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Porcini sull’asfalto

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Un bimbo scompare nel nulla inghiottito dalle gelide acque dell’Arno davanti ai suoi amici. Una famiglia distrutta e un gruppo di ragazzi che cresce insieme, aggrappato a un bar di quartiere e al suo barista di quartiere rustico e paterno. Ognuno diverso, ma tutti venuti su come funghi porcini, nello stesso sottobosco urbano. Ambientato a Firenze degli anni Novanta, tra asfalto, periferia e vita di strada, Porcini sull’asfalto è un romanzo noir che tocca i grandi temi della vita: l’amicizia, la sofferenza, l’amore, il grunge, Baggio alla Juve…

Prologo

Non era facile manovrare con le nostre piccole dita intirizzite dal gelo di quei giorni. Erano le otto di mattina e, nonostante un timido sole, faceva un freddo a cui non eravamo abituati. Ci eravamo dovuti togliere i guanti, troppo d’impiccio per quella delicata operazione. La sconfinata distesa bianca che nella notte aveva coperto tutta la città, nel giardinetto di via Torcicoda, a due passi da casa mia, era ancora completamente immacolata. Perfetta per il nostro scopo. Io e il mio amico Neri ci eravamo spartiti i compiti, a me, come spesso succedeva, era toccata la parte più ostica a lui quella più semplice con una lettera in meno, ma non mi importava. Neri avrebbe scritto JUVE e io MERDA. Una scritta a caratteri cubitali di pipì sulla neve nel giardino della scuola.

Era il 1985, l’anno della celebre gelata natalizia. Una coltre di neve di quasi un metro aveva nascosto tutto, l’Arno completamente ghiacciato, scorto da lontano, sembrava una lingua di cemento che affettava la città. Quello, per noi bimbetti cittadini cresciuti nell’asfalto, fu il primo contatto con la magia della neve. Un evento eccezionale sia da un punto di vista meteorologico che scenografico che, oltre al dato per niente trascurabile di far chiudere le scuole, ci regalò mani gelate, nasi gocciolanti, malanni assortiti e assoluta e ingestibile gioia.

Giornate intere scandite da discese a rotta di collo per le rampe dei garage con un saccone nero della nettezza sotto al culo e pallate a mitraglia su tutto quello che si muoveva. Dai pensionati che camminavano incerti sui marciapiedi, ai gatti che si muovevano diffidenti, tutto era valido, ma il divertimento più sadico era distruggere i pupazzi di neve amorevolmente fatti dalle nostre amiche di giochi.

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Ancora oggi me ne ricordo uno in modo speciale: autrice la piccola Elenalberti, una ragazzina dai lunghi capelli castani e vispi occhi verdi che abitava nel mio stesso palazzo. Lo ricordo particolarmente bene per la sua bruttezza, al posto del naso non aveva la classica carota ma una banana annerita, ai piedi delle vecchie ciabatte di stoffa trovate in un cassonetto e, come occhi, due palline da tennis mordicchiate da Wilson, il boxer dei Caruso, una coppia di signori in pensione del piano terra. Come tutte le bambine che danno nomi a qualsiasi cosa lo aveva chiamato Nuvola. Il povero Nuvola più che un pupazzo sembrava una discarica, ma soprattutto le palline da tennis, così sproporzionate rispetto alla testa, gli conferivano l’aspetto di un malato di tiroide.

Ancora oggi, ad anni di distanza, mi stupisco della cattiveria che riversammo su Nuvola, che decapitai con un braccio teso stile Hulk Hogan, ma Elenalberti non mosse un ciglio, nemmeno una lacrimuccia, ma anzi ci guardò in silenzio scuotendo la testa per poi mettersi a ridere. Una bambina di cinque anni ci aveva appena dato la prima lezione di vita: gli uomini sono stupidi, fin da piccoli, anni dopo avrei capito che crescendo non migliorano.

Quell’inverno andavo in giro con addosso un piumino Moncler verde acido come il paninaro del Drive In coordinato con l’immancabile jeans sudicio e liso anche se il termometro segnava sottozero fisso. A coprire la mia testolina un cappellino di lana dei Los Angeles Lakers. Ignoravo la provenienza di quel cappello, forse uno scarto di mio fratello Niccolò, e ignoravo pure chi fossero i Lakers, ma era colorato di giallo e di viola, soprattutto, per cui decisi che poteva andare.

Il mio amico Neri era di gran lunga il più sveglio del gruppo, nove mesi più grande di me ma, sia fisicamente che caratterialmente, dimostrava almeno tre o quattro anni di più. Sempre il primo come spirito d’iniziativa, era il più piccolo di quattro fratelli, cosa che per le teorie darwiniane lo aveva reso scaltro come una faina e tenace come un ruzzolamerde. Era il mio migliore amico nonché il mio modello, per lui mi sarei buttato con la maglia di Antognoni in mezzo alla curva dei gobbi.

In quel periodo si era lasciato crescere un po’ i capelli con un legaccio di corda sempre attorno alla fronte come in Conan il Barbaro, film che conosceva a memoria. Un giorno Martino Acciai, il classico bambino odioso che da grande può fare solo il politico o il vigile urbano, ebbe una discussione con lui dopo una partita a calcio nel campetto della parrocchia. Per sfotterlo ebbe la sciagurata idea di cominciare a chiamarlo Atreyu, il bimbo effeminato de La storia infinita, per via dei capelli un po’ lunghi. Neri fece il superiore per qualche minuto poi, all’ennesimo affondo di Martino, con l’ignoranza di un fabbro, lo prese per le caviglie e cominciò a strusciarlo col culo in terra come quando fai la pista di biglie sulla sabbia. Purtroppo per l’odioso Acciai, lo fece sul ghiaino del cortile della parrocchia. I bimbi sono gli esseri più spietati che esistono, per cui ridemmo di gusto a quell’atto da manuale di bullismo. Testa commentò solennemente la scena: «Sembra Achille che trascina Ettore sulla sabbia attorno alle mura di Troia dopo averlo ucciso». Immaginatevi un bimbo di manco sei anni che cita l’Iliade mentre io dei personaggi che aveva menzionato conoscevo solo Troia per sentito dire.

Quel bimbo era Pietro Pepi detto Testa, il secchione del gruppo. Normalmente sarebbe stato lui l’obiettivo preferito degli atti di bullismo, ma Testa era veramente troppo buono per volergli male, ci faceva ridere solo a vederlo e poi ci passava i compiti senza nemmeno bisogno di pregarlo. Aveva una capigliatura afro alla giocatore NBA anni Ottanta veramente incredibile, di quelle che il pettine si rifiuta e ci vuole il rastrello, motivo per cui, un giorno che si era presentato più scapigliato del solito, Neri, dall’alto della sua seconda elementare, lo accolse cantando a gran voce: «Le campane suonano a festa bada che testa bada che testa». Da quel giorno, e per molti anni a venire, Pietro Pepi sparì per far posto a Testa.

Testa era un anno più piccolo di me e quasi due rispetto a Neri, un mucchietto d’ossa nascosto dietro a spessi occhiali. Delle mode se ne sbatteva ampiamente lasciando alla mamma il compito di vestirlo, compito che la signora Franca avrebbe diligentemente svolto fin oltre il matrimonio del figlio. Succedeva così di vederlo andare in giro come un geometra del catasto, camicia a quadroni di quelle di stoffa spessa, immancabile canotta della salute sia d’inverno che con quaranta gradi all’ombra e pantaloni di velluto a costine dalle tonalità variabili dal giallo maionese al marrone fegato. Nel complesso decisamente antifiga, ma quello al tempo non era un pensiero centrale.

Abitavamo tutti nel raggio di trecento metri, all’Isolotto, un quartiere periferico di Firenze, uno di quei sobborghi metropolitani spuntati come funghi nei bellissimi anni Sessanta. Casermoni di cemento alti sei/sette piani, disegnati con la fantasia di un carcere sovietico, destinati ad accogliere le famiglie piccolo borghesi. “Là dove c’era l’erba ora c’è una città…”

Il quartiere non godeva di una gran fama, ma a noi che ci eravamo nati sembrava più tranquillo di un convento francescano. Mi piaceva per il senso di libertà che sentivo di avere. Libertà di stare fuori da soli, libertà di giocare a pallone in qualsiasi posto a qualsiasi ora, libertà di vivere all’aria aperta in mezzo all’asfalto. Certo libertà anche di pestare qualche siringa o di farci rubare il pallone due volte al mese dai ragazzi più grandi, che sennò eran botte da orbi. Quanti Tango ci ho rimesso, ma si sa, tutto ha un prezzo, figuriamoci la libertà.

Al tempo solitamente i passatempi erano due: le partite a pallone e l’attesa tra una partita a pallone e l’altra, durante la quale parlavamo ovviamente di calcio. Un giorno, quando ormai la neve era sparita ma faceva ancora un freddo birbone, il “nostro” campetto era stranamente libero, per cui ne approfittammo velocemente.

Stavamo facendo le squadre quando, con fare timido, si avvicinò a me un ragazzino piccolino dai capelli liscissimi a caschetto. In lontananza c’era un omone barbuto che lo osservava in disparte, sicuramente il padre. Ci tese la mano: «Mi chiamo Mario, posso giocare con voi?». La voce era quasi un sussurro, mi colpì perché si presentò, cosa inusuale tra bambini di quell’età. Guardai Neri che annuì. «Vieni Mario, tu stai in porta». L’ultimo arrivato ovviamente veniva schiaffato in porta, ruolo che solitamente, volente o nolente, toccava all’Elenalberti.

Mario capitò in squadra con me, Neri e Testa erano nell’altra. Devo dire che il ragazzino nuovo si rivelò una gran pippa, ma nonostante questo la mia squadra era in vantaggio di un gol quando la madre di Nicolino, altro ragazzino veramente scarso che giocava solo perché portava il pallone, lo chiamò per la terza volta a pranzo. Era il segnale dell’ultima azione. Neri, facendosi largo a bracciate d’ignoranza, si trovò palla al piede solo davanti a Mario. Occhiata assassina e missile terra-aria dritto alla figura. Non avevo dubbi, il fragile Mario si sarebbe scansato impaurito. Invece, con mio sommo stupore, rimase immobile, concentrato sul pallone, prendendosi una randellata in pieno volto da stendere un cinghiale. Palla fuori e vittoria nostra. Lo abbracciammo che era ancora visibilmente stordito con la faccia rossa come un peperone. Si avvicinò a lui anche Neri, che sportivamente apprezzò molto il coraggio del ragazzo. «Bravo filippino, bella parata».

Il filippino penso che gli venne in mente per via dei capelli a caschetto, da lì il soprannome si trasformò in breve in Felipe, e da quel giorno Mario Saccocci divenne per tutti Felipe.

Marzo 1988

D

al cielo scendeva qualche tenero fiocco di neve misto ad acqua. Nevischio ai primi di marzo, dopo un Natale hawaiano con venti gradi. Ancora non ne avevamo preso coscienza, ma il clima stava già andando a puttane assieme al resto dell’Europa. Da quel celebre inverno del 1985 non un solo fiocco di neve era più caduto sulla città, nonostante le mie annuali preghiere che cominciavano già ai primi di ottobre. Non avrebbe attecchito, nessuna possibilità, ma a nove anni ero già nostalgico, per cui mi bastò la vista di due pallini bianchi che scendevano dal cielo per anticipare la campanella, tra le urla della maestra Luciana, e correre in strada con l’entusiasmo del mattino di Natale.

In quel periodo andavo in giro con indosso un paio di jeans sdruciti, un giubbotto, sempre di jeans, però di quelli tremendi, nero, col collo liso di finto pelo, originariamente bianco ma ormai diventato grigio fuliggine. Ai piedi, sette giorni su sette, con i lacci legati dietro a segare le caviglie, portavo delle All Star alte rosso acceso. Erano gli anni in cui le All Star le avevano tutti, e io non facevo eccezione, solo che a quell’età, carico di irrequietezza puerile e non avvezzo ai lavaggi quotidiani, portandole tutto il giorno, tutti i santi giorni, sviluppavano una nube tossica dal retrogusto di topo morto in grado di abbattere un bisonte.

La mattinata a scuola era scorsa tranquilla, tra una lezione sugli inutili Ittiti e manciate di pacche sul collo a Neri, che il giorno avanti era stato da Danilo a farsi i capelli. Danilo era il barbiere di Via Torcicoda, o Cuaffer puromm, come preferiva autoappellarsi lui stesso, per darsi un tono da artista del crine.

Stavolta ne era uscito con dei capelli corti corti e ritti a spazzola ripieni di gel. Biondissimo, come Iceman, il cattivo di Top Gun, e come milioni di ragazzini in tutto il mondo in quel periodo. Lui sicuramente era più attento alle mode di me, già a dieci anni.

Testa peggiorava a vista d’occhio, la madre continuava a vestirlo e lui per ripicca si era impuntato sui capelli lasciandoseli lunghi dietro. Il risultato era Renè Higuita in versione geometra, orribile a fargli un complimento, ma a lui stava bene così.

I nostri passatempi si erano un po’ evoluti, trascorrevamo molte ore dopo scuola fuori in giro, noi perché non volevamo studiare e Testa perché non voleva stare in casa con la madre e si alzava alle quattro di mattina per fare i compiti. Genio e follia in lui andavano a braccetto, come lo strizzone dopo il caffellatte. Da qualche mese avevamo preso gusto a scorrazzare con le nostre fantastiche BMX. La mia era completamente cromata, eredità di mio fratello Niccolò. Era piena di graffi e ammaccature e mi piaceva ancora di più per quel motivo, che le dava un tocco di vissuto da strada.

Neri ne aveva una rosso fuoco, senza parafanghi, le ruote coi cerchi cromati e del nastro adesivo nero attaccato ai raggi che faceva un rumore tipo mitraglia quando andava; in una parola: esagerata.

Felipe aveva una Saltafosso nera, di quelle col cambio a tre marce sulla canna, manubrio alto e la sella lunga, molto stilosa ma decisamente inadatta alle acrobazie. Per andarci dovevi assumere una postura da harleista con la buzza.

Testa aveva una Graziellina color beige di sua sorella. Anni di prese per il culo non lo avevano minimamente scalfito, la decisione di abbandonarla la prese autonomamente solo due anni più tardi.

Chiunque abbia usato una Graziella sa che questa ha un gancetto che serve per ripiegarla in due e portarla via più facilmente anche se in realtà nessuno ne ha mai vista una chiusa. Durante una garetta tra di noi, al curvone in picchiata della Montagnola, Testa capì di avere inspiegabilmente il gancio aperto solo quando vide la ruota posteriore affiancare quella anteriore. Troppo tardi, per la Graziella e per lui. Ne uscì abraso come una crosta di Parmigiano giocandosi, in un sol botto, due mesi di bagni al mare.

L’argomento prevalente in quei lunghissimi pomeriggi erano i rizzini anche detti le penne, ovvero le impennate su una ruota sola. Principalmente contava il numero, ma era anche una questione stilistica, sebbene quel dato fosse altamente opinabile. Io me la cavavo ma non ero un fenomeno, almeno rispetto alle leggende che circolavano.

«Massimino dei vialini ci fa tutta via Torcicoda.» Massimino era l’idolo di Neri. «Giannini, quello bocciato due volte in terza elementare, va a scuola tutte le mattine su una ruota sola.» E via così fin dove la fantasia poteva volare.

Poi arrivava Jury Cassandro, che tutti noi chiamavamo Cazzandro per ovvie ragioni, che sparava sempre fuori dallo stadio. «A mio cugino Peppe di Napoli la ruota davanti gliel’hanno fottuta. Lui va in giro senza, tanto non la usava mai.» E la chiudeva così.

Cazzandro era un altro bambino del quartiere. Per il primo principio entropico dei rompiballe secondo il quale essi sono un’entità sempre crescente nell’universo, siccome il Martino Acciai era andato a vivere a Milano, nelle nostre vite era comparso lui. Il karma dei rompiballe era a posto.

Cazzandro stava a catechismo con Testa e non era un cattivo ragazzo, solo che aveva la tendenza a sparare balle colossali, ma soprattutto aveva l’innata capacità di fracassare le palle a tutti in tempi record. Ovviamente cercavamo di evitarlo come l’ebola. Se lo vedevamo arrivare da lontano ci si nascondeva finché, non vedendo nessuno, se ne tornava a casa sconsolato. Se invece era lui che ci vedeva per primo si passava ai modi più spicci caratteristici di quell’età, ovvero pedate nel culo e frizzini sulla testa. Questi metodi che erano stati molto efficaci con l’Acciai purtroppo con Cazzandro non funzionavano. Oggettivamente era un tipo testardo come un mulo e parecchio tignoso tanto che alla fine era sempre con noi.

Altro argomento fondamentale era il Commodore 64, in quel periodo passavamo pomeriggi interi a giocare a Ghosts ’n Goblins, un precursore degli sparatutto. Lì me la cavavo già meglio, ma non ai livelli dei campioni mitologici.

«Io arrivo al terzo schema senza morire mai.»

«Mio fratello l’ha finito.» E via così.

Poi arrivava Cazzandro: «Non è vero il gioco non finisce, io ci ho giocato tre giorni a fila e poi m’è esploso il Commodore perché s’è surriscaldato troppo». In fondo era quasi bello sentirlo sparare balle colossali.

Tornando a quel pomeriggio, si girellava senza meta come sempre con le nostre BMX provando le penne nel parcheggio dell’Esselunga, spesso semivuoto a quell’ora. Con noi c’era anche Felipe sopra la sua Saltafosso con in testa un caschetto che ricalcava perfettamente la sua capigliatura.

Felipe era cambiato negli ultimi tempi. Ragazzo dotato di un’intelligenza fuori dal comune, era sempre stato molto timido ma da parecchi mesi si era chiuso in se stesso ai limiti dell’autismo, tanto da rifiutarsi completamente di comunicare con gli adulti. A scuola ero io che riportavo alle maestre quello che Felipe mi diceva nelle orecchie quando interpellato. Spesso lo vedevi in disparte che parlava tra sé e sé magari canticchiando a bassa voce filastrocche che si inventava, cosa per cui ovviamente veniva deriso da tutti. A lui non importava essere deriso, anzi, sembrava non far nemmeno caso agli altri. Ricordo che in quel periodo si era fissato con una cantilena del genere: «C’è un bel lupo nel pollaio, è passato dal solaio, fa una strage nel covile, il maiale grasso e sveglio, senza urlare ebbe a dire, meglio lì che nel porcile».

Aveva una sorellina, Luisa, gemelli eterozigoti. La piccola pare assomigliasse come una goccia d’acqua alla bellissima madre Sofia, ma noi non la conoscevamo perché a scuola non c’era mai. Sempre in giro per ospedali, era infatti nata con numerosi problemi dopo una gravidanza molto sofferta e i suoi organi non si erano mai del tutto sviluppati. Felipe, che invece alla madre non assomigliava neanche un po’, era fisicamente sanissimo. Luisa riuscì a sopravvivere contro ogni parere medico per sette anni fin quando, nell’autunno del 1987, le sue condizioni peggiorarono drasticamente. Avrebbe avuto bisogno di un trapianto di rene per sopravvivere e incredibilmente Felipe non risultò compatibile.

Una storia molto triste che, unita al carattere estremamente chiuso di Felipe, spingeva i compagni di classe, ragazzini che solitamente a quell’età non brillano per tatto e savoir-faire, a non esagerare mai nei suoi confronti. La realtà, però, è che solo noi eravamo amici suoi e solo di noi si fidava, gli altri lo trattavano con educazione ma lo evitavano volentieri, come fosse malato. Neri in particolare aveva sviluppato verso di lui un forte senso protettivo da fratello maggiore e lo difendeva in tutte le situazioni.

Non saprei dire se quel suo cambiamento caratteriale, che gli faceva rifiutare il mondo adulto, fosse unicamente imputabile a quella devastante esperienza o se fosse in parte insito nella sua fragilissima personalità. Personalmente il fatto che Felipe non parlasse se non con noi o con se stesso, me lo rendeva ancor più speciale. Brillante e geniale, aveva ideato per ciascuno di noi un modo per chiamarci a gesti al posto di usare la voce quando eravamo in gruppo, cosicché Neri era rappresentato da quattro dita per i capelli ritti, io ero il mignolo alzato perché ero piccolo e secco come un uscio, Testa era una mano aperta che muoveva le cinque dita a rappresentare la medusa di capelli e Cazzandro era il pollice alzato come a fare l’autostop. Cazzandro era convinto che quel gesto significasse Fonzie, ma in realtà stava per dito in culo, decisamente più appropriato.

Tornando a quel pomeriggio, dopo un paio d’ore di saltelli sulle nostre bici, ci stavamo cominciando ad annoiare. Felipe si era messo in un angolo a canticchiare una litania nuova di zecca. «Fuggi fuggi dalle scale per ventun non scivolare, gira a destra come i granchi apri la porta e passa avanti, salta il fosso, scavalca la rete laggiù in fondo c’è una capanna dal tetto di latta, corrici dentro e fai la nanna».

Il problema è che la sparava a fila senza soluzione di continuità per cui stava diventando irritante. Per provare a distrarlo gli proposi di tornare ai giardinetti, ma Felipe scosse il capo senza smettere di canticchiare. Ci provò Neri allora, che con pazienza gli propose di andare a far incazzare Alfio del bar di piazza Batoni che di recente era diventato uno dei nostri passatempi preferiti. Stavolta Felipe annuì e sorrise senza smettere di canticchiare, ma era già qualcosa.

Andavamo al bar di Alfio principalmente perché l’altro bar della piazza, il bar del Giglio Rosso, non godeva di una bella nomea. Al Giglio Rosso le mamme ci proibivano di andare dicendo che era frequentato da gente non proprio perbene. Mia madre Gianna me lo descriveva come una centrale del narcotraffico internazionale manco fosse gestito da Escobar. Vero o no, in quegli anni, più o meno un bar su due era chiacchierato per presunti giri di droga, noi lo evitavamo più che altro perché i ragazzi più grandi non ci facevano mai giocare ai videogiochi mandandoci via a suon di pattoni sulla nuca.

Da Alfio invece ci andava la gente adulta, non che fosse un posto di lusso, con quello stile anni Sessanta non voluto, ma rimasuglio di un arredamento risalente a vent’anni prima, che si era ben guardato dal rinnovare. Schedine prestampate attaccate ovunque, pareti in finto legno annerite dal tempo e tavolini tondi in plastica ripieni di scritte a penna, tra le quali “JUVE MERDA” e “W LA TOPA” erano sempre le più gettonate.

Alfio era un tipo grosso e burbero ma qualche battuta ce la faceva sempre, e a quell’età essere considerato da un adulto, anche se pareva tuo nonno, era sempre una gran soddisfazione. Da giovane era stato un buon pugile, il naso a patata era rimasto a ricordarlo. Baffoni neri e aria severa, assomigliava vagamente a Stalin. Nel quartiere lo conoscevano tutti, compresi i nostri genitori che ci lasciavano volentieri passare i pomeriggi nel suo bar, come una sorta di doposcuola.

«Alfio come va oggi?» esordii entrando sorridente nel bar assieme agli altri. «Che me la fai una Tassoni?»

Alfio era seduto allo sgabello dietro il bancone e fumava guardando le previsioni del meteo. Alzata di sopracciglio, sguardo fugace verso di me, tiro di cicchino e via che si alza per prendere la spuma come se tu gli avessi chiesto di scaricare un camion di lavatrici.

«Tieni vai.» Mi porse la spuma in un bicchiere scheggiato che pareva essere stato sciacquato un po’ frettolosamente.

Nel frattempo gli altri si stavano adoperando nel migliore dei modi per far incazzare il barista. Neri si era messo a schiacciare le uova Kinder con la scusa di scuoterle per sentire le sorpresine. Cazzandro faceva quello che meglio sapeva fare, ovvero fracassava le palle ai vecchini che leggevano La Nazione.

Io continuai nel lavoro ai fianchi con battute simpaticissime cercando di sfoderare la faccia da culo migliore che avevo: «Che schifo dai, ma nemmeno una fetta di limone mi ci ha messo nella spuma? La prossima volta vado al Giglio Rosso».

La risposta grezzissima di Alfio non si fece attendere molto: «La fetta di limone prendila per la diarrea.»

Fine come la carta vetrata, Alfio non aveva studiato dalle Orsoline e ogni giorno che passava diminuiva il suo livello di sopportazione nei nostri confronti, anche se in fondo sapevamo che era un buono e che ci voleva bene davvero.

Purtroppo per noi, e dico purtroppo perché quel giorno cambiò radicalmente le nostre vite, anche Alfio era abilissimo nel prenderci per il culo, con quella maestria e astuzia che solo l’esperienza plurilustre di un barista di quartiere può avere.

«Sentite un po’ cazzafrulli» tipico nomignolo che dava a noi ragazzi piccini e rompiballe. «Ma perché invece di star qui tutto il giorno, non fate qualcosa di buono? Andate al manicomio abbandonato in fondo a via dell’Isolotto. Sul Lungarno dove ci sono i campi da calcio.» La nostra attenzione era stata facilmente catturata. «Nel parco ci cresce la menta, se me la portate ve la pago cinquemila lire a busta.»

«Manicomio abbandonato?» Testa abboccò tempo zero come se Alfio, che non teneva nemmeno i limoni, usasse la menta. A quei tempi mica era come oggi, al massimo potevi ordinare un Crodino per aperitivo ma, se ti azzardavi a chiedere un Mojito, era capace che qualcuno si rigirasse male pensando a qualche strano tipo di offesa.

Seduto al tavolino d’angolo come sempre c’era Andrè. Luca Battaglini, in arte Andrè, come Andrè the Giant, il lottatore di wrestling, per via delle lunghissime basette che portava e non certo per la corporatura.

Era un tipo sulla trentina e, al contrario di Andrè the Giant, era secco allampanato, con dei capelli biondicci, sempre spettinati tipo spinone e immancabile maglietta dei Ramones. I denti ingialliti dal fumo sembravano non aver mai incontrato uno spazzolino. Era giovane ma a noi ragazzini, ovviamente, sembrava vecchissimo. Cosa facesse nella vita non l’ho mai capito ma credo che il suo scopo principale fosse stare al bar, bere, fumare e reggere la parte ad Alfio. E in quello, lo devo riconoscere, era un vero maestro. Sempre zitto al tavolino, immancabile bianco Sarti tra le mani, fare distratto di chi non bada a cosa succede intorno e poi via pronto a scattare come una vipera arrotolata che ti colpisce con una rasoiata secca e precisa al momento giusto. Un artista.

«Oh che non siete mai stati all’ex manicomio Luzzi? Io ci passavo le giornate alla vostra età.»

Andrè, seduto al solito tavolino, sopracciglio destro sollevato e faccia stupita da Actor’s Studio, si prodigò in diversi minuti di descrizione del posto: «Stanze con le pareti imbottite, lettini con le cinghie, bisturi, pinze…». A ogni parola la nostra mente veniva rapita sempre di più.

«C’è da scavalcare una rete ma è uno scherzo e siete già dentro.» Aggiunse prima del gran finale. Pausa d’artista, tiro di cicchino e sguardo perso nel vuoto dei ricordi. «Dice che nel seminterrato ci sono ancora i macchinari che usavano per operare i pazzi, ma là sotto non sono mai riuscito a entrare. C’è una porta sprangata.» Rapidissima occhiata d’intesa, che ci sfuggì, con Alfio perché ormai eravamo troppo presi nell’immaginarci come i nuovi Goonies. In breve ci cascammo con tutte le scarpe e due minuti dopo stavamo già pedalando come pazzi furiosi verso il manicomio. Stavolta su due ruote che c’era fretta d’arrivare.

Ci volle un po’ più di quello che pensavamo ma alla fine, dietro a una curva, l’ex manicomio ci apparve davvero. Mi ero immaginato una sorta di castello medioevale, invece era un comune edificio in pietra non troppo grande. Due piani, a base quadrata, aveva una decina di finestre a facciata e le grondaie rugginose che penzolavano attaccate per le unghie alle pareti.

Si trovava in un’area praticamente a ridosso dell’argine sinistro all’Arno, ai margini del quartiere, in una zona dove non c’erano abitazioni diventata negli anni una sorta di discarica abusiva. Non un bel posto, lo conoscevo perché era vicino al campo di calcio della squadra di mio fratello. Probabilmente ero passato decine di volte davanti al manicomio senza mai buttarci lo sguardo. Facendo il giro della recinzione non trovammo il buco di cui aveva parlato Andrè, ma entrare fu comunque molto facile. Il parco era veramente ridotto male, in evidente stato di abbandono.

Nell’insieme sembrava il set horror di Zio Tibia. Un parco come un cimitero pieno di cipressi, solo disposti in maniera confusa, cespugli e sterpaglia cresciuta ovunque e sullo sfondo il manicomio. Le finestre inchiodate con assi di legno marcite e la porta di accesso murata con mattoni rossi. I cartelli di divieto e pericolo non ci intimorirono. La facciata dell’ingresso principale era ricoperta di edera che saliva fino al secondo piano. A quella vista ce la facemmo sotto tutti quanti, almeno io di sicuro, ma nessuno a quel punto ebbe il coraggio di ammetterlo, l’unico tranquillo sembrava Felipe, imperscrutabile come sempre, che canticchiava ancora a bassa voce: «Fuggi fuggi dalle scale…».

«E basta Felipe» gli urlò Neri, palesemente innervosito. Zittito Felipe scese un silenzio raggelante ad accompagnare i nostri titubanti movimenti.

Il primo a prendere l’iniziativa fu Neri, più per riprendersi lo scettro di duro del gruppo dopo lo scatto di prima, che per reale convinzione. Si fece largo tra i cespugli e avanzò verso l’entrata, dietro di lui io, poi Testa e Felipe e infine Cazzandro, ultimo e visibilmente non convinto, stranamente anche lui non proferì parola.

Della menta ce n’eravamo già scordati, l’unico scopo a quel punto era entrare nel manicomio. Non fu nemmeno troppo difficile. Una delle finestre del piano terra aveva le assi di legno marcite a tal punto che cascavano a pezzi. Romperle ed entrare fu facilissimo.

Dentro però non c’era niente di quello che ci aveva detto Andrè, era tutto vuoto a eccezione di calcinacci sparsi e qualche straccio buttato in terra. Puzza di piscio, chiuso e muffa.

Un po’ di delusione ci fu, ma era comunque un posto esagerato a nostra completa disposizione. La paura era un po’ passata e cominciammo a perlustrare le stanze, dalle assi inchiodate alle finestre filtrava una luce sufficiente. Neri cominciò a fare il verso del gufo per far spaventare Cazzandro, io gli feci la mia specialità, il gatto randagio incazzato. Più lui si impauriva e più noi si insisteva mentre Testa ridacchiava silenziosamente. Prendersela con Cazzandro era una cosa che univa e riportava buonumore.

Dopo pochi minuti di perlustrazione ci trovammo di fronte alla famosa porta chiusa. Francamente a quel punto non credevo proprio che esistesse, convinto che Andrè ci avesse preso in giro, invece c’era eccome, però non era sprangata, bensì chiusa semplicemente con un catenaccio. Era solida e sia il catenaccio che il lucchetto sembravano nuovi. Il pensiero di lasciar perdere non ci sfiorò nemmeno.

Neri raccattò il legno più grosso che c’era nei paraggi e cominciò a forzare. La via della delicatezza durò pochi secondi, poi a turno cominciammo a tirare calci forsennati a quella porta come se fosse un mostro dei videogiochi. Non ricordo bene quanto durò, ricordo solo che eravamo tutti sudati marci, mi ero tolto il giubbotto e le mie All Star cominciavano ad aprirsi sulla suola, ma alla fine la porta cedette.

Lo scenario che si aprì anche in quel caso non fu molto esaltante. Uno stanzone enorme, completamente vuoto senza finestre. Sullo sfondo si intravedeva una scala che scendeva inghiottita dal buio. Subito Cazzandro si chiamò fuori: «Io là sotto non ci vado manco morto». Stavolta ero totalmente d’accordo con lui, in quel buco nero non mi ci sarei infilato nemmeno sotto tortura. Avevamo già girato il culo per tornare indietro quando Felipe, che aveva nel frattempo ricominciato con la messa sottovoce, si diresse dritto giù per le scale, lasciandoci a bocca aperta, esitanti sul da farsi, bloccati dalla paura. Passarono diversi secondi, Felipe era già sparito anche se sentivamo ancora flebile la sua voce: «… Gira a destra come i granchi…».

Neri decise che bisognava andarlo a riprendere, traccheggiammo diversi secondi, nessuno di noi voleva andare là sotto ma, per le regole non scritte del branco, alla fine vinse Neri.

Scendemmo giù ma davvero l’oscurità cominciava a inghiottirci, tanto che dovemmo avanzare rasenti alle pareti a tastoni. Mi ricordo che parlavo a voce alta per tranquillizzarmi ed essere sicuro di non rimanere indietro. Neri chiamava Felipe ma senza risposta, non lo sentivamo nemmeno più cantare.

Le scale erano molto lunghe e non saprei quantificare quanto tempo siamo rimasti giù, pochi secondi probabilmente ma sembrava un’eternità. Neri lo avevo davanti e lo toccavo per paura di perderlo, Cazzandro e Testa li sentivo respirare pesanti dietro di me, poi dal nulla un rumore improvviso come di assi di legno che si spezzano ci gelò il sangue.

Tempo quattro nanosecondi e ci fu la grande fuga, ognun per sé Dio per tutti. Accanto a me era rimasto Cazzandro, per l’occasione svelto come una lepre a dispetto del fisico, poco dietro intravidi Testa, mentre Neri lo avevo perso.

Riemerso all’aperto cominciai a respirare nuovamente. Accanto a me Testa e Cazzandro rossi paonazzi. Qualche secondo e ricomparve anche Neri, ostentando finta calma. Eravamo usciti tutti, tutti tranne Felipe. Felipe non c’era. Passata un po’ la strizza cominciammo a chiamarlo a voce alta, pensando che si fosse nascosto da qualche parte. Niente. Nessuna risposta.

Lo cercammo nel parco, a lungo, chiamandolo a voce sempre più alta. Urlammo a turno dalla finestra dalla quale eravamo entrati perché nessuno di noi ebbe il coraggio di rientrare. La sua bici era ancora là, buttata a terra assieme alle nostre, nella stessa posizione di quando eravamo arrivati. Pochi istanti e dal cielo cominciarono a scendere goccioloni grossi come noccioline. Un temporale improvviso ci colse senza difese; zuppi, infreddoliti e impauriti continuammo invano a gridare il nome di Felipe, ma ormai il rumore della pioggia copriva le nostre voci e lo sconforto prevalse ben presto.

Dopo di noi lo cercò la polizia, con i cani e i sommozzatori. Durante un sopralluogo negli scantinati della villa fu infatti trovato un pozzo che era stato chiuso con delle assi di legno spezzate. Ecco il rumore che avevamo sentito. L’ipotesi fu che Felipe fosse passato accidentalmente sopra le assi e caduto nel pozzo che purtroppo andava direttamente a scaricare nelle gelide acque dell’Arno, molto grosso in quei giorni di marzo.

Per i tre giorni successivi, più o meno intensamente, non smise un secondo di piovere rendendo complicate le operazioni di ricerca e flebili le speranze di ritrovare il nostro amico.

Le settimane successive furono molto tormentate, tutta la città, non solo il quartiere, venne sconvolta dall’evento. Fu dragato un bel tratto del fiume, rinvenendo di tutto, copertoni, carrelli del supermercato, materassi, motorini, di tutto tranne il corpo di Felipe. La polizia continuò per un po’ le ricerche spinta dall’emotività di tutto il quartiere stretto attorno a una giovane coppia di genitori che aveva già sofferto anche troppo, ma da quel piovoso pomeriggio di marzo del 1988, Felipe non lo rivedemmo più.

03 aprile 2018

Iacopo Bianchi parla di lettura e narrativa contemporanea

In occasione di Libernauta, progetto di Regione Toscana dedicato alle ragazze e ai ragazzi dai 14 ai 19 anni, nato per promuovere la lettura e il rapporto continuativo con il libro, Iacopo Bianchi, autore di Porcini sull'asfalto, interverrà in qualità di scrittore. Mercoledì 4 aprile 2018 - ore 12:00, Palazzo Vecchio (Sala Macconi) in Piazza della Signoria, Firenze

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Ciao Prof. Helmut Alzheimer 🙂 domenica 31 sono fuori, ma se rientro in tempo faccio un salto a vedere la presentazione.

  2. Valerio Gamba

    (proprietario verificato)

    Grunge… Baggio… Anni ’90… Sono un ’78 anch’io – e pure ingegnere ambientale! – e che ci volete fare, a quest’età si comincia a diventare un poco nostalgici. Non vedo l’ora di leggerlo! La presentazione è intrigante. In bocca al lupo…

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Iacopo Bianchi
Iacopo Bianchi, classe 1978, è nato e cresciuto in quella periferia fiorentina che fa da sfondo al suo romanzo. Laureato all'Università di Firenze, quando non scrive si occupa di ingegneria ambientale. Porcini sull'asfalto è il suo primo romanzo.
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