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I prigionieri del Siri

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1544. Alla sommità di Favale, piccolo borgo della Lucania lungo il fiume Siri, si erge una rocca, feudo della famiglia Morra. In un luogo lontano dai turbinii della Storia, l’esistenza dei suoi abitanti verrà scossa da una serie di avvenimenti.
Al centro del romanzo campeggiano le figure di Isabella Morra, celebre poetessa del Cinquecento, e del suo precettore Diomede, il quale viene richiamato dal barone di Favale dopo anni di lontananza. Reduce da vicende belliche che lo hanno portato a maturare una profonda crisi interiore, Diomede si è avvicinato a dottrine filosofiche considerate eretiche, tali da esporlo ai pericoli della persecuzione. La vita dei due protagonisti sarà resa quanto mai
difficile dai fratelli di Isabella, uomini oziosi e violenti.
Le vicende degli abitanti della rocca si intrecceranno con la figura del poeta e soldato spagnolo Diego Sandoval de Castro che inizierà con Isabella una storia d’amore segreta, suscitando l’ostilità atavica e le trame dei Morra contro l’odiato straniero.
Il romanzo si basa su fatti storici realmente accaduti. La fantasia dell’autore si è limitata a insinuarsi nel cono d’ombra del mito con il fine di indagare la realtà oscura dell’animo dei protagonisti, affiancandosi il più fedelmente
possibile a ciò che la Storia ci ha tramandato e accompagnandola dove la lacunosità delle fonti impedisce di discernere il vero dalla leggenda.

Capitolo 1

Nelle pallide foschie serali dei primi giorni d’autunno, che attutiscono e infrangono l’ultima luce del giorno, un viaggiatore giunse esausto ai piedi di un promontorio nei pressi di un bivio, trascinando per le briglie il suo cavallo, che dall’aspetto sembrava più spossato del padrone. Segnato dalla stanchezza per il lungo viaggio e incerto sulla via da percorrere, l’uomo sedette su un sasso sotto una quercia imponente, in attesa che qualcuno passasse e lo aiutasse indicandogli la strada. Trascorso non molto tempo da quando era lì immobile a scrutare nel nulla, da lontano udì avvicinarsi dal sentiero tortuoso e scosceso qualcuno che tirava con forza un asino, lanciando a intervalli regolari un grido gutturale per spronare il pigro animale che affrontava a stento la dura salita. Alla vista dello straniero si presentarono subito dopo le sagome frastagliate e indistinte, immerse nella sottile nebbia e nell’oscurità che avanzava nella valle. Quando la coppia fu abbastanza vicina, il viaggiatore si alzò in piedi e gridò al villano: «Buon uomo, mi perdoni. Potrebbe indicarmi la direzione per il castello di Favale?».

L’uomo, un contadino piuttosto giovane, che portava i solchi di una fatica arcaica impressi sulla fronte madida di un sudore lercio e fasci di rughe sul collo che aveva il colore di argilla fresca, lo guardò in silenzio con occhi vividi e incuriositi, come se delle parole pronunziate dallo straniero, con un accento molto diverso da quello a cui era abituato, avesse capito solo l’ultima: Favale. Costui portava sulla spalla sinistra una zappa intrisa di terra rossiccia; con il braccio destro indicò la direzione da seguire e poi aggiunse quasi balbettando: «Vossignoria sembra stanco, vuole dell’acqua? La strada è ancora lunga. Seguitemi, vi ci porto io lassù».

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Detto questo, l’uomo armeggiò sulla schiena dell’asino fra le sporte legate saldamente al basto e ricolme di carote, verdure varie e radici, tirando fuori un otre con dell’acqua. Il viandante non rifiutò quel prezioso dono, benché sembrasse sudicio come chi glielo aveva offerto. Al contadino, quel forestiero doveva essere sembrato un signore degno di rispetto, dal momento che aveva deciso subito di aiutarlo a raggiungere la sua meta. Infatti lo straniero, avvolto in un mantello di feltro nero, con un bel berretto sul capo e il viso curato, con stivali di pregiata manifattura, benché ora sporchi di fanghiglia, aveva l’aria di essere un uomo di una certa importanza, forse al servizio di un gran signore di qualche città importante.

Il villaggio di Favale, dopo alcune ripide salite comparve finalmente ai loro occhi, svettando in cima con la sua mole cupa. Quello che da lì riuscivano a scorgere era la forma di un borgo ripido sormontato da una fortezza imponente da cui si intravedevano luci remote e flebili, incastonato in una porzione di cielo che al lapislazzulo del primo imbrunire aveva sostituito il colore cinereo della notte. Tutt’intorno pochi rumori a colmare il silenzio lugubre della sera: il gorgogliare mosso del Siri, che proprio sotto al loro passaggio scorreva, contenuto all’interno di strapiombi rocciosi, e formava un’ansa in cui l’acqua torbida si infrangeva con impeto su spuntoni frastagliati di massi; i grugniti di maiali rinchiusi nei recinti spaventati dai passi della compagnia, il nitrire mansueto di un cavallo in una stalla scavata nella roccia viva e friabile. Tutta la vallata e le colline ormai scomparivano nel buio attimo dopo attimo e le fioche luci domestiche si spegnevano a una a una. Nell’ombra che si spandeva come fuliggine, si potevano scorgere gatti bianchi pezzati che, furtivi e lesti, correvano radenti lungo pareti di mattoni irregolari di tufo o sopra i muri a secco dei piccoli cortili di umili abitazioni. Solo la fortezza di Favale, come il faro dei marinai di notte, guidava l’avanzare incerto del contadino e del suo compagno di viaggio sconosciuto.

Il villano fece cenno al forestiero che le loro strade si dividevano in quel punto e che lui era arrivato finalmente a casa. Gli indicò la via da seguire, che si inerpicava sconnessa e polverosa ancora più in alto, e si accomiatò con un gesto di ossequio prolungato e ripetuto. La foschia si era ormai diradata lasciando intravedere una sera limpida, anche se priva della luna. Il viandante poteva scorgere sempre più distintamente il castello, le merlature, e persino scorci delle sale interne illuminate. La costruzione, aggrappata a un costone di roccia appuntito, si trovava al centro di un territorio a cui facevano corona tutt’intorno colline e ripidi picchi ricoperti da una fitta vegetazione, che a quell’ora della sera appariva una semplice ombra indistinta, un manto scuro adagiato sull’orizzonte. L’uomo stringeva tra le mani, sotto il mantello, delle carte. Queste rappresentavano lo scopo per cui era giunto fin lì da così lontano. Dovevano essere molto importanti se durante il suo cammino verificava ripetutamente col tatto, trattenendo il fiato, che non fossero malauguratamente volate via.

Il viaggiatore finalmente giunse, col respiro grosso, dinanzi al maestoso e massiccio portone, tipico di una struttura militare con una volta larga a ogiva piuttosto bassa. Agitò il batacchio tre volte, con insistenza, e non attese molto prima di sentire la domanda che si aspettava.

«Chi è là?» udì con vigore.

Mentre l’eco della voce che aveva pronunciato quella secca domanda non si era ancora dissolta, si aprì la finestrella del portone e si materializzò, rischiarato da una torcia, il viso dimesso del guardiano del castello coperto da una barbetta ispida.

«Mi chiamo Giovanni di Brienza e sono giunto dalla Francia per conto dell’illustrissimo signore Giovan Michele Morra, del quale porto missive e documenti di grandissima importanza. Vi prego pertanto, buon uomo, di accogliermi presso di voi e riferire al signore del castello, Marcantonio Morra, che reco notizie di suo padre.»

Il castellano squadrò per bene lo sconosciuto e senza fare altre domande, dopo aver aperto chiavistelli e sciolto varie catene, fece entrare Giovanni.

«Vogliate seguirmi, signore» disse con fare burbero.

I due si recarono all’interno della fortezza. Dopo aver attraversato un vasto cortile avvolto nell’oscurità, entrarono in un ampio salone quasi spoglio, arredato con quattro sedie collocate su entrambi i lati lunghi della stanza; due grossi bauli di quercia e un camino spento, incrostato di fuliggine. L’ambiente era molto semplice e austero, solo due arazzi raffiguranti paesaggi bucolici e agresti donavano un po’ di colore al grigiore lapideo delle pareti e alla freddezza della stanza. Due torce ardevano, facendo danzare le ombre del messaggero e del guardiano negli spazi vuoti dell’atrio.

«Aspettatemi qui, vado dal padrone per annunziarvi: se è libero sarete chiamato subito. Intanto vogliate sedervi» disse in tono asciutto, quasi perentorio, il castellano, non appena furono nel salone.

Subito dopo aver parlato, si dileguò attraverso una porticina. Giovanni rimase solo per un tempo imprecisato, troppo breve per dargli conforto dopo le ore di cammino lungo sentieri disagevoli; troppo lunga quell’attesa, che si frapponeva alla fine della sua missione e gli impediva di andare a dormire e chiudere gli occhi su quella giornata passata a respirare aria malsana.

Involontariamente fissò gli occhi su uno degli arazzi della sala: una scena di caccia in aperta campagna raffigurata sullo sfondo di una natura accogliente, priva di pericoli, che sembrava esistere solo per allietare gli uomini. Di molto differiva quella rappresentazione dalla natura con cui Giovanni era entrato in contatto arrivando dalla Francia. Forse l’artista aveva viaggiato poco, pensava il viaggiatore, e non era mai giunto fin lì, nel ventre di un’Italia remota; o forse era un sognatore e aveva disegnato un luogo irreale, un’Arcadia fantastica, un luogo dell’anima in cui rifugiarsi.

Preso da queste riflessioni, il messo quasi si addormentò sulla sedia ma, nel momento indefinibile del passaggio all’incoscienza, quando stava per crollare dal sonno, venne svegliato dai passi veloci del castellano che si avvicinava. Quando costui riapparve disse scontroso: «Seguitemi, i padroni possono ricevervi».

Il viaggiatore si alzò di scatto ed eseguì l’ordine. Salirono al piano superiore attraverso un corridoio buio e freddo, poi imboccarono un andito non molto lungo, alla fine del quale c’era una porta aperta da cui filtrava una luce rossastra di candele. Il messo entrò e, appena varcata la soglia, fece un inchino profondo senza neanche far caso a chi fosse nella stanza. Alzando la testa vide un uomo seduto dietro un robusto tavolo di rovere e in piedi, accanto al caminetto acceso, una donna severa, di corporatura minuta, vestita in modo semplice ma con decoro.

«Vogliate entrare, prendete pure posto e dite innanzitutto il vostro nome e raccontateci il vostro viaggio.» La distinta signora pronunciò quelle parole con un tono monotono, di una gentilezza formale e con un sorriso tirato, espressione di un puro gesto fisico.

Cercava di nascondere l’emozione di ricevere quella lettera così attesa di fronte a uno sconosciuto. La missiva, infatti, aveva per lei un’importanza vitale: era da essa che la sua esistenza, il suo umore, i suoi stati d’animo dipendevano. Il messaggero aprì il suo mantello mentre rispondeva alle domande di circostanza e consegnò le carte nelle mani della donna, che nel frattempo aveva compiuto alcuni passi verso il viaggiatore.

«Non sapete quanto mi allieta ricevere questa lettera» aggiunse, protendendo il braccio tremante per afferrare i fogli sgualciti e con il viso che piano piano si distendeva.

«Illustrissimo signor Marcantonio, donna Luisa, chiedo perdono per l’ora tarda a cui giungo nel vostro castello. Non immaginate quanto sia grato a Dio di essere riuscito a consegnare alle signorie vostre una così importante missiva. Raggiungere queste terre non è affatto impresa facile, i pericoli non sono stati pochi.» Dopo questa premessa si presentò e descrisse brevemente il suo viaggio da Fontainebleau fino al feudo di Favale, attraverso il Mar Tirreno. Parlò del suo arrivo a Napoli, della marcia nell’aspro entroterra del Viceregno, giù fino alla meta. Fu molto laconico e non si soffermò sui particolari o su qualche episodio ameno per non annoiare l’uditorio, concludere quanto prima il suo lavoro e stendere finalmente da qualche parte le sue membra spossate.

Fatto il suo breve resoconto anche sullo stato delle cose in Francia, si accomiatò e lasciò con sussiego donna Luisa Brancaccio e Marcantonio Morra, che rimasero soli. Il fuoco nel caminetto agonizzava e un silenzio carico di interrogativi e curiosità pervadeva la stanza. La donna fra le mani stringeva convulsamente i fogli su cui era impressa la calligrafia del marito lontano, mentre il figlio fissava lo sguardo nel vuoto, mostrando un’indifferenza che nel fondo del suo animo cercava di nascondere un rancore istintivo, soffocato e represso. Marcantonio accentuò la postura già scomposta con cui si era adagiato sull’imponente sedia; questo, insieme al modo di vestire trasandato, quasi sciatto, esternò inconsapevolmente la sua ostilità nei confronti delle notizie che venivano dal padre esule in Francia.

«Marcantonio, non ricordo più quanti mesi sono passati dall’ultima lettera di vostro padre, l’assenza di notizie genera sempre un senso di angoscia peggiore dell’annuncio della morte. Questa lettera mi restituisce la vita» disse donna Luisa tremando di un’emozione convulsa.

«Madre, che differenza fa per noi se mio padre è vivo o morto? Lui è ormai lontano da quindici anni e si limita due volte all’anno, se non di meno, a inviarci lettere, qualche regalo, un po’ di soldi, qualche motto di saggezza. Per il resto è un fantasma per tutti noi. Ci ha lasciato in eredità un’interminabile catena di problemi.»

All’emozione della moglie fece da eco il rancore sprezzante del figlio, che proseguì dicendo: «Mentre lui vive in una corte dorata al cospetto del re di Francia noi siamo qui a vivere nella penuria, circondati da persone e famiglie a noi avverse, da un Viceré che ci opprime».

Marcantonio prese fiato e, dopo aver deglutito, chiosò stizzito tra i denti: «Madre, non so come voi possiate gioire tanto al solo tatto di quelle carte».

«Figlio mio, possibile che dobbiate ripetere le stesse cose tutti i giorni? Sembra lo facciate apposta, a rovinare i miei momenti di gioia. Mi sono venute a noia le vostre parole e il bieco rancore per quello che voi chiamate abbandono. Sapete benissimo che vostro padre non potrebbe rientrare in questo feudo senza subire oscure e atroci vendette. E poi io nutro una saldissima certezza che stia facendo di tutto per far sì che i suoi figli riescano a raggiungerlo in Francia: la sua carriera presso re Francesco di Valois non può che giovare a tutti noi. Non dimenticatelo, figlio ingrato!»

Marcantonio rispose al rimbrotto della madre alzando la voce fino a gridare: «Continuate pure a sognare! Intanto qui rischiamo di fare la fame! Il pagamento del tributo impostoci dal Viceré per riscattare la proprietà di Favale, le cattive annate, la mancata riscossione degli affitti della terra, l’aumento delle imposte per finanziare, guarda caso, la guerra mossa proprio contro il vostro amatissimo re di Francia, ci stanno annientando. E voi vagheggiate ancora le corti d’Europa, vi trastullate in amene fantasie? Ma se, benché nobili, non riusciamo a campare come cristiani, cosa vi aspettate da vostro marito?».

Donna Luisa, per tutta risposta alzò anche lei il tono di voce, che si fece stridulo e indignato: «Vi vieto di parlare così a vostra madre! Se c’è una persona che ha preso sulle sue spalle la croce di questa casa, sono stata io, allevando sette figli e amministrando l’economia del feudo fra mille asperità e pericoli. Tutto ciò l’ho fatto perché conosco vostro padre e so che non ci abbandonerà. Io non ho perso la speranza. Questo periodo presto o tardi avrà termine, abbiate fede e i nostri possedimenti ritorneranno alla dignità di un tempo». Lo sfogo fece arrossire il volto di donna Luisa e accentuò le rughe sul suo viso, rinsecchito dalle sofferenze della vita che però non avevano scalfito l’espressione fieramente aristocratica della baronessa. Nella stanza il silenzio calò ancora una volta, la signora di Favale dispiegò la lettera, poi disse con un tono calmo ma fermo: «Ora, se non vi dispiace vorrei che mi leggeste la lettera di vostro padre, i miei occhi ormai avvizziti dalla vecchiaia non mi consentono di farlo senza sforzo».

Allungò il braccio e la porse al figlio; ritornò a sedersi accanto al fuoco con la schiena dritta e il capo rivolto a Marcantonio. Costui si raddrizzò sulla sedia, avvicinò le carte alla candela, si schiarì un po’ la voce e cominciò a leggere.

Carissima Luisa,

forse mi rimprovererete ancora la rarità con cui vi scrivo ma questa volta, moglie mia, non mi biasimerete, come fate di solito, per la brevità delle mie lettere, poiché vorrei parlare in dettaglio non solo di me, ma anche esprimere col cuore quanto ognuno di voi sinceramente mi manca e quanto io vagheggi i nostri figli, le nostre terre e la nostra vita insieme. Comincio col chiedervi perdono fino a inginocchiarmi per aver trascurato la corrispondenza con voi, ma un fedele servitore del suo sovrano pone al primo posto il compimento del proprio dovere, anche a costo di rinunciare alla cura delle cose più personali e degli affetti. Grazie a Dio a darmi gioia c’è nostro figlio Cornelio, che cresce magnificamente ed è ormai un uomo fatto, di una grazia e di un’intelligenza fuori dal comune che lo stanno portando lontano. Mi rende felice guardarlo in viso e riconoscere i vostri tratti, i vostri occhi e quell’espressione altera che vi appartiene. Ma parlerò più appresso anche di lui senza lesinare i dettagli. Per prima cosa però vorrei descrivervi la mia attuale situazione in Francia. Come ben sapete il nostro sublime sovrano, per il quale non potrò mai ringraziare abbastanza Dio per avermi onorato di servirlo, svolge una febbrile attività politica e militare, che costringe i propri cortigiani e consiglieri a spostarsi di continuo con la corte non solo per la Francia, ma anche per tutte le province d’Italia; invia di continuo missioni diplomatiche presso i più importanti sovrani d’Europa. Fra i suoi fedeli servi c’è anche il vostro consorte al quale si rivolge per commissioni di grande prestigio: dovreste gioire, piuttosto che biasimarmi, se trascuro voi per concedermi a un simile amante.

Vi scrivo pertanto in un periodo di pausa e di relativa calma nella mia vita e persino di solitudine, dama a me per lo più sconosciuta, che comincio a conoscere solo adesso che gli anni si fanno sentire col loro pesante carico sulle mie spalle. Cerco conforto, quindi, in voi e il pensiero che queste mie carte e le parole che vi scrivo possano arrivare a lambire i vostri occhi e quelli dei nostri figli mi dà quel conforto di cui ho bisogno.

Dicevo che questa libertà dagli affanni di corte è una situazione inusuale, in quanto il nostro amato sovrano non è solito riposare mai ed è sempre in preda al desiderio di fare qualcosa. La guerra, l’amministrazione del regno, la caccia, le feste, il corteggiamento di donne raffinate e colte, ma anche il suo amore per la poesia, la musica e l’arte. Questo suo vortice di impegni ci costringe a seguirlo, consigliarlo in tutte le sue attività e capricci.

Quello che si dice delle corti come luoghi da sogno, come paradisi e cenacoli di menti elette e animi valorosi, oggi come non mai è una falsità. In più, sembra che la penuria di risorse cominci a colpire anche la cerchia più stretta dei collaboratori del Re. Non dico che lo splendore dei festeggiamenti e dei balli che il nostro grazioso Re ama organizzare, abbiano perso lo sfarzo e la magnificenza degli anni passati, ma intendo affermare che oggi respiriamo tutti un’aria triste, di impoverimento, di inutilità, di incertezza per il domani. Per farvi capire meglio cosa intendo prendo a esempio gli accomodamenti durante i viaggi: sono sempre meno confortevoli e spesso capita addirittura di dividere il letto con qualcun altro, tanto ci siamo impoveriti. Il cibo poi scarseggia di qualità e quantità, il lassismo si fa sempre più strada fra i membri della corte. Fatta eccezione dei banchetti ufficiali alla presenza di ambasciatori stranieri o esponenti di alcune famiglie dell’alta nobiltà, gli alimenti per noi cortigiani son diventati molto più leggeri. Ci costringono persino a digiunare, anche fuori dai precetti religiosi. Le battute di caccia che piacciono tanto al Re sono ormai una rarità e non credo a causa della sua età non più rosea, egli infatti è ancora vigoroso e prestante come un giovane di vent’anni, ma a causa dei problemi che si affacciano sempre più numerosi e imprevisti in seno al Regno.

Anche le persone e i nuovi favoriti di Sua Maestà hanno una condotta immorale e consigliano al peggio il nostro sovrano. Sempre più spesso capita che Francesco si chiuda nei suoi appartamenti privati con gente di dubbia fama e alquanto sospetta, preferendoli ai suoi tradizionali cortigiani. Un tempo anche io avevo accesso a quei medesimi appartamenti e a quella stima regale, ma a causa di alcuni contrasti con chi ora detiene le chiavi del cuore del Re, sono stato estromesso da quelle sale e dai suoi consigli, anche se Sua Altezza non ha dimenticato i miei servigi, la mia fedeltà e l’onestà del mio operato e della mia condotta, e per questo ha ancora un luogo non piccolo nel suo animo a me destinato.

E che dire dei suoi ripetuti scatti d’ira? Essi indicano senza dubbio che niente procede per il verso giusto. È sufficiente che un cortigiano indossi un abito che non gli aggrada, che una pietanza sia cotta in modo un po’ diverso da come lui desiderava, che qualcuno risponda con un tono che in quel momento lo infastidisce, che una danza sia condotta secondo passi diversi dal suo gusto, ed egli va su tutte le furie con gli occhi che cominciano a schizzare sangue e il naso affilato ad arricciarsi, assumendo fattezze demoniache. La giovialità di un tempo è relegata a fugaci momenti di grazia, come quando si trastulla fra le braccia di qualche dama di corte o durante una giostra o una battuta di caccia in nostra compagnia. Per il resto è un continuo borbottare e imprecare contro la cattiva sorte, le ripetute sconfitte militari, la mancanza di denaro e la decadenza dei costumi. Ma questo, se non amassi dal profondo dell’anima il mio sovrano, non oserei neanche dirlo. Di ciò parlo in intimità con voi, Luisa, poiché questa corte e il Re sono la mia vita, alla quale ho sacrificato la vicinanza a voi ma non l’amore che a voi e ai nostri figli costantemente mi unisce. Ci sono insomma parecchi sintomi che lasciano presagire sventure come se ci avvicinassimo alla vigilia di un periodo di torbidi e di vendette, come se l’incanto degli anni passati fosse destinato d’improvviso a svanire. Tale pensiero mi tormenta in continuazione e non riesco a tacerlo.

Voglio parlarvi di queste mie paure. Non l’ho mai fatto prima d’ora, ma è arrivato il momento di rendervene conto; non credo quindi di risultarvi tedioso poiché i cupi presentimenti, che ora turbano me, temo che un giorno possano giungere anche da voi e pertanto vi metto in guardia.

Da alcuni anni, circa una decade, serpeggiano silenziosamente nuove minacce e nuovi pericoli. Essi non si incarnano in eserciti o sovrani stranieri. Persino l’imperatore Carlo, nonostante la guerra in corso, non è il vero pericolo per la Francia e il mondo cristiano. C’è qualcosa di più subdolo per le nostre anime e per la nostra fede. Il nostro regno e l’Europa tutta sono scossi da un proliferare di eresie e false credenze che ogni giorno che passa prendono il sopravvento ad opera di falsi profeti e monaci spiritati, come quell’eremita tedesco di nome Lutero di cui tutti parlano e che sta sovvertendo l’ordine e l’unità cattolica. La situazione ha cominciato a giungere all’attenzione del nostro sovrano alcuni anni addietro, nell’autunno del 1534, allorché un gruppo di facinorosi sostenitori di quelle dottrine aberranti si macchiarono del delitto di affiggere in numerose città di Francia tesi sull’eucarestia contrarie al nostro credo. In quei fogliacci sostenevano che essa non fosse il corpo di Cristo e screditavano il ruolo delle gerarchie ecclesiastiche. Ciò che generò in noi sommo stupore e allarme fu il fatto che i detti manifesti raggiunsero anche le stanze del nostro sovrano ad Amboise. Un affronto così marcato era per noi impossibile da tollerare. Il Re, fino ad allora molto accomodante con luterani, calvinisti e valdesi, non poté sopportare una provocazione così abnorme e tantomeno che si potesse solo lontanamente pensare che il pio re Francesco non difendesse con zelo e convinzione la causa cattolica. Fu deciso così di dare la caccia agli autori di un simile obbrobrio e ai loro spalleggiatori. In quei giorni ebbi modo di vedere di persona come la vicenda l’avesse scosso nel profondo; cominciammo a temere che il morbo che aveva infettato i principati tedeschi giungesse anche da noi con la sua forza distruttrice e sovvertitrice dell’ordine morale, politico e religioso. Assistetti a feroci imprecazioni da parte del Re contro la teologia luterana e l’invenzione della stampa che consentiva in un batter di ciglia la circolazione di tali bestemmie contro la santa religione cattolica. Sentire da un uomo amante delle arti e della cultura simili improperi contro un mezzo così utile alla diffusione dell’arte stessa mi ferì molto, e temetti che in uno scatto d’ira vietasse o limitasse l’espressione del genio artistico della sua divina corte. La reazione di Francesco fu decisa, rapida e cruenta. Fece individuare i responsabili, dei quali il principale artefice fu ritenuto Antoine Marcourt, e molti altri che vennero tratti nelle prigioni dello Châtelet, carcere tristemente noto per la durezza delle condizioni di vita.

Poco dopo, nel novembre del medesimo anno, cominciarono le esecuzioni. Quegli zelanti luterani furono condannati come eretici e arsi vivi. Molti altri furono costretti a lasciare la Francia e a cercare asilo oltre confine. Tuttavia gli atti provocatori e di sfida non si fermarono, rendendo chiaro che poteva scoppiare una guerra di religione che avrebbe rischiato di sconvolgere l’intera Francia. Quell’anno segnò un momento di non ritorno e qualcosa cambiò, dando avvio a persecuzioni sempre più cruente nei confronti dei seguaci di Lutero e dei suoi emuli. È da allora che il Re cominciò ad avere dei comportamenti violenti e continui sospetti. Anche persone a lui vicine e per le quali aveva espresso tutto il suo rispetto, vennero allontanate a causa di vaghe dicerie sul loro credo. Con mio vivo rammarico fra questi uomini caduti in disgrazia a seguito di sospetti infamanti, posso annoverare anche il mio caro amico Clément Marot, fra i più brillanti poeti che la Francia conosca. Da più di due anni è stato costretto all’esilio e da allora non riesco più ad avere sue notizie. Spesso discutevamo di poesia e di canoni estetici, il suo carattere allegro e affabile, incline allo scherzo e dai modi estremamente raffinati, rendeva la conversazione un piacere per me unico. Io per diletto, lui per professione scrivevamo versi, lui in francese, io in italiano, ispirandoci entrambi al sommo Petrarca. Anche come filosofo e uomo di pensiero era dotato di grande acume e spirito libero. Per questo inviso ai più tradizionalisti e facilmente tacciabile di sospetti di qualsivoglia sorta. Ha pagato molto più di quanto non meritasse, nonostante la sua indole intemperante. Così il veleno della calunnia ha infettato anche un uomo di valore e ingegno e mio grande amico. E questo a causa della devastazione morale a cui ogni giorno siamo costretti ad assistere. Dobbiamo però essere forti, e vorrei fare mie le parole di Seneca che scrive: “Tormenta abesse a me velim; sed si sustinenda fuerint, ut me in illis fortiter, honeste, animose geram optabo”; o quando dice: “non incommoda optabilia sunt, sed virtus qua perferuntur incommoda”. Così la mia stella polare rimane la virtù, che in mezzo a questo deserto si rafforza e mi fa sopravvivere e guardare avanti, rendendomi indifferente alle tragedie che si verificano attorno a me.

A queste sventure, però, ne seguono altre che mi fanno tremare ancor di più i polsi, considerando anche la situazione dei nostri possedimenti in Basilicata e Calabria. Ho, infatti, appreso con dispiacere una notizia molto grave. Ovvero che il presidente del parlamento della Provenza Monsieur Bartolomeo de Chassanée è deceduto improvvisamente e in circostanze misteriose, in casa sua, dopo un’agonia di alcuni giorni fra atroci dolori alla zona lombare. Si dice che qualcuno lo abbia avvelenato e che ciò sia stato compiuto da cattolici facinorosi e intransigenti. Questo lutto avrà, ciò è chiaro fin da ora, conseguenze spiacevoli per la pace del Regno e forse anche per le terre di Calabria. Quel brav’uomo di Bartolomeo era riuscito a limare i contrasti fra i cattolici e gli eretici della Provenza, in particolare i valdesi, trattando con clemenza tutti coloro che avevano smarrito la vera fede e, come si addice a un buon cristiano, senza procedere con le condanne, riuscendo così a mantenere la pace. Questa sua prudenza gli aveva attirato il sospetto di molti nobili e cardinali fin troppo zelanti nel professare il loro credo e molti odi personali: costoro lo hanno portato alla rovina. Era nota a tutti la sua inimicizia con Jean Maynier, barone d’Oppède, e come egli cercasse in tutti i contesti di esautorare e screditare Bartolomeo. Non sorprende, quindi, come costui abbia preso il posto di presidente del parlamento subito dopo la morte di Chassanée. Ora è potentissimo, e ha sguinzagliato spie e delatori per raccogliere accuse contro la pacifica comunità valdese.

Pochi giorni fa Maynier è arrivato qui a Fontainebleau insieme al cardinale Tournon, consigliere fidato di Sua Maestà, il quale li ha ricevuti per discutere della situazione degli eretici provenzali. Secondo quanto ho appreso, d’Oppède sostiene che nel mezzogiorno della Francia i valdesi stiano armando un grosso esercito pronto a prendere le armi contro il re e i cattolici. Io non so quanto di vero ci sia in questi sospetti, certo è che il cardinale Tournon ha una grossa influenza sul Sovrano, è arguto, un buon oratore e sofista e saprà, ahimè, persuaderlo a muovere guerra contro i valdesi della Francia meridionale.

Se questo è quanto si va preparando, temo anche per voi, miei cari, che siete ai confini dei territori di Cosenza, poiché se verrà dichiarata una crociata e il Papa, che è ormai in lotta aperta con l’eresia alemanna, avvertirà come una minaccia concreta per la cristianità anche i valdesi di Calabria, non dubito che si scatenerà contro di essi una guerra pure nei nostri territori, con gli enormi problemi che seguiranno: saccheggi, eserciti allo sbando, raccolti in fumo e ulteriori danni ai beni, alle sostanze e alla vita delle vostre contrade, così come avvenne nella sventurata guerra del 1528.

So anche, ma ciò credo sia noto anche a voi, che il Pontefice ha intensificato l’attività dei tribunali ecclesiastici, l’Inquisizione in Spagna lavora senza sosta e basa le sue accuse sul semplice sospetto e sulla delazione, non su prove certe. Anche in terra di Napoli sono continuamente inviati nunzi e prelati per studiare e controllare il credo dei fedeli ed estorcere le confessioni. Ora questa santa cosa che è la religione è diventata un fin troppo utile mezzo per distruggere un uomo, accusandolo di simpatie eretiche e con ciò di tramare contro la Chiesa di Roma e il Sovrano. Così è stato per il mio amico Marot, vittima della sua ingenuità, così sarà per tutti gli uomini che entrano in contrasto con chi muove gli ingranaggi del potere e il nostro casato nel Viceregno è esposto a tali pericoli a causa degli odi dei nostri nemici che, come i Sanseverino, vogliono espropriarci dei nostri possedimenti.

Ma qui a corte, se per i francesi, come fu per Marot, in un tale periodo di turbolenze, è facile prestare il fianco alle calunnie dei cortigiani ed essere estromessi dai favori del Re, ancor più dura è la vita degli italiani, che qui sono tanti. Schiere di pittori, scultori, architetti e letterati, fuggiti dall’Italia per far risplendere con il loro genio una corte gloriosa a cui donano lustro. Siamo sempre più visti con sospetto e antipatia, tacciati di tramare e di diffondere consigli fraudolenti. Noi invece continuiamo a fare il nostro dovere di artisti e diplomatici ma siamo sempre meno ascoltati dal sovrano. Rivestiamo un ruolo sempre più marginale nelle sale del potere. Per conto mio, posso ritenermi ancora fortunato se la mia fedeltà e la mia eloquenza mi permettono di godere della fiducia del sovrano e in ciò, devo dire, mi aiuta anche la grazia e l’intelligenza di nostro figlio Cornelio, che ho sottratto alle vostre cure, ma credo che per lui sia un guadagno inestimabile poiché qui in Francia può avere l’opportunità di vivere con me presso la corte di Francesco e crescere nel più raffinato luogo d’Europa.

Vorrei smetterla con l’angustiarvi scrivendovi di politica. Preferisco ora parlarvi di cose più leggere e intime. Non potrete non gioire nell’udire i progressi che compie Cornelio a corte. Immaginatelo alto con spalle robuste, occhi bruni e penetranti, dai quali si intravede una sicurezza di sé che mai sconfina nell’arroganza e nella boria. In pubblico è loquace nella giusta misura, a volte taciturno in privato. Se solo poteste vederlo con la giornea color rosso acceso e la berretta, che gli conferiscono un aspetto così vigoroso e marziale. I suoi modi sono eleganti, è in grado di ballare con scioltezza, e più di una volta è stato lodato dal Re in persona. Anche nelle lettere brilla e nella conoscenza del latino non ha da invidiare nulla a nessuno. Fino a cinque anni fa uno dei suoi maestri è stato Guglielmo Budè, fra i più illustri studiosi di lettere antiche, che gli ha insegnato in modo impeccabile, oltre che il latino, anche il greco. Purtroppo è morto e ha lasciato un vuoto enorme nell’amministrazione della cultura a corte.

Spesso Cornelio e io cavalchiamo insieme nei giardini del Re e nelle riserve di caccia. Ha buone doti di cavaliere anche se le arti marziali non lo appassionano come la letteratura o la retorica. Circa un mese fa, durante una battuta di caccia, nostro figlio ha avuto una piccola disavventura che mi ha molto spaventato. È caduto infatti da cavallo. Da come era stato disarcionato ho temuto il peggio ma per fortuna è piombato su un manto di terra soffice e si è subito rialzato, riportando solo qualche graffio, anche se per tre giorni ha accusato alcuni dolori alla schiena che lo hanno costretto a letto, con qualche accesso di febbre. Ora è in piena forma ed è grato a quella disavventura perché gli ha permesso di rimanere a riposo nel suo giaciglio, donandogli il tempo per leggere e studiare. Proprio ieri è tornato a Parigi dove ha scelto di studiare Legge e diventare poi o un giurisperito o un ambasciatore. Per il resto ama corteggiare le donne di corte, come ogni bravo ragazzo, ed è da esse ricambiato. Al matrimonio non pensa, preso com’è dagli studi, dalla vita a corte e dai viaggi. Tuttavia qui ci sono donne con importanti doti che vorrei far conoscere anche ai nostri figli che vivono ora con te, ho in mente di organizzare unioni matrimoniali che potrebbero esserci utili per consolidare e migliorare il nostro prestigio qui in Francia.

Cara Luisa, ripeto che la nostra distanza non capita invano, poiché è voluta da Dio che vuole da noi il meglio. Qui col mio onore ho grosse credenziali e faccio sì che la Francia diventi per voi tutti un porto dove un giorno potrete rifugiarvi.

Moglie carissima, ora rispondetemi voi, e parlatemi dei nostri figli che non vedo oramai da parecchi lustri. Parlatemi dello stato dei nostri possedimenti. Scrivetemi soprattutto della nostra Isabella, che condivide con Cornelio l’amore smisurato per le lettere, che mi onoro di aver loro trasmesso. Ricordate di assecondare le sue passioni. Fatemi sapere come cresce, che donna è diventata. È ormai in un’età in cui dobbiamo decidere in fretta con chi farla sposare, che destino sceglierle. Qui ci sarebbero molti pretendenti ideali per le loro ricchezze e per la loro intelligenza e cultura. La vorrei sottrarre al più presto a quell’ambiente arretrato della remota provincia di Basilicata, alla quale penso con dolore per i fatti tragici che mi hanno costretto ad abbandonare voi e il mio feudo. Dio ha disegnato per noi un destino di distacco e di dolore, ma tutto ciò ha un perché e la Sua grazia scenderà su di noi facendoci un giorno incontrare di nuovo per vivere felici insieme.

Dimenticavo quasi di dirvi che sto preparando per voi dei doni, degli abiti per tutti, dei libri per Isabella, e del denaro che vi tornerà utile in queste annate difficili. Partiranno il prima possibile per nave e spero arrivino a destinazione prima dell’inizio della brutta stagione. Vi amo e vi abbraccio.

In Fontainebleau addì XXIII di settembre 1544

Il vostro amatissimo Giovan Michele

Finito di leggere la lunga lettera, Marcantonio si lasciò sprofondare sulla sedia e guardò con occhi interrogativi la madre, che nella penombra singhiozzava in silenzio, emettendo dei brevi sibili e asciugandosi le lacrime che sgorgavano copiose. Il consorte non si lasciava andare a sentimentalismi quando scriveva, rimaneva sempre diplomatico, aveva solidi principi e compiva tutto con grande compostezza come se stesse parlando a un principe o un sovrano anche nei momenti di intimità. Tuttavia Luisa, solo per il fatto di sapere che il marito e il figlio lontani erano vivi e in salute, piangeva a dirotto e si liberava da quei pensieri ossessivi che la perseguitavano tutti i giorni e in particolare le notti, quando il letto semivuoto le faceva sentire tutta la sua solitudine e la sua incompletezza. Ora, con quel pianto liberatorio, poteva guardare il cielo e ringraziare il Signore per la grazia di sapere che stavano tutti bene.

Marcantonio invece rimase impassibile, come se non avesse prestato attenzione alle parole ma, leggendo senza espressione, avesse soltanto emesso dei suoni monotoni e ripetitivi, privi di senso. Poi osservò con sufficienza: «Oltre l’elemosina che ci elargisce ogni tanto e le solite promesse ormai diventate una litania sterile, sulla speranza di riunirci un giorno, non leggo niente. Che bisogno aveva di scrivere così tanto? Solo per lodarsi della sua carriera, delle sue imprese, di quanto è bravo? Poteva risparmiarsi la pena di riempire queste carte. Tanto mandiamo avanti il feudo anche senza il suo aiuto. Anzi, la sua situazione di esule in Francia non fa che metterci in cattiva luce con il Viceré, che ci considera dei traditori da guardare con diffidenza; solo quando si tratta di esigere i tributi la nostra famiglia esiste agli occhi del Sovrano, per il resto siamo dei pidocchi».

La madre non prestò attenzione a quelle dichiarazioni, i suoi occhi fissi nel vuoto cercavano, invece, di ripercorrere il senso delle parole scritte nella lettera di suo marito, sentirle dentro di sé, farle proprie, assorbirne l’anima nascosta nei simboli della scrittura. Poi si alzò, asciugandosi un’ultima volta gli occhi, e si avviò verso l’uscita, stringendo fra le mani i fogli del consorte, sottratti con impeto a Marcantonio. Appena superata la soglia si voltò verso il figlio e disse: «Non mi sembra che la vostra ottusità possa rendere piacevole una conversazione con una donna come vostra madre, alla quale, vedo, non portate rispetto. Così come non portate rispetto per voi stesso, che avete vissuto, in qualità di primogenito, più a lungo dei vostri fratelli accanto a vostro padre, il quale, quanto a coraggio, forza d’animo, abnegazione, non ha termine di paragone con chicchessia e dal quale, me ne rammarico, non avete ereditato nulla se non questo castello».

«Un castello miserabile e sperduto con un’infinità di debiti, di nemici e in mezzo a terre malsane» Marcantonio interruppe improvvisamente la madre e scattò in piedi, facendo strisciare rumorosamente la sedia sul pavimento. «Ecco cosa ho ereditato da un uomo che ci ha lasciati soli per la carriera e per l’ambizione personale, per le sue scelte sbagliate, per il suo tradimento. Ebbene per un uomo del genere non nutro alcun rispetto, poiché sono stato io a prostrarmi dinanzi alle autorità per riscattare codesto feudo e per farvi vivere, fra mille sacrifici, nell’agiatezza e con onore. E mentre noi siamo qui a scontare un esilio dal mondo, vostro marito scrive di quanto è virtuoso, intelligente e quanta stima nutre per lui il Re di Francia in persona, nemico del nostro Vicerè e del nostro Imperatore.» Vomitò tutto d’un fiato il suo profluvio di parole.

«Come mi sono venute a noia queste vostre parole da figlio ingrato» commentò con voce flebile la madre, con accento di disprezzo. «Vostro padre ha preso su di sé una grossa croce ed è partito per la guerra e da allora non è più tornato, se non per fare le valigie e scappare. Lui con coraggio ha seguito la propria vocazione e il proprio partito, decidendo di appoggiare il re Francesco e, se la fortuna ci ha voltato le spalle, non è colpa sua. È il coraggio di fare scelte senza badare alla vile convenienza che voi, Marcantonio, non avete imparato dal vostro genitore. Io, invece, lo sento vicino, sento che ci sostiene col suo affetto e lo ammiro per quello che ha saputo fare sfidando il Viceré e l’imperatore Carlo.»

«Sì, magari fosse vicino a noi, e invece ora se la spasserà fra le braccia di qualche cortigiana sgualdrina di Parigi, luogo in cui, si sa, le donne sono licenziose e non brillano certo per castità; non è così, cara madre?»

«Mi fate ribrezzo col vostro parlare da villano, e purtroppo noto anche nei vostri fratelli la stessa rudezza e bestialità dei modi e la grettezza morale che vi appartiene. Vi auguro in ogni caso una buona notte. Non ho più niente da dirvi» donna Luisa si voltò, chiuse la porta dietro di sé e scomparve nella penombra del corridoio col frusciare del suo abito.

Marcantonio si diresse alla finestra che si affacciava verso il monte Coppolo e rimase in piedi a soffermarsi sul nulla, sul buio fitto della vallata, che si stendeva sotto il suo sguardo e di quella notte a malapena rischiarata dai timidi bagliori delle stelle. Rimase così per un tempo indefinito, stregato e cullato forse da quella solitudine che lo accompagnava in ogni istante della sua vita in quell’angolo di mondo divenuto ormai la sua prigione. Non per costrizione, nessuno era più libero di un barone, ma per incapacità di cambiare il suo stato. Come le possenti querce di quei monti, la sua anima aveva messo radici profonde e indissolubili, gli sembrava impossibile una vita diversa dalla sua, e ciò gli conferiva un senso di sicurezza ma allo stesso tempo di frustrazione, in quanto incapace di essere diverso da come era.

Sapeva di essere un uomo inetto, un mediocre, rispetto al padre; ma accettava con rassegnazione e con scatti di ira questo paragone. Desiderava che il mondo a cui era a capo andasse in un altro modo, ma era incapace di alzare anche solo un dito per realizzare il suo desiderio. Della sua debolezza incolpava il padre. Forse gli rimproverava la facilità con cui aveva cambiato vita, costruendone una totalmente diversa di cui forse le lettere non parlavano e che era solo possibile immaginare. Era turbato dall’influenza di un uomo così dotato, un vincente nella vita, apprezzato per le sue azioni, capace di risorgere dopo immani tragedie. Il giovane barone di Favale contrastava questa continua ingerenza esterna ergendo muri e fossati e ostinandosi, fino all’ottusità, a prendere decisioni autonome, autoritarie, benché spesso sbagliate, pur di contraddire il padre e la madre e dimostrare che anche lui era in grado di comandare e di essere padrone della sua vita.

La sua stanza era piuttosto spoglia: oltre al mobilio necessario non voleva nessun tipo di orpello, detestava la finzione dell’arte e il suo sforzo di nobilitare la realtà. Solo la religione e le Scritture considerava come elemento nobilitante, ma forse più per abitudine che per intima convinzione.

Questi abiti che porto, perché dovrebbero essere belli e curati? Per ornarmi, per figurare in società, per compiacere e compiacermi di compiacere? si chiese una volta durante una discussione con la madre, che spesso lo biasimava per la sua ruvidezza. La sua impossibilità di vedere oltre le cose, ma solo dietro di esse, tutt’al più analizzarle, smembrarle ma senza interpretarle, lo rendeva poco interessante nelle discussioni e perentorio nei giudizi.

Mentre questi pensieri volteggiavano nella sua mente, sentì bussare alla porta.

«Entrate pure» pronunciò calmo, quasi distratto, come se non si fosse ripreso dalle vertigini di quel fantasticare e scrutare nell’ombra.

La porta si aprì lentamente ed entrò donna Luisa, con indosso una vestaglia, i capelli sciolti e spettinati. «Madre, credevo che per oggi ci fossimo detti tutto, o sbaglio?»

«Marcantonio, perdonatemi se vi importuno di nuovo, ma un pensiero mi impedisce di dormire e volevo discuterne con voi, poiché siete pur sempre voi il padrone di casa.»

«Dite pure, madre.»

«Forse vi sembrerà cosa di poco conto ma la considero invece una questione molto importante, poiché, come vostro padre, reputo l’educazione dei nostri figli un elemento di estremo valore. Tuttavia i vostri fratelli crescono, per loro scelta, ignorando le lettere e hanno imparato solo il minimo necessario per poter amministrare un domani l’economia di famiglia, dimostrando di non fare sforzi per migliorare la loro posizione. La loro ignoranza mi preoccupa. Delle mie due figlie, Porzia non sappiamo ancora a chi destinarla, ed è ancora troppo giovane. Isabella è colei che ha l’intelligenza più viva e talento per l’arte. Vostro padre la ama moltissimo e, insieme a Cornelio, le ha riservato un’educazione molto solida. So che vorreste farla maritare subito, o al massimo mandarla in convento, come spesso dite, ma io vorrei, e vostro padre forse lo vorrebbe più di me, che riprendesse gli studi.»

«Ma a che scopo sforzarci di farla studiare? Non deve essere destinata a far figli e crescerli, come ogni donna seria dovrebbe fare? Che bisogno abbiamo di darle un’educazione migliore di quella che già ha? Gli uomini non sposano le donne per le loro conoscenze letterarie. È la dote che fa scegliere la donna da sposare. Io mi preoccuperei di più di racimolare buone sostanze per sistemarla con qualche famiglia degna del nostro nome. Lasciate che le trovi un uomo con notevoli ricchezze e che si accontenti della modesta dote che siamo in grado di dargli. Purtroppo trovare qualcuno che sposi una del nostro casato, nella nostra condizione non è facile.»

«Io vorrei che lei fosse felice almeno un po’ con i suoi studi, mentre voi le cucite addosso il suo futuro; che fastidio può darvi il fatto che lei possa studiare e applicarsi nelle lettere? È una donna che non ha esigenze particolari. Da quando, più di un anno fa, è morto il pedagogo, lei vive in uno stato di continua angoscia, lo sapete. È dimagrita, è sempre pallida e parla poco. Più volte mi ha chiesto di aiutarla, ma voi avete sempre fatto finta di niente, come se non avesse valore quello che sta a cuore a lei. Se i soldi sono un problema, perché siete ossessionato dalla loro mancanza, possiamo chiamare un precettore che si accontenti di poco. E io ne conosco uno. Ricordate il primo precettore? Il figlio del notaio, che partì per la guerra al seguito di vostro padre e che dopo il suo ritorno si congedò e fece perdere le sue tracce?»

«Sì, ricordo, si chiamava Alessandro, credo. No aspettate, si chiamava Diomede, sì Diomede Brandi. Era un uomo di talento, anche se un po’ schivo. Almeno così mi sembrava. Ero poco più di un bambino quando egli partì, non lo ricordo bene.»

«Sì, è lui» confermò la madre con un lieve sorriso. «Ho appreso che è tornato dalle nostre parti dopo varie peregrinazioni e vicissitudini; so che ora vive a Tursi in ristrettezze economiche e sono certa che non rifiuterà la nostra proposta. Io vorrei richiamarlo qui, è un uomo che ci conosce già, che possiamo aiutare e che, data la sua povertà, si accontenterà di poco. Cosa ne dite? Porterebbe un po’ di novità nelle nostre vite.»

Marcantonio non rispose, rimase assorto nei pensieri; forse il ricordo lontano di quell’uomo gli aveva riportato alla mente momenti di una giovinezza serena e priva di responsabilità. Quindi rivolse gli occhi alla madre con un’espressione leggermente addolcita e disse in tono distratto: «Non so madre, vorrei prima riflettere e poi parlarci di persona, per decidere se è il caso di ospitarlo qui da noi. La vostra proposta è fattibile. Ma…».

«Bene, figlio, sia come dite. Allora lo faccio andare a prendere così avrete modo di valutare la situazione.»

Luisa si sentiva sollevata e non credeva che fosse stato così facile convincere un uomo tanto cocciuto come il suo primogenito. Sapeva che doveva agire subito e non mettere Marcantonio in condizione di meditare. Con quel timido cenno di assenso da parte del figlio, la causa della sua insonnia era stata in parte dissolta. Poté così rientrare subito in camera sua, alleggerita, temendo forse che indugiare nella stanza di Marcantonio avrebbe dato il tempo al figlio di ripensarci.

31 agosto 2018

Aggiornamento

Scopri a questo link i vincitori del Premio Letterario Nazionale Carlo Levi 2018. Menzione speciale a: Antonio Casoria con il libro "I Prigionieri del Siri” (bookabook)!  
27 agosto 2018

Premio letterario Carlo Levi

La testata basilicatanet ha annunciato i vincitori del Premio letterario Carlo Levi, giunto quest'anno alla sua XXI edizione. Tra i titoli citati anche I prigionieri del Siri di Antonio Casoria, che si è aggiudicato una menzione speciale da parte della giuria.  
13 Ottobre 2017
"un italiano infiorettato, perfettamente consono al periodo storico che viene descritto. L'immersione nel libro e nella storia è così immediata..." Ecco la bella recensione a I prigionieri del Siri di Antonio Casoria su librierecensioni.com! https://bit.ly/2z514sn

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Antonio Casoria
Antonio Casoria, classe 1979, è laureato in Filosofia all’università di Pisa.
Appassionato di storia e di letteratura russa, è autore di articoli filosofici
pubblicati in sillogi specializzate. Si occupa in particolare di storia del Rinascimento meridionale e di teoria del romanzo storico e sociale.
I prigionieri del Siri è la sua prima opera narrativa.
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