Accanto alla reception del nostro hotel si trova affisso un cartello di legno con intagliata sopra una citazione di Karen Blixen: «Se c’è un’altra cosa che farei nella vita, è un safari in Africa», una frase molto semplice e per me molto evocativa, della quale posso comprendere appieno il significato solo quando mi trovo davanti per la prima a uno dei big five.
Tra i big five, i grandi animali della savana, troviamo ovviamente l’elefante africano.
Incontrare un elefante lungo il proprio cammino, anzi no, un intero gruppo di elefanti che se ne vanno placidi per la loro strada, per niente infastiditi dal nostro fuoristrada arrivato sollevando una grande nuvola di polvere rossa, è un’emozione difficile da esprimere a parole. Gli elefanti stessi sono ricoperti di polvere rossa, il loro colore risulta opaco, e sono…forse è un po’ semplicistico descriverli così, ma sono grandi, immensi e noi tanto piccoli in confronto a loro e all’ambiente meraviglioso che condividono con tanti altri animali affascinanti.
Gli elefanti sono i primi animali che incontriamo da poco passato l’ingresso dello Tsavo East, e sono i primi che vedo liberi di muoversi nel proprio habitat, le grandi orecchie in continuo movimento. Da un punto di vista privilegiato, il nostro furgoncino dal tettuccio apribile, osserviamo silenziosamente quanto ci circonda, ospiti di passaggio che non vogliono infastidire i padroni di casa. «Hakuna Matata» senza pensieri e «Pole Pole» piano piano come dicono qua. Vediamo molti altri elefanti mentre ci spostiamo sobbalzando per le strade sterrate alzando tanta polvere rossa, a volte capita che attraverso la ricetrasmittente ci arrivino le segnalazioni da parte di altre guide del parco per invitarci a raggiungerli in un determinato posto per vedere determinati animali. E noi sfrecciamo, o almeno ci proviamo. Giriamo così in lungo e in largo riuscendo a vedere moltissimi animali, sempre in piedi sul furgoncino, le mani ben salde al tettuccio. Buffo pensare che siamo solo un puntino in movimento nella savana!
Senza dubbio però le mie preferite sono le giraffe, me ne rendo immediatamente conto: non c’è niente di più sorprendente delle giraffe che corrono. Sì perché le giraffe corrono, e anche veloci. Io le avevo sempre viste nei film e sempre in posizioni piuttosto statiche, magari a mangiucchiare qualche foglia dalle cime più alte degli alberi, ma non avevo pensato potessero correre tanto rapidamente e in modo tanto elegante. Sono meravigliose, sono le gran dame dei parchi naturali. Le lunghissime gambe snelle si muovono agili e scattanti, in modo quasi meccanico, tanto che ciascuna giraffa risulta perfettamente coordinata alle altre del gruppo, mentre i colli sinuosi ondeggiano a loro volta ritmicamente: una sincronia di movimenti che mi lascia senza fiato. Le giraffe sono nate per correre in questo modo tanto perfetto. Affianchiamo nella loro corsa senza tempo un numeroso gruppo di giraffe, facendo foto e filmati, mentre il mio cuore batte all’impazzata. Le giraffe si interrompono e fanno un’improvvisa deviazione verso la nostra parte. Anche noi ci fermiamo di colpo, in tempo per lasciarle passare, osservandole sfrecciare davanti ai nostri occhi, in un’armoniosa e aggraziata sfilata. E così proseguono fino a scomparire dietro alla linea rossa dell’orizzonte.
Ci fermiamo anche a “salutare” dei coccodrilli, i simpatici Giuseppe e Caterina, coccodrilli adulti e grandi (molto grandi) con il corpo tozzo e muscoloso, chiamati a gran voce da due kenyoti (loro amici) che abitano nelle vicinanze del parco. «Giuseppe» dice uno, «Caterina!» esclama l’altro e poi via, a fischiare e a fare strani suoni per attirarli. E alla fine arrivano sul serio. Babbo emozionatissimo si avvicina, un po’ troppo a mio parere, per fotografare primi piani spettacolari. Poi gli amici dei coccodrilli gli concedono qualche pezzo di carne per gratificarli del loro arrivo.
Con la testa sovraccarica dalle immagini della giornata e da tutte queste emozioni, proseguiamo verso il campo tendato che ci ospiterà per la cena e per trascorrere la notte. In realtà non sono per niente stanca nonostante la sveglia all’alba (e sarà così anche domani), continuo a reggermi con le mani al tendalino per abbracciare con lo sguardo tutto il panorama. Non voglio perdermi niente di questa terra. Nel frattempo incrociamo una sbarra che delimita l’area del campo tendato, oltrepassata la quale la strada si fa ancora più piena di buche e il fuoristrada ci fa sobbalzare qua e là, su e giù, trascorrono così circa 20 minuti, ci muoviamo così tanto che sono infine costretta a mettermi a sedere insieme agli altri, è troppo impegnativo reggersi sulle gambe in queste condizioni!Vedo un grande capannone dal soffitto altissimo e la copertura in paglia che fa da accoglienza/reception/angolo relax/sala da pranzo e dietro di esso una fila ordinata di tende, tutte costruite su un piano rialzato di legno. Per accedere ad ogni tenda si deve salire qualche gradino di una piccola scaletta di legno, metodo infallibile per non far entrare gli insetti e le lucertole che comunque entrano ugualmente. Tutte le tende godono di uno scenario mozzafiato, quello del fiume Galana e dei suoi coccodrilli, perfettamente visibili anche dal nostro punto di osservazione, leggermente sopraelevato rispetto all’ansa del fiume. «Ma non è pericoloso?», chiediamo alla signorina della reception, giovane e dai modi burberi e decisi, «no, assolutamente no – ci risponde lei – qui abbiamo le guardie Masai a difenderci, loro sanno come tenere testa a tutti loro» e con il gesto della mano abbraccia in modo vago la savana alle spalle. Dietro alle tende vediamo una damigiana di acqua messa a riscaldare su una fiamma tenuta viva da alcuni Masai che, effettivamente, sono dotati di lance appuntite, messe temporaneamente a terra, per potersi occupare con entrambe le braccia di compiti più pratici e immediati, come quello di preparare l’acqua della doccia, perché sarà quella l’acqua che tutti avremo a disposizione per lavarci. Una doccia sicuramente veloce, visto che l’acqua deve bastare per tutti. Ci prepariamo per la cena e la stanchezza comincia a farsi sentire, mi piomba addosso tutta insieme come un macigno, mangiamo in silenzio, rimuginando su quanto abbiamo visto. Il tempo di raggiungere in silenzio la tenda che mi butto sul letto e mi addormento come un sasso, nonostante le due ragazze in tenda con me siano non poco agitate per il ragno che placidamente se la dorme sopra la testata del mio letto. Ho sonno, forse anche lui e non me ne importa proprio niente, sento i barriti degli elefanti e altri versi indefiniti e imprecisati, ma forse sto solo sognando, «ci sono i Masai, hanno le lance, ci difendono» e domani mi aspetta un’altra lunga giornata.
Ci svegliamo prima dell’alba, dobbiamo uscire a quest’ora per poter cogliere gli animali nel momento in cui vanno ad abbeverarsi nelle pozze d’acqua. Mi vesto in fretta e indosso la mia giacca kaki perché l’aria è piuttosto fresca. Mi abbasso per aprire la cerniera della tenda, esco mezza assonnata senza essere troppo cosciente del dove mi trovo, ma mi blocco di colpo, non riesco a credere ai miei occhi, il sole non è ancora sorto ma il blu della notte sta cominciando a dipanarsi, lasciando il posto a qualcos’altro ancora più magico. Manca l’illuminazione elettrica e la nostra tenda, come tutte le altre, è illuminata all’esterno da una piccola lampada a petrolio, con la fiammella che trema ogni volta che un leggero alito di vento la circonda trasportando, leggeri, gli odori della natura. L’emozione è tanta. Mi siedo un attimo per terra, sugli scalini, restando immobile a osservare il giorno che nasce. La tavola per la colazione, provvista di una bella tovaglia a fantasia zebrata, è stata allestita su uno spiazzo al di sotto delle tende ma al di sopra delle anse del fiume e gode di una vista più unica che rara. Mangiamo croissant e beviamo succo d’arancia parlando sottovoce, quasi timorosi di disturbare il risveglio di qualcuno o qualcosa. I raggi del sole arrivano in fretta e improvvisi a portare la luce di un nuovo entusiasmante giorno e con essi arriva anche la nostra guida, il fido e sempre allegro Donald, che si mette a discutere con il personale del lodge degli ippopotami. Non riesco a cogliere tutto il discorso, ma sembra che stanotte sia successo qualcosa da qualche parte nella savana. Io mangio e ascolto interessata, potessi vedere la mia vita dall’esterno, in questo momento probabilmente non mi riconoscerei, seduta a una tavola imbandita a vedere scorrere sotto di noi un fiume pieno di coccodrilli, a fingere di intendermi di ippopotami.
Ma è tardi, dobbiamo sbrigarci, altrimenti gli animali se ne andranno e diventerà più difficoltoso vederli. Saliamo tutti sul fuoristrada e io neanche mi siedo, sono prontissima a rioccupare la mia posizione eretta, per vedere tutto al meglio. Mentre partiamo e ci ributtiamo sulla strada piena di buche, io resisto in piedi, in fondo stanotte ho dormito qualche ora e adesso mi sento carica, strafelice, al centro del mondo. Chiudo gli occhi e so già che questa terra rossa mi mancherà, un giorno a casa ripenserò a questo momento e mi coglierà sicuramente, lo so già, quel mal d’Africa di cui tutti parlano. Sento che questo mondo mi travolge con tutta la sua potenza e io non voglio fare niente per arrestarlo. Che bello sentirsi vivi.
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