In quel momento mi girai di scatto.
La figura di uomo, scivolando fuori dal buio di un portico, aveva gridato il suo nome. Lei aveva continuato a camminare senza voltarsi. L’immagine sfocata di un film in bianco e nero che si faceva reale. Tutto intorno, rosso piovoso e asfalto d’argento liquido. Quel pomeriggio tardi d’autunno il carattere mite del tempo si era improvvisamente dileguato.
Da alcuni mesi ero andato ad abitare da solo, a poche centinaia di passi dalla scena di quel pomeriggio. Due stanze a buon prezzo come ce n’erano tante a quel tempo, in un vecchio edificio di case operaie dalle parti della ex Centrale a Carbone.
Ventidue anni, scuole mal fatte, medicina portata avanti senza convinzione, una famiglia come tante –madre, sorelle più grandi, zie. Così, senza drammi da entrambi le parti, ero andato via da casa e avevo preso a guadagnare qualcosa con traduzioni di articoli in inglese su riviste mediche. I testi arrivavano con regolarità per posta, insieme all’assegno del lavoro precedente.
Un colpo di barra che mi consentiva di navigare tranquillo; e che non ci fosse nessuno a seccarmi per il disordine della mia stanza, o per cosa mi mettevo addosso. Un minimo, fin lì.
C’era dell’altro su di lei che lì dentro si respirava con il fumo e l’odore acido dell’alcol. Mezze frasi, qualcuna più chiara. – Robbetta… – Oh! Quelle sole, quando arrivano a una certa età…
Parole, parole. In quel posto, più che la possibilità di vederla apparire ristagnavano solo parole. Pure, ogni sera, era quest’aria che continuavo a respirare.
Ma cos’ero stato fino ad allora? Uno senza aspettative? Solo quel paio di storie finite per inerzia di ambedue le parti? Una nullità, insomma? Quest’ultima domanda – che poi mi sarei fatto tante volte – fin lì non me la ero ancora posta. C’era, piuttosto, che non riuscivo a identificarmi in nessuna delle buone cause che spingevano i miei coetanei; in nessun principio incontrovertibile o idea fondamentale.
Le mie giornate, oltre le traduzioni e, ora, quel rito del bar, cosa c’era d’altro a occuparle?
Una lettura ossessiva, disordinata. La decapitazione del condannato in Amanti perduti, la commedia umana sullo sfondo di una grande città in Manhattan Transfer. E poi l’ignoto. La Croce del Sud nei racconti di London, la Londra di Dickens, l’America di Steinbeck.
Le storie dei romanzi.
Sembra poco, ma immaginate di riuscire ad andarvi dentro. Lo trovate infantile? Eppure, io lo facevo.
Di ciò che sarebbe significato, me ne sarei accorto più tardi. Allora mi sentivo solo spettatore di qualcosa. Era come penso succede a chi guarda i giocatori della propria squadra trotterellare in campo prima della partita. Un buon capoverso e il gioco iniziava. La prima sensazione l’avvertivo agli occhi. Era una pressione forte, quasi dolorosa, sui globi oculari. La danza delle lettere sulla pagina superava il semplice significato delle parole. Da quei segni emanava una promessa di energia. Anticipavano il senso di piacere che avrei provato.
Dovevo sapere che non mi trovavo nella foresta, con la banda di Denisov, un miglio dalla strada; che non ero seduto su un furgone preso dai francesi, intorno al quale c’erano dei cavalli legati; che davanti a me non esisteva un posto di guardia; che fuori sulla strada non vi era alcun fuoco che si spegneva. Ma io non volevo sapere nulla di tutto ciò. Sentivo, che avrei avuto lavoro per una vita intera.
Capite? Guardavo dentro un tubo e non volevo guardare fuori. Forse era destino: prima di varcare la linea d’ombra, sarei dovuto andare appresso a quella di donne e uomini che non esistevano; stupirmi della generosità o della crudeltà con cui l’imprevedibilità del caso decideva delle loro esistenze.
Avevo creduto di potere andare avanti così. Tuttavia, a un certo punto arriva il momento, dove qualcosa ti scatta dentro. Così, dopo l’apparizione di quella donna in un pomeriggio di pioggia, le storie che continuavo a leggere senza convinzione, non mi faceva essere più né completamente felice, né realmente infelice.
Si diceva che sulla passeggiata lungo il mare fosse comparsa una faccia nuova: una signora con un cagnolino.
L’idea fissa, ora si mischiava con i discorsi sulle donne di cui mi riempivo dentro quel bar.
A casa, speravo inutilmente che il letto potesse liberarmene. Se nella prima parte del sonno quei posti si ripresentavano animati da gente tranquilla, più in là le loro bocche si trasformavano negli archi di un portico che inghiottiva nella sua oscurità ogni ragionamento. Era questa confusione che trovavo al risveglio.
Si diceva che sulla passeggiata lungo il mare… Senza accorgermene cominciavo a pensarla come una creatura inafferrabile. Una sorta d’angelo. L’Angelo della Solitudine. L’essenza cristallina della vita, contro cui si dispiegava l’ostilità della gente.
Sì, iniziavo, come si dice, a dare i numeri anch’io. Dovevo fare qualcosa.
Così ero arrivato che abitava da sola, in fondo a una via larga poco frequentata, occupata da una fila di case tutte pressoché uguali. Un grande appartamento – era così che me lo immaginavo – in una palazzina a due piani con finestre alte e strette. Dall’altro lato della strada, un marciapiede malmesso, una fila d’alberi, poi un ampio sterrato con macchie di sterpi che continuava per un centinaio di metri prima di perdersi, più giù, in un intrigo fitto di rovi.
Di proposito, feci d’incrociarla di mattina sempre alla stessa ora. Risaliva fino al Viale Nuovo per insinuarsi nella ressa di chi andava al lavoro. Affrontava con leggerezza la strada in salita. Sembrava, guardandola andare, che fossero i pensieri nella testa a sostenerla, a sospingerla. Un impermeabile rosso, largo, di tessuto leggero, le levitava delicatamente ai fianchi. Mi appariva così, al soffio mite dell’autunno in quell’anno.
La stagione andò avanti senza che trovassi il coraggio di avvicinarla. Quell’anno le giornate d’inverno, con il loro carico di brutto tempo, giunsero tardi. Fu pressappoco in quel periodo che mi decisi.
L’attesi sul marciapiedi dove l’avevo vista passare tante volte di ritorno dal lavoro. Mani fredde, sprofondate dentro le tasche, aspettavo che apparisse sul fondo della strada. Ancora adesso mi basta fissare su tra le case per ripensare al rossore ferrigno del cielo, quel pomeriggio.
Come iniziare, di che parlare? Con una ragazza non si pensa a cosa dire. Magari in testa c’è solo la voglia di stringerla tra le braccia. Quanto stava per accadere invece, perfino se si fosse concluso in modo ridicolo, forse soprattutto, sarebbe stato diverso. Ebbi un attacco di panico che mi fece mancare il respiro. Un’ansia, diversa da quella che mi aveva accompagnato fin lì, soffocava la determinazione di pochi minuti prima. Per qualche attimo pensai di lasciar perdere. Correre via, respirare. Troppo tardi, ormai lei mi era innanzi e bloccava ogni tentativo di fuga.
“È da poco che vive da queste parti?” feci, buttando fuori con le parole tutta l’aria che i polmoni avevano trattenuto. Si era fermata di colpo e, voltandosi, mi aveva fissato con uno sguardo dritto che sulle prime mi parve irritato. Ma sbagliavo. Me ne resi conto dalla calma del tono della sua voce.
“Come hai fatto a capirlo?”
Mi sta dando del tu… Quanti anni può avere? Quelle piccole rughe attorno agli occhi. Quaranta…? Non ne avevano parlato al bar?
“Non lo so, ma non sopporto la gente di questo quartiere. Allora…”
“Allora… Neanch’io, ma non è grave. Ce n’è tanta altra… Se si aspetta… No…?”
“…”
Sorrideva per farmi capire che non attendeva alcuna risposta; che qualcosa, un pensiero in comune, lo avevamo già.
La cosa più sconcertante era che soltanto qualche minuto prima, aspettando che giungesse dal fondo della strada, mi sembrava impossibile perfino che si fermasse. Ora sembrava assurdo che ciò potesse non accadere. Piuttosto, ciò che mi sorprese era avvertirne la particolare sonorità bassa, corporea della voce.
Riprese a camminare più lenta per quel centinaio di metri fino a casa sua, e io dietro; come se quel marciapiede avesse dovuto portare anche me verso la stessa meta.
2
Anna
In ogni nome vive una forza originale destinata a perdersi con l’abitudine. Le prime volte dei nostri incontri, pronunziare Anna mi era stato difficile. Un suono breve, facile. Pure, le quattro lettere che lo componevano era come se appartenessero a una lingua che finora non conoscevo.
Dapprincipio, non m’invitò neppure a salire a casa sua. Ci incontravamo le domeniche pomeriggio in un bar lì vicino che restava aperto in quei giorni. Aveva smesso l’impermeabile rosso leggero. Ora indossava un paltò pesante, di quelli che si portavano in quel periodo, con due grandi tasche.
Ci sistemavamo sempre nel medesimo angolo, sotto la scritta in inglese di un vecchio manifesto, con una nave nel mare in tempesta e nere nubi temporalesche mescolate ai grandi sbuffi neri del fumaiolo.
Parlavo e, di sicuro – ho un ricordo confuso – diceva qualcosa anche lei, ma nella sostanza era come se stesse da un’altra parte. Quel che faceva era assentire di quando in quando, non sempre al momento giusto, stringersi nel cappotto, e martoriare in continuazione con le mani ciò che teneva dentro quelle grandi tasche.
Parlavo, e quel che facevo erano sunti di intrecci che cercavo di semplificare senza riuscirci. Era la prima volta che uomini e donne che non erano mai usciti dalla mia stanza si trovavano spaesati in un altro luogo. Provavo fastidio a sentire come, uscendo dalla mia bocca, quelle storie diventassero insignificanti. A lei, si capiva, non gliene fregava niente del fascino delle avventure dei personaggi che le spiattellavo davanti e forse si pentiva di essersi fermata per rispondermi, meno di un mese fa su quel marciapiede.
Parlavo, parlavo, e non potevo evitare di guardare l’immagine del battello dentro la tempesta; la montagna di acqua radiosa che lo sconquassava; le onde che avrebbero potuto risucchiarlo e la schiuma verdiccia e nerastra che si appiccicava attorno allo scafo quasi nello sforzo di tenerlo su.
E poi continuava a esserci lei. Davanti a lei, come nei sogni della notte che da qualche tempo non ricordavo più al risveglio, poteva darsi che fossi seduto in quel bar, ma poteva essere altrettanto vero che ciò che mi stava attorno continuasse ad appartenere al mondo esclusivo che mi ero creato da solo. Quelle sere, ritornando a casa, mi apparivano incompiute, sciupate dalle mie goffaggini.
Non so se sia andata proprio così ma, nel ricordo che ho, tutti i nostri incontri si svolsero in giorni di pioggia e di vento forte. Forse di giornate così ce ne fu una soltanto che il tempo ha dilatato su tutte le altre. È certo che, la volta che ricordo ancora con precisione, il tempo fuori era così…
gmgivamar (proprietario verificato)
Ho letto pagine sanguigne e intimiste, degne di un grande scrittore.
Da leggere assolutamente
gmgivamar (proprietario verificato)
Ho letto pagine sanguigne e intimiste, degne di un grande scrittore.
Da leggere assolutamente
Da leggere
Daniele Manno (proprietario verificato)
Una vera sorpresa.
Entri naturalmente dentro la storia e vivi a pieno le emozioni dei protagonisti.
ho riprovato l’infantile desiderio, di ritrovare ,come in certi libri di una volta, le illustrazioni di alcune scene .
Lorenzo Maggio (proprietario verificato)
Un passeggiare incalzante tra rimorsi e rimpianti che colorano di infinite tonalità i tentativi di relazionarsi con donne, con una donna, in un altrove confuso come un sala di specchi. Il risultato complessivo è una lettura piacevole. Ti coinvolge, Ve lo consiglio.
Beatrice Agnello (proprietario verificato)
Questo libro ha molte cose interessanti, la percezione degli spazi urbani e degli interni, dei cieli, dei colori, degli oggetti, delle posizioni, delle andature; il loro ritorno interiore. Fotografie scattate da un occhio inconsueto. I rapporti fra un uomo e una donna, fra un uomo e altre donne, scorrono e si arenano con la cadenza di queste percezioni del protagonista, uomo di letture forsennate, potenti nelle sue fantasticherie quanto le immagini che lo torturano. Quest’uomo comprende le donne con cui si trova a incrociarsi? Lui ci prova, loro, a volte, pensano di no. Leggetelo e dite la vostra.