“Sei la più bella del reame, anche senza specchi. Non so se te ne rendi conto, ma sì, io dico di sì. Mai pensato di metterne uno al soffitto, di specchi?”
Scrosci di pioggia fuori, rumori di traffico, luce dall’alto a tagliare in due il volto metà infantile metà adulto di Mulan. Buio intorno, nel salone d’altri tempi della villa Quattro Stagioni, parquet logorato e poltrone damascate dai cuscini sfondati.
Con aria sicura solo un tantino imbarazzata, come quando una ammette sono bravina a tennis, e lisciandosi il gonnellino rosso corallo: “stasera, cosa vuole che faccia?”
“Sbràcati, dai. Lasciati andare, carina che sei, distràiti un momento” – Remo Prati svaccato sul letto antico, lungo la parete, Mulan nel centro geometrico della sala, posizioni da maturo regista e attricetta nel documentario in bianco e nero – “prenditi una vacanza di trenta secondi stella, come non ci fossi, fatti vedere con la coda dell’occhio. Che se no non ci credo a tutta questa meraviglia.”
Mulan sistemò le maniche a sbuffo, esibì la posa studiata sulla rivista solo un’ora prima, ruotò sulle scarpette col laccetto che vanno sotto il nome di maryjane, incoraggiò con voce di ragazzo ma gentile: “Sì, ma poi dobbiamo concludere, che mica il tempo dura per sempre.”
“Invece sì”, pensò l’uomo, non lo sai perché sei giovane, stellina, per te è questione di fare un po’ di grana, ma per me sì che questo tempo dura per sempre, è adesso che sono vivo, il resto è poco più che lavoro d’ufficio e un paio di Martini, per cui, “vieni qui sul letto, facciamo che mi spogli, intanto ti voglio chiedere qualcosa, e dopo concludiamo.”
“Eccomi. Ma niente domande, signor Remo, che per le sue domande non trovo mai le risposte.”
Naso bambino schiacciato sui peli del pube, odore familiare da gabbia di topolini: l’uomo ritagliato nell’ombra, visto in scorcio. Le sue mani quasi rassicuranti sulla testa, almeno questo è uno che va a tempo, si disse Mulan, ma non è suo compito essere rassicurante, signor Remo le prendo io le mani, intrecciate fra le mie, solo tecnicamente si capisce,
così spingendo le maryjane sulla testata di fondo del letto si fa un arco che la mente attraversa di corsa, per arrivare dove questo rossetto esagerato deborda, mi si sparge dappertutto, fa quasi venire da ridere.
Più leggero fuori il rumore di pioggia, meno traffico, famiglie tornate alle loro case, ora di cena. Mulan in piedi a recuperare un po’ di vestiti.
Per la prima volta si soffermò a guardarlo davvero, il corpo dell’uomo disteso sul letto.
“Ha una cicatrice sul collo, signor Remo?”
“Un incidente, non so, è stato tanti anni fa.”
Cucine da incubo
Aspettava tra la porta scorrevole degli arrivi e la porta a vetri esterna con una buona visuale sull’ingresso, tranne per una delle colonne, dietro la quale però al momento buono avrebbe potuto trovare riparo. Li avrebbe riconosciuti per i borsoni di nylon nero con dentro le armi, passati sotto il naso dei massicci e inesperti soldatini di guardia, buoni solo a pavoneggiarsi coi loro fucili pesanti e giubbotti antiproiettile. Il tempo di aprire le valigie, lui si sarebbe rifugiato dietro la colonna più vicina per evitare la prima raffica, poi si sarebbe spostato dietro l’altra colonna piegando poi a sinistra per prenderli da dietro.
La folla agli arrivi stava diventando troppo densa, preferì cambiare posizione tanto che quando i piccoli punti rossi si accesero indicando che erano in arrivo si trovò quasi dal loro lato – le borse non erano nere ma mimetiche, nuovissime, ma nessuno che le avesse notate. Fu quasi costretto a scavalcarle mentre andava verso l’uscita – apparve per una frazione di secondo nel campo visivo di uno dei terroristi, che incerto lo tralasciò, preso dal suo scopo più urgente di fare strage tra la folla.
Errore fatale, perché NinjaKid, l’arma in pugno, era già dietro le loro spalle – ce n’erano cinque – un attimo per sparare alla nuca del primo, tanto da vicino che gli altri neanche se ne accorsero, impicciati ancora a sollevare le loro ingombranti mitragliatrici. Alla nuca del secondo, il lieve contraccolpo del joystick nella cartilagine fra il pollice e l’indice, il punto esatto che i cinesi chiamano la bocca della tigre; un altro colpo al terzo mentre si voltava, ogni lampo un piccolo tuffo endorfinico. Nessun rimorso verso questi uomini ligi alle loro regole, ribelli per niente. Avessero voluto davvero colpire il sistema, perché non portare un paio di quegli assalti nei templi del capitalismo, nei negozi con la mela o con il logo della finestra.
Quello sì che sarebbe stato terrore globale, vedere quei negozi svuotarsi.
Un piccolo punto verde nell’angolo in alto a destra, dall’altra parte della sala il barista dagli occhiali rotondi aveva smesso di parlare con i clienti, cavato da sotto il bancone un fucile da cecchino e mentre gli uomini in nero cominciavano – solo ora – a sparare a casaccio, a diffondere il panico – con calma aveva preso la mira e ne aveva colpiti due in testa, il terzo solo di striscio. Ci pensò NinjaKid a finirlo, poi aprì il canale di chat :
“Giustiziàti.”
“Complimenti NinjaKid, ma la prossima volta lasciane qualcuno anche a noi.”
“Grazie ragazzi, ma tu dietro il bar cosa stavi aspettando?” chiese.
“I clienti prima di tutto …” rispose il barista.
NinjaKid uscì dalla vetrata nella piazza all’esterno, di sicuro c’era un complice che aspettava da qualche parte, un supporto esterno: lo lasciò ai soldatini di turno che stavano cominciando a guardarsi intorno, cercando finalmente di capire cosa stesse succedendo.
“È pronto ! a mangiare !” arrivò la voce della mamma dalla cucina.
Via occhiali e auricolare, il lungo ciuffo di capelli corvini ricadde a coprire l’occhio destro. Saverio si massaggiò l’altro lato della testa, dove l’elastico degli occhiali FPV prudeva sulla pelle rasata. Disincastrò gli arti ossuti dalla sedia – i professori di
ginnastica lo accusavano di rachitismo, ma non era che un accenno di scoliosi – caracollò in cucina, dove lo aspettavano i bastoncini di pesce al microonde in versione triste di mamma, che prevedeva:
uno, togliere le barrette dalla scatola,
due, liberarle dalla carta di separazione,
tre, ammonticchiarle su un piatto di portata abbastanza grande purché scantucciato,
quattro, ficcarle nel microonde
cinque, dare otto minuti al massimo della potenza.
(Approfittarne per specchiarsi nello sportello del forno, lisciarsi le due rughe ai lati della bocca, sullo sfondo di un cucinino tutto stretto intorno alla lampada di falso design, ingara di tristezza con la luce piovosa di un’ora di pranzo, che sembrava già sera).
Dopo il campanello del microonde, sei, sbatacchiare le barrette semiesplose nei piatti.
Guarnire con pastiglia di fluorexitina cloridrato accanto al proprio bicchiere.
Sedette davanti al figlio, ingobbito e coi gomiti sulla tavola. Saverio, che avrebbe dovuto vendicare le miserie di una vita. Frutto di una relazione di cui non valeva neanche la pena parlare, tirato su insieme ai servizi sociali, quando lei non aveva
neanche più l’età per essere una ragazza madre. Diventato grande in fretta, cresciuto per niente.
Il ragazzo non è che non sia intelligente, ma non collabora, sembra solitario, dicevano le
insegnanti, forse è immaturo, bisogna dargli tempo.
Tempo ne aveva già dato troppo, lei, tempo non ce n’era più.
“E tirati via il cappuccio. Dopo viene zia, le chiediamo di darti una mano con gli esami, con il piano di studi.”
“Dille che ho già fatto tre esami così la fai contenta” – masticò Saverio.
La cucina soffocava, togliersi di lì prima possibile, schiantarsi un attimo sul letto prima dell’ecco a voi signore e signori – il torrido rendez-vous del pomeriggio: nell’angolo di destra la bambolina sbarazzina, nell’angolo di sinistra l’apprezzato professionista sbavazzante…
“Due ne hai fatti. Inghiotti il boccone prima di parlare. Di esami. L’hai già fissato il piano di studi, di grazia ?”
Saverio si rivolse al televisore che stava sul frigorifero: “Niente grazia neanche oggi.
Segreteria chiusa. Sbarrata.” L’adrenalina del videogioco se n’era già andata, saliva la tensione. Cliente nuovo, non si sa mai che hanno in testa. Provò ad infilzare un bastoncino di pesce, quello si disfece.
“Oggi la segreteria era chiusa e la settimana scorsa non c’erano i professori, e quella prima c’era sciopero, ma se aspetti ancora stai fresco !” – fece mamma, mentre Saverio con la forchetta inseguiva resti di pesce per il piatto – ”e guardami quando ti parlo.”
“Ti guardo, ti guardo.” Saverio abbandonò la caccia al merluzzo impanato, la guardò davvero, spettinata, e dietro gli occhiali storti i due cerchi smarginati di nero che lo fissavano, madonna se si pitturava a caso. Una volta era stata bella, per via del nasino all’insù, e degli occhi tagliati all’orientale, così diceva zia. Altri tempi, chissà quando era avvenuta la trasformazione – “se la segreteria era chiusa era chiusa” – sbuffò Saverio – ”si può avere un po’ di pane?”
La madre gli passò una fetta da supermercato chiusa nel cellophane: “E’ l’università, Saverio. Nessuno viene a dirti cosa fare, i professori pensano alla carriera, non agli studenti. Alle costole gli devi stare, loro scappano e tu gli dài dietro.”
Saverio aprì la bustina del pane, annuì: “Capito” – obiettivo immediato allontanarsi dalla presenza di mamma, dal pastrano arancione in cui si era avvolta; certo, non era solo lui a comprare vestiti da due soldi su Internet. Attaccò il pesce spappolato con un brandello di mollica.
“Alza la testa, non stare gobbo. Domattina vai subito in segreteria, e ascolta come gli devi dire, sono venuto già tre volte ma non c’è mai nessuno, devo decidere questo piano di studi entro la settimana, ditemi di grazia con chi devo parlare.”
“Capito.” Stavolta Saverio prese con la mano un bastoncino rimasto intero e lo inghiottì senza masticarlo, come i coccodrilli dei documentari. Dentro era gelato. Mamma scuoteva la testa: “Capito un accidenti, fammi sentire come gli dici, Saverio! Ti presenti in segreteria e dici, fammi sentire.”
“Eddài mamma, facciamo l’actor studio ?”
“No, facciamo che hai finito le scuole solo perché sono andata io a parlare coi professori, a spiegare, a pregare, e zia che ci ha messo una parola buona, altrimenti no che non lo finivi il liceo.”
Saverio si buttò all’indietro, la sedia sbatté al muro: “Fammi respirare.”
Mamma batté il palmo della mano sul tavolo: “Qui nessuno respira. Io respiro ? Non respiro, mi sbatto dalla mattina alla sera, per farti studiare !”
“Ma chi ti ha chiesto nulla…” – il ragazzo si tirò il cappuccio sulla testa – “non ho più fame. E’ troppo salato. No, è troppo sciocco. Non lo mangio.”
Mamma si fermò i capelli con una molletta, riaggiustò gli occhiali sul naso, si alzò a sparecchiare i piatti lasciati a metà, “Stupida io, a perdere tempo con te” – scoprì la testa del figlio dal cappuccio con uno strattone – “stupida” – gli sollevò il ciuffo che copriva l’occhio – “fattelo tagliare.”
Saverio si scostò, riprese a fissare lo schermo spento del televisore. Mamma prese la scopa e il suo sguardo scivolò sotto il tavolino, a cercar briciole – “ma porti ancora le scarpe da tennis, non le avevamo buttate via alle scuole medie ? Cosa fai, ti scrivi sulle scarpe ora ? Metti un po’ di cervello in quello che fai.”
“E’ un kanji, è giapponese, un ideogramma. Lascia perdere.”
“Ma guardati, Saverio, vestito da barbone, tutto gobbo, tutte queste bollicine, non ti lavi mai. Ci credo che ti sbatton fuori agli esami. Come fai a farti una fidanzata. Ti hapiantato, l’Irene, che non si è più vista ?”
Irene, nel ricordo di Saverio il fermo immagine estenuato dei due corpi nudi e sudati, patetici delfini spiaggiati, l’umiliazione del cosino penzolante che al solito si disinteressava di tutta la faccenda. Disse : “E’ passato più di un anno, mamma”; e non disse: ‘Sono io adesso che faccio la fidanzata, e fare i maschi tocca a loro sediovuole.’
In quel momento suonò il telefono. Era zia, nessun altro telefonava più sul fisso.
Saverio approfittò per alzarsi, via verso la camera, a mezza voce mentì: “Esco, vado da Cedric. Torno a cena.” A cena avrebbe finito il pesce che mamma stava mettendo in frigo, a cena sarebbe già finito tutto. Andata e ritorno dal luogo delle vostre depravazioni.
La voce della mamma lo fermò sull’angolo fra cucina e camera: “Esci così ? Coi jeans strappati?” teneva il microfono del telefono chiuso nella mano.
“Un po’.” rispose il ragazzo, spolverandosi di briciole inesistenti, giusto per parere attento.
“Vai da Cedric che è sempre vestito così bene, che figura mi fai fare, mettiti il pullover che ti ha regalato la zia per Natale. Almeno una volta. ”
“Quello non ha il cappuccio, questo ce l’ha.”
“Ha il cappuccio ma non te lo togli da sei mesi!”
Saverio andò in camera, si infilò il pullover rosso con il collo a V, da bambino per bene predisposto alla molestia. La felpa nello zainetto, uscì senza salutare. Appena fuori dalla porta di casa, tolse il pullover nuovo, e nonostante l’etichetta ‘made in Scotland,’ lo appallottolò nello zaino e si riinfilò nella logora felpa, riparandosi sotto il cappuccio.
Gabriele Del Mela (proprietario verificato)
Davvero una piacevolissima sorpresa, di una sincerità sconvolgente. Divertente.
deheermiriam (proprietario verificato)
Un buon motivo di leggere un libro Italiano! Non vedo l’ora di averlo su Kindle. Bravo Alberto!
Lorenzo Bastida (proprietario verificato)
Una lettura accattivante, per il piglio il ritmo e l’intreccio “giallo”. Pure, un libro profondo, che ci fa vivere un incontro-scontro personale e generazionale con rara forza di sincerità. E come accade coi libri che valgono, parlando dell’altro che si è o si è stati, parla di tutti noi.