È andata proprio così. Voglio dire, è proprio il caso di questa
storia che sto per raccontare, per quanto – credetemi – per un
libro sia davvero difficile usare parole diverse da quelle che
contiene. Ma un libro che si rispetti, proprio in quanto invenzione
dell’uomo, coltiva in sé anche il germe della pazzia, ed è
questo che ci permette di parlare come se avessimo la bocca,
di guardare come se avessimo gli occhi e soprattutto di sentire
come se tra le nostre pagine battesse un cuore.
Vi dirò di più, un libro sente anche gli odori. Gli odori,
signori miei! E non sono gli odori come li sentono coloro che
hanno un naso per sentirli: per un libro gli odori sono una
cosa viscerale, un vortice di sensazioni che riempie tutto il
suo essere. Un libro sente l’odore delle mani che lo afferrano,
dei polpastrelli che lo tastano, di tutto quello strofina-sfo-
glia-piega-liscia-accarezza che lo travolge e gli fa perdere il
suo rigore di libro. Allo stesso modo sente l’odore della pelle
che sprigiona odio, delle mani sudate che strapazzano con
rabbia le sue pagine. Poi l’odore della cenere e, prima ancora
di questo, il terribile odore della carta quando incomincia a
bruciare.
Ma l’odore delle mani amiche è l’odore che più ci emoziona.
Per noi libri le mani dei lettori sono amore e ossessione. Sono
ciò che fa di ciascuno di noi un individuo, che ti fa uscire dalla
schiera delle centinaia di libri identici a te e ti fa dire: io sono
il libro che appartiene a quelle mani. E di una coppia di mani,
di quella particolare coppia di mani, un libro si può anche innamorare,
può perdere la testa che non ha. Finché non accade
l’irreparabile. «Scommetto che è quello che è capitato a te»
direte voi. Non c’è bisogno di scommettere, avete vinto.
Mi presento. Sono un libretto di centoquarantacinque pagine,
in brossura, copertina beige, al tatto vellutata come una
cute e attraversata da una trama di sottilissime scanalature
orizzontali che sembrano impronte digitali della carta. Per
un tempo indefinitamente breve, ma intenso, ho abitato sul
ripiano di una libreria in noce insieme ad altri miei simili.
Qui mi riponevano tutte le sere dopo avermi letto. Il tragitto
libreria-mani del lettore e ritorno comportava ogni volta una
leggera abrasione del pigmento beige dei miei profili. Ci ero
abituato, in un certo senso. Non riuscivo però ad abituarmi
all’idea che potessi finire in mani sconosciute. Ogni volta che
un’ombra si avvicinava furtiva, ero colto da un vero e proprio
attacco di panico. Chi era? Avrebbe scelto me? A chi appartenevano
le mani che mi avrebbero aperto, sfogliato, magari
spiegazzato? Finalmente riconoscevo le due mani amiche. Mi
toccavano, mi sfilavano dalla schiera di libri, mi sollevavano.
Sentivo il loro odore. Era un odore piacevole. I movimenti
delle dita sprigionavano un profumo di mela verde. I polpastrelli
accarezzavano le mie pagine, sfioravano la carta, scorrevano
docilmente indicando le lettere stampate, cercavano
qualche parola nascosta, perché gli occhi leggono, ma le mani
sentono. Sono le mani a stringere la vera amicizia con il libro.
E quelle che mi maneggiavano erano mani gentili, che sapevano
con quanta delicatezza vanno trattate le parole. Erano
mani di donna. Le avrei riconosciute tra mille, perché erano
state le prime ad aprire i risvolti della mia copertina e a
farmi sentire il brivido di una carezza. Erano mani che si erano
innamorate di me, e io di loro. Se avessi avuto una bocca, le
avrei baciate di continuo, avrei assaporato il loro odore
attraverso le mie labbra di carta, la mia pelle di libro sarebbe stata
un tutt’uno con la loro pelle, le sottilissime scanalature della
mia copertina si sarebbero fuse con le loro impronte digitali.
Non avrei mai voluto lasciarle. Ma questo è il punto.
Il destino di un libro è di passare di mano in mano. La mano del
tipografo, dell’editore, del rappresentante, del libraio,
del lettore. Quando poi non siamo addirittura frutto di un regalo.
Allora tra libraio e lettore si inserisce il donatore. Altre mani
che ci toccano. Come nel caso di Hans. Era stato lui ad acquistarmi
sulla Gendarmenmarkt, nella vecchia libreria all’angolo con la
Unter den Linden. Dalle sue mani di amante di libri
ero passato alle mani che profumano di mela verde.
«Chiudi gli occhi, è una sorpresa» aveva detto. Hans fumava
sigarette arrotolate a mano. Fece un tiro corposo e aggiunse:
«Il libraio l’aveva nascosto in una cassa nel retrobottega».
La donna dalle mani di mela verde riaprì gli occhi: «Non ci
posso credere, proprio l’edizione Fischer di tre anni fa! Quando si dice la fortuna…».
«La fortuna è tutta del libro: sarà accarezzato dalle tue mani.»
«Oh, Hans» disse sorridendo la donna.
Hans aveva ragione. Il contatto con quelle mani mi aveva
reso non posso dire felice – perché per noi libri sentimenti
di questo tipo non hanno nessun significato –, semplicemente
mi aveva reso un libro che aveva raggiunto il suo scopo di
libro. Per questo la sola idea di vivere la mia vita di libro
lontano da quelle mani che sapevano di mela verde faceva di me
un ammasso di cellulosa inservibile. Non avrei avvertito più
nulla. Non avrei visto più nulla. Né gli odori, né le luci, né l’an-
dirivieni degli occhi sulle mie righe di parole, né la pressione
leggera delle dita, né il vibrare del cuore di carta che pulsa tra
le mie pagine. Eppure sarebbe accaduto. Ma prima ancora, inquietanti
segnali mi avrebbero preavvisato della catastrofe e
avrebbero cominciato a insinuare tra le mie pagine un nuovo
sentimento: la paura.
Tutto iniziò un pomeriggio qualsiasi. All’improvviso apparvero le
mani amiche, preannunciate dal profumo di mela verde. Fu un attimo.
Mi afferrarono, mi estrassero dallo scaffale
e via di corsa sino alla camera da letto – là, ficcato sotto
il cuscino. Il buio era assoluto, il silenzio ovattato.
Lì sotto attesi. Il mio cuore di carta era pieno di strani presentimenti.
Non riuscivo a capacitarmi di quel comportamento. La sera,
del resto, non portò nessun chiarimento. Quando le mani di
mela verde mi raggiunsero sotto il cuscino le sentii fredde,
nervose, non avevano nessuna intenzione di tirarmi fuori di
lì. Qualcosa, forse il peso di una testa, schiacciò il cuscino, e
io rimasi lì sotto per un tempo interminabile, senza rivedere
la luce. Eppure le mani, quelle mani, mi accarezzarono prima
di dormire, come se volessero constatare più e più volte che
io fossi ancora lì, che continuassi a restare nascosto. Era
dunque per questo che mi trovavo sotto quel cuscino: per essere
nascosto. Ma da che cosa? Da chi?
Fu proprio lei a darmi la risposta, il giorno dopo, sollevando
un lembo del cuscino e passando una mano da brivido sulle
scanalature della mia copertina: «Richard non ti avrà. Può
andarsene al diavolo, lui e la sua Hitlerjugend».
La porta si aprì di colpo e la mano ebbe uno scatto. Era
Hans, qualcuno l’aveva introdotto in casa e lui era entrato
nella stanza, portandosi appresso il suo odore di sigarette
arrotolate a mano.
«Scusami,» aveva detto Hans «ti ho spaventata?»
«Oh no, no,» era stata la risposta della donna «temevo per
il libro, è sotto il cuscino.»
«L’hai nascosto lì? Non è prudente, riportalo dov’era. Da
quando Thomas Mann ha lasciato la Germania, i suoi libri
sono diventati l’incarnazione del male.»
«Il male? Non farmi ridere!» aveva risposto lei.
«C’è poco da scherzare. Richard l’ha visto, non vorrei che lo
raccontasse in giro. Finché lo trovano in mezzo agli altri libri,
non può succedere nulla. Ma nascosto sotto il cuscino…»
«Non lo troveranno.»
«Rimettilo al suo posto, ti prego, fallo per me.»
Le mani, le dolci mani dal profumo di mela, mi estrassero
da sotto il cuscino, mi aprirono a caso e le parole d’inchiostro
che contenevo si trasformarono in suono, e il suono in musica:
«In quell’istante accadde che Tadzio sorridesse: sorridesse
a lui, eloquentemente, confidenzialmente, carezzevolmente e
schiettamente, con le labbra che, nel sorriso, si schiusero solo
a poco a poco. Era il sorriso di Narciso che si piega sull’acqua
specchiante, quel sorriso profondo, incantato, prolungato, con
il quale egli tende le braccia al riflesso della propria bellezza
– un sorriso appena appena incrinato, incrinato dalla vanità
del tentativo di baciare le soavi labbra della propria ombra,
civettuolo, curioso e lievemente crucciato, sedotto e seducente.
Oh Hans, non possiamo lasciare al loro destino parole come
queste!».
«Tu sei pazza» disse Hans, e corse a baciarle il profumo di
mela delle mani.
Marco (proprietario verificato)
Lettura di Pasqua. Romano Augusto Fiocchi sa scrivere, non c’è dubbio. E sa narrare. Cinque storie raccontate anzi da cinque narratori diversi e inusuali. Con dolente leggerezza mirano alle ingiustizie e ai paradossi del mondo, reagendo all’assurdo con l’assurdo. E fanno centro. Stile e misura. OpernPlatz (già premiato come inedito) il mio racconto preferito: struggente, tattile e olfattivo…
Elena (proprietario verificato)
Ho il privilegio di conoscere Romano da anni; la sua passione per la scrittura, supportata da solide basi culturali, lo accende di un entusiasmo sincero e contagioso. È forse proprio nei racconti che trova la forma a lui più congeniale: la sua prosa spesso trae origine da episodi di un passato più o meno recente, che scatenano la sua fantasia in testi sorprendenti, mai scontati o banali. E da lì scatta la riflessione nel lettore e l’opportunità di fuga dalla routine quotidiana, che ci macina inesorabilmente e tarpa le ali alla nostra immaginazione. “Nella vita l’importante non è volare ma sognare di farlo”.