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Se non è amore me ne andrò all’Inferno

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L’amore è il nodo di un filo conduttore che lega le brevi storie di questo libro. Un amore finito nel 2017, la demolizione dei ricordi e un viaggio a ritroso nel terribile Inferno. Quattro anni “simili a una vita intera”, un’opera di stampo autobiografico che segue le regole del romanzo di formazione. Una fuga, o semplicemente un viaggio, che diventa un ritorno mettendo insieme la bellezza e l’orrore del mondo.

Un dream pop che rimette insieme i frantumi di racconti, aforismi e pensieri in versi. Una giostra di stili cromatici che dal blu profondo guida il lettore verso una di quelle notti in cui tutto può succedere: il sesso, la paura, la dipendenza, l’insonnia. Spinti verso il fondo, non resta che tentare la risalita verso l’azzurro del mattino, e riemergere. Trasognanti, confusi, disperati.

BLU NOTTE

SCENA DI ME E LEI SULLA MACCHINA

«Mi lasceresti due tiri?»

Continuai a non guardarla mentre le passai la sigaretta quasi finita. La prese e io feci attenzione a non avere alcun contatto con la sua mano. Girai di poco la chiave dopo una serie di piccoli movimenti di polso e accesi il quadro. Mi piegai per pigiare il pulsante situato alla base del cambio della macchina e lasciai l’indice sul disegno sbiadito di una freccetta che indicava il basso, fino a che il finestrino del lato passeggero non si aprì del tutto. Spensi di nuovo. Era una di quelle sere particolarmente fredde, ma preferii stringermi un po’ in me stesso in una sorta di abbraccio, piuttosto che salire in macchina il giorno dopo e sentire il tanfo della tappezzeria impregnata di fumo. Aspettai che avesse finito. Poi richiusi entrambi i finestrini. Pensai che quella sarebbe stata l’ultima occasione per la mia saliva di poter bagnare un poco le sue labbra. Tramite il filtro di una Lucky Strike Blu.

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Si vedono tutti i palazzi del mio paese dal punto in cui stavamo parcheggiati già da una ventina di minuti. È la meta più ambita dalle coppiette di innamorati per il panorama che offre e anche noi due avevamo scelto spesso quel posto. Le strade sono sempre illuminate di quel giallore squallido dei lampioni a quell’ora e, attraverso i buchini delle tapparelle di qualche finestra, si poteva intravedere il barbaglio emanato dalle luci che si accendevano e spegnevano freneticamente intorno ai presepi e agli alberi di Natale messi lì apposta, dietro alle vetrine, così da poter essere visti da coloro i quali avrebbero alzato gli occhi verso quei balconi.

Erano passate tre o quattro settimane da quando aveva deciso di lasciarmi. Forse anche cinque. Non saprei dirlo con esattezza. I minuti duravano quanto durano le ore. Il tempo era come quelle gocce d’acqua che si formano e si allungano pian piano in un rubinetto chiuso, senza mai staccarsi e cadere. E non lo so se in quei giorni ha piovuto o se c’era il sole adatto per una grigliata in campagna. Era ancora novembre? Il tettuccio che attonito continuavo a fissare faceva da schermo ai pensieri che la mia mente gli proiettava contro. Un film deprimente era. Un interminabile film deprimente che una fila di spilli incollati sotto agli occhi mi costringeva a guardare. Non diceva una parola, lei. Di certo io non l’avrei fatto per primo o, almeno, questo era ciò che mi ero messo in testa. Era cambiata. Avrei dovuto capirlo quando, da un giorno all’altro, decise che era giunto il momento di dare una svolta al colore dei suoi capelli. Così si fece bionda. Dovevo dirle che le stavano male. Questo avrei dovuto fare. Lei sarebbe corsa di fretta dal parrucchiere che glieli avrebbe riportati al castano chiaro originale e io avrei fermato da subito la sua trasformazione. Ma le stavano bene e non le ho mai detto una bugia.

«Sei bella.»

«Cosa?» rispose d’impulso, ma mi aveva sentito bene. Non è che stavo mettendo in atto qualche tipo di strategia per poterla riconquistare, ma era bella davvero e così glielo dissi. Mi guardò, con gli occhi imbecilliti di una che non ci stava capendo niente e, quando glielo ripetei, abbassò lo sguardo. Poi si voltò dall’altra parte. Probabilmente le faccio pena, pensai. O magari non gliene feci affatto e, per questo motivo, si dovette sentire un po’ in colpa. Che impressione averla accanto. Era tutto così sconsolatamente inverosimile. Avrei voluto tenere le mani strette sulle sue spalle e scuoterla, sbatacchiarla per bene come si fa con gli ubriachi allo scopo di poter far riprender loro conoscenza. “Cazzo, ma sono io” volevo urlarle contro. “Amore, sono io! Sono io! Sono io!”

«Le cose stanno così» mi diceva, apatica. «Non è più come prima, che posso farci?»

Nulla, piccola mia. Non potevi farci nulla.

Eppure, quando le dissi che tra non molto sarei partito, sembrò di colpo tornare in sé e la sua faccia cambiò notevolmente espressione. Non mi aspettavo potesse rimanerci tanto di stucco. «Ho già fatto il biglietto,» continuai «di sola andata.» Avrebbe voluto chiedermi se stessi dicendo la verità. Glielo lessi negli occhi. Esaminavano i miei con attenzione, sperando di poter cogliere qualche informazione da questi, ma per fortuna c’era abbastanza buio e io non dovetti neppure trattenere il fiato per non farmi sfuggire nulla. Le palle di andarmene, io, non le avevo mai avute e lei lo sapeva bene. Ne parlavamo di continuo. Così ragionai sul fatto che, quella, potesse essere una buona occasione per potermi mettere alle strette. A quel punto non potevo che mantenere quanto detto, essendo inciampato di proposito nella mia stessa trappola. Lei abbozzò un sorriso per metà rammaricato e per metà fiero. Credo avesse capito cosa stessi cercando di fare. Annuì, poi tornammo a osservare in silenzio i palazzi gialli là di fronte. Più tardi sarei tornato a casa, avrei svuotato i cassetti e riempito una grossa valigia.

In piedi sul bordo della portiera aperta

di un elicottero

a quattromila metri di quota

con indosso il paracadute

mi tenevo forte alle pareti di ferro

gelide e grigiastre

con entrambe le braccia tese

e mi sporgevo

quel poco che bastava a un cacasotto quale ero

per guardare

in giù

e altro non vedevo che

nuvole

c’erano solo quelle

un ammasso infinito di vapori sospesi nell’aria

tra me e il suolo

velato

sul quale volevo poggiare

il prima possibile i miei piedi

trepidi.

E mai avrei saltato

se qualcuno non m’avesse spinto da dietro.

«Ho già fatto il biglietto, di sola andata.»

Lontano

era il suolo

ma si riusciva a vedere

e il vento

mi tagliava la faccia.

2017

2022-03-02

Aggiornamento

Ce l'abbiamo fatta, 200 copie pre-ordinate, è successo davvero e ne sono commosso. Non c'avrei scommesso più di tanto e non ho neppure voluto sperarci troppo, voi si. L'entusiasmo che tanti di voi hanno avuto nell'aiutarmi in questa impresa è impagabile, mi fa venire gli occhi lucidi. Grazie di cuore, se il mio piccolo lavoro sarà presto diventato un libro vero e proprio, è solo merito vostro, non mio. Sono contento al pensiero che a breve possiate leggerlo. Forse più spaventato ma non vedo l'ora. Comunque sia e comunque vada. Grazie, duecentomiliardi di volte. ❤️

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Goborno Costanza
All’anagrafe Davide Costanza, nasce ad Agrigento il 10 giugno del 1995. Cresce a Favara, un paesino di provincia e, all’età di 22 anni, si trasferisce a Firenze, dove intraprende il mestiere di cuoco. Dipinge con mani e spatole, suona il basso e la chitarra, ama il cinema di genere. Con “Se non è amore me ne andrò all’inferno” si cimenta nella scrittura del suo primo lavoro letterario.
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