!»  

«Luca, dov’è il tuo taxi?» 

«Ho venduto la licenza per avviare questo locale.» 

«È un bel locale!» 

«Come stai, Flavia? Come sei stata?» 

«Come dicesti tu, è arrivato il giorno in cui sono stata meglio.» 

«È una bella notizia.» 

Chiudo il computer trascurando sia di spegnerlo, sia di salvare il documento e gli chiedo ciò che più mi preme sapere: «La vita con te è stata buona, finora?». 

«È stata impegnativa, anche faticosa, ma buona.» 

«Ne sono felice… Adesso devo andare, Luca.» 

«E il vino?» 

«Un’altra volta. Dimmi quanto ti devo, per favore.» 

«Nulla.» 

«Insisto, ti prego!» 

«Anche io.» 

«Ci rimetti sempre tu, con me.» 

«Io la vedo in un altro modo…» 

«Grazie ancora. Il tuo locale è delizioso… Oggi sono stata molto bene qui.» 

«Allora spero che ci tornerai.» 

«Sì, potrei…» 

«Se torni per un bicchiere di vino, ti prometto che te lo farò pagare!» 

Cammino spedita verso la fermata dell’autobus; è quasi sera, sono nel mezzo dell’ora di punta e il caos è esploso. Penso a quell’uomo barbuto e gentile e mi rendo conto che è un essere umano in carne e ossa, mentre per quindici anni ho creduto che fosse un angelo atterrato sulla terra, affinché non fossi sola nel corso della notte più cupa della mia vita. 

26 aprile 2020

Evento

Questa sera alle 21.30, sulla pagina Facebook dedicata a L'elogio del caos, sarà pubblicato un video nel quale Federica Miniati, carissima amica e attrice, leggerà l'incipit del romanzo.
Buona visione!
Francesca Biasone
https://www.facebook.com/Lelogio-del-caos-103951487959745/

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Francesca Biasone
è nata nel 1980. È laureata in Lettere classiche e in Farmacia. Attualmente vive a Termoli, in Molise, dove svolge la professione di farmacista. L’elogio del caos è il suo primo romanzo.
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