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Romanzo còrso

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In Corsica non è facile dire le cose come stanno, parlare chiaro, essere diretti. Per don Vincent Dominici, parroco del paesino (immaginario) di Calvinicchioli, è diventato un bisogno quasi fisico, per tutti gli altri un brutto vizio, se non una mancanza totale di educazione. Ma è proprio lui, con l’aiuto di tre vecchie comari indomite e dalla lingua tagliente, a dover dipanare un mistero fatto di bugie, mezze verità e oscuri segreti in un’isola divisa tra voglia di modernità e desiderio di “essere lasciata in pace”. Perché se morire è un male necessario, non sempre si trapassa come si deve, come scoprono presto alcuni calvinicchiolesi illustri. Don Dominici e le sue parrocchiane, mettendo a nudo scomode verità fatte di malversazioni e abusi, entrano in rotta di collisione con un sistema corrotto che cercherà in ogni modo di spazzarli via. Ma, ad aiutarli, troveranno risorse inaspettate, quando non addirittura sovrannaturali.

Prologo

Se ne stava andando. Era tutto finito. In una situazione del genere, avrebbe dovuto vedere una luce bianca o, che so, pensare a una frase saggia che racchiudesse il senso della vita. Invece pensava a quel bastardo di suo fratello. Dov’era? Cosa stava facendo? Niente, non le veniva in mente altro. Che spreco. I suoi ultimi istanti, praticamente buttati. Avrebbe fatto meglio a pregare. Si concentrò sull’Ave Maria e mentre si rendeva conto che finiva con “adesso e nell’ora della nostra morte”, il suo cuore smise di battere.

I

Ancora uno sforzo e sarebbe arrivato a cento. Le flessioni, verso la fine, erano una tortura alla quale si aggiungevano i venti minuti di nuoto nella piscina del Grand Hotel (omaggio dei proprietari, perché lui di certo non poteva permetterselo): per quella mattina poteva bastare. Sudato, si massaggiò gli addominali doloranti e si buttò sotto la doccia. Gli piaceva mantenersi in forma e, a quarant’anni suonati, era piuttosto fiero di non avere messo su né pancia né altri rotolini. Era, e voleva sentirsi, scattante. Ce ne voleva di energia per gestire l’immenso territorio di sua pertinenza, senza buttarsi sul cibo. O sul vino. Dipendevano da lui e dalla sua forma psicofisica una miriade di paesi e paesini persi sulle  colline o arroccati in montagna. Più la costa, piena di gente in estate e deserta d’inverno. Anche se, a dirla tutta, quelli del mare erano i più aperti: con loro era facile trovare un punto d’intesa. Con gli altri non si poteva mai sapere, potevi piacergli o, al contrario, dispiacergli per delle bazzecole, considerate fondamentali per il comportamento al tuo riguardo. In ogni caso, avere a che fare con i montanari era soprattutto stancante, viste le distanze da coprire. Guardò l’orologio: le otto. Aveva appena il tempo per un tè.

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Fuori il tempo si annunciava stupendo: sarebbe stata una tersa giornata di settembre, con il cielo di un azzurro impossibile stagliato contro il verde rigoglioso della macchia sulle colline dell’entroterra. L’aria era frizzante e appena profumata, ma presto sarebbe stata tiepida e dolce. Davanti a lui, si stendeva pigro il golfo in tutta la sua ampiezza. Sulla destra, quasi verso fine, la città con i suoi brufoli di cemento, il porto, i mega-traghetti. Poi il tutto si diradava in un paesino, il suo, incastrato in una propaggine rocciosa, che preannunciava sulla sinistra a un’infilata abbacinante di spiagge sabbiose e ingorghi di vacanzieri. Lì le case, potendo, si nascondevano nella macchia, o cercavano comunque di non farsi notare. Via via che ci si spostava a sinistra, infatti, saliva il prezzo al metro quadro e, di conseguenza, la dichiarazione dei redditi dei residenti. Il culmine era la punta estrema del Golfo: poche ville nascoste nella pineta che dominava una delle più belle spiagge della regione; la sabbia finissima pareva d’argento e l’acqua cristallina digradava in una baia quasi caraibica. Inutile dire che in agosto era persino difficile vedere la sabbia, tanta gente la affollava. A metà strada tra il paradiso di chi poteva e l’inferno cittadino di chi doveva, c’era  lui. Il paese non era niente di speciale, aveva però il vantaggio di essere sul mare senza essere un luogo di villeggiatura vero e proprio, perché lì di sabbia ce n’era poca. Erano soprattutto calette tra gli scogli, interessanti per via delle gallerie che ancora le collegavano alle case, ricordo di tempi più duri quando pirati, saraceni e nazifascisti vari, scendevano a terra con le peggiori intenzioni. Si narrava che, ai tempi della Resistenza (che guarda caso, avevano fatto tutti-tutti, tanto da chiedersi se mai fosse esistito un collaborazionista sul suolo dell’isola), alcune di quelle gallerie servissero da nascondiglio per i partigiani, oltre che per i fuggiaschi di ogni epoca, genere che lì non era mai venuto a mancare, tra faide, vendette e via uccidendo.

Settembre era il momento dell’anno che preferiva, quando tutto si acquietava dopo le spanciate estive di mondanità, rumore e creme solari. Per non parlare del consueto picco agostano di battesimi e matrimoni, che lo lasciava boccheggiante e sull’orlo della crisi di vocazione, tra riti sacri, ma soprattutto interminabili pranzi profani. E dove bisognava farsi vedere almeno per il brindisi, dopo il quale era quasi sempre obbligato a sedersi a mangiare “una cosina”, tipo convivio pantagruelico, dove la zia anziana e sorda finiva sempre per dire la cosa sbagliata ad alta voce pensando di sussurrarla (“Quando si hanno le tette cadenti, si investe in un reggiseno di marca, cocchina, o ci si copre di più”), mentre i cugini, ubriachi persi, si menavano per una storia di terreni venduti sottobanco. Presto anche lui si sarebbe preso qualche giorno di vacanza, lontano dal clamore, dai solfiti del vino bianco e dallo zucchero dei bignè, obbligatori perché “portano buono”, ma che lui non amava.

Non aveva ancora fatto programmi precisi. Arrivato a quel momento dell’anno, aveva fretta di varcare la frontiera d’acqua che lo separava dal resto del mondo, da una vita culturale degna di questo nome, con librerie, teatri, musei, concerti e altre persone come lui. Prima di organizzare il suo viaggio, però, aveva un’ultima cosa da fare e, da quando la sera precedente l’avevano chiamato per dargli la notizia, non poteva scacciare la sensazione che in tutta la situazione ci fosse qualcosa di sbagliato. Qualcosa di profondamente fuori posto. Non sapeva spiegarsi se era stato il tono della telefonata o se piuttosto era stato il suo contenuto a inquietarlo, ma finché non fosse andato di persona a vedere come stavano le cose, si sarebbe sentito come in sospeso.

Mentre si infilava una polo pulita e un paio di pantaloni, mise su l’acqua per il tè. Non doveva bollire, altrimenti il suo Oolong sarebbe stato uno schifo; con gesti sicuri scaldò la teiera, preparò il filtro e tirò fuori la sua tazza di porcellana bianca e blu. Sorrise tra sé: quando si vive soli, si dice, ci si innamora dei rituali e si tende a ripetere gli stessi gesti, e lui non faceva eccezione. L’importante era restarne consapevoli e non fare storie se un giorno avesse dovuto bere un caffè americano in qualche orrido mug. “Quante balle ti racconti, vecchio mio”, si prese in giro mentalmente, “la verità è che sei ormai un vieux garçon con le sue piccole abitudini, i suoi vizi. E guai a toccarti il tuo tè, la tua porcellana e la nuotata a sbafo”. Sorseggiò il liquido ambrato e caldo e si godette il momento di sublime piacere che gli dava. Sì, la vita poteva essere bella, a volte. Poi, come se avesse girato un interruttore, prese le sue cose, indossò il crocifisso di legno di ulivo e uscì. Era teso e concentrato, ora.

Dall’altra parte del golfo, intanto, Marianne non si dava pace. Guardava il sole dalla finestra del suo appartamento borghese, salire sempre più su. La luce si rifletteva sulle vetrate delle case vicine, abbagliandola e azzerando l’arredo in stile tutto damaschi e sedie di casa sua. “Perché non aveva scelto qualcosa di più sobrio?”, si chiese. Ma, guardando il suo riflesso nel vetro e vedendo ondeggiare gli elaborati orecchini d’oro ai suoi lobi, sapeva bene la risposta: quella casa era come lei, sopra le righe, inutile cercare un po’ di rigore, ora. Quella era roba di Laetitia: parca di orpelli, tutta sostanza, tutta vera. E ora irrimediabilmente morta. La loro amicizia si era sempre basata sulla compensazione degli opposti: un’alchimia potente, ma anche delicata e non sempre priva di controindicazioni. Come quella volta che si erano messe eleganti per una cena con i mariti. Lei, sexy e mezza nuda, su tacchi assassini; Laetitia tipo Audrey Hepburn, in tubino nero. E indovina un po’ chi guardavano tutti? Sbagliato, guardavano quella castigata, i cretini. Comunque, erano legatissime. Si raccontavano tutto. O meglio, lei poteva confidarsi a cuore aperto, sicura che mai e poi mai l’amica l’avrebbe tradita o, peggio, avrebbe tentato di portarle via la preda. Peccato che i loro figli non fossero coetanei, sarebbero diventati anche loro inseparabili e, chissà, magari un giorno si sarebbero sposati, e il cerchio si sarebbe chiuso. Invece no. Anche perché la primogenita di Laetitia guardava il suo Marius solo se lui le pestava il piede. Non che potesse fargliene una colpa, lei era maggiorenne, mentre Marius aveva dieci anni e non sapeva nemmeno a cosa servissero, le ragazze. Comunque. Stette per un po’ ad assistere all’evoluzione dei raggi, come se volesse mettere alla prova la resistenza dei suoi occhi. In realtà non riusciva a muoversi. Avrebbe dovuto attaccarsi al telefono per dare la notizia alle altre amiche, quelle che ieri sera, nella concitazione, aveva dimenticato di avvertire. Ma non riusciva a scuotersi dal suo stato catatonico, lo shock era troppo, e anche la rabbia. Tornava con la memoria alle ultime settimane, quando era stato chiaro che questa volta Laetitia non ce l’avrebbe fatta. La sua famiglia aveva stretto attorno a lei un cordone protettivo. E impenetrabile. Impossibile telefonarle: o trovava la segreteria telefonica, o le rispondeva la figlia. Andare a trovarla, poi, era fuori discussione: l’avevano fatta ricoverare in una clinica privata e filtravano le visite. Solo i parenti stretti potevano infilare calzari e mascherina e penetrare nella stanza dove lei lottava per respirare. Gli altri, tra cui purtroppo c’era anche lei, non potevano nemmeno superare il cerbero della hall: un’infermiera più larga che alta con la faccia da bulldog, che abbaiava: “Niente visite per madame Bonifaci, mi spiace”. Ma si vedeva che non le dispiaceva affatto, ci godeva a fare il guardiano, la bulldogga.

Basta, doveva reagire! Ora che era ufficiale, almeno al suo funerale ci sarebbero state tutte le sue amiche, ed erano tante. Glielo doveva. Si riscosse, voltò le spalle alla finestra, agguantò l’agenda e, caricata dal desiderio di riparare un torto e da quello di dare una lezione di stile alla famiglia della scomparsa, cominciò a comporre il primo numero di telefono.

La Casa Funeraria Santa Croce e figli vantava quarant’anni di esperienza, uno sterminato assortimento di bare – “Dalla cassa di pino al monumento in marmo” era scritto nello spazio pubblicitario sul quotidiano locale – e personale robusto, avvezzo alla fatica. Perché, avendo praticamente il monopolio delle onoranze funebri della regione, c’era sempre molto lavoro, giorno e notte, festivi compresi: vecchietti centenari, vedove incartapecorite, incidenti d’auto, malattie, male di vivere… tutto portava acqua al mulino della Casa. O meglio: cadaveri nelle casse. E soldi, tanti soldi nelle altre casse, quelle del padrone, un cinquantenne calvo come un ginocchio, dall’aria mesta e la stretta di mano moscia.

Croque-Morts, il beccamorto, come lo chiamavano i compaesani, viveva un periodo d’oro: tra onoranze vere e proprie, corone, fiori, incisioni commemorative e altre bazzecole, il suo giro d’affari era cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni e ora poteva concedersi di tirare un po’ il fiato e godersi la vita a bordo del Lili Léopard, il suo inconfondibile yacht maculato, che teneva all’ancora a tre porti di distanza “per discrezione”. Si mormorava che su di esso lo champagne scorresse copioso e le belle ragazze (del Continente!) non mancassero mai. Ma forse era solo invidia.

Diede uno sguardo furtivo ma soddisfatto alle stanze dove erano allestite diverse camere ardenti. Che genio, era stato: nessuno voleva più tenersi il morto in casa e lui aveva avuto l’idea della “casa funeraria”, dove il defunto era preso in consegna da un’équipe di tanatoesteti che lo lavava, vestiva, pettinava e, a richiesta, truccava; il corpo era poi deposto in una bara (Personalmente consiglio il palissandro, è elegante e durevole) e infine composto adeguatamente per l’omaggio di amici e parenti. I familiari se ne stavano lì, vestiti di nero, ad accogliere le condoglianze e poi se ne tornavano a casa. Si risparmiavano così gli effluvi inevitabili della morte e mettevano una distanza tra loro e il cadavere, così alieno, così rapidamente diverso dalla persona che era stata solo qualche ora prima. Così inquietante, per dirla tutta. E lui, Honoré Paoli, ci diventava milionario.

Il suo sguardo cadde sulla targhetta fuori dalla stanza principale: Madame Laetitia Bonifaci. Gli sfuggì un sospiro. La conosceva. Una donna adorabile e ancora giovane. Aveva sposato un pezzo grosso e, anziché darsi delle arie come avrebbe fatto chiunque altro, aveva continuato a lavorare e andava in giro a piedi. Lasciava un marito che la venerava e, se non si sbagliava, pure due figli adolescenti. “Gli affari sono affari”, si disse, “ma Madame Bonifaci, qui, non ce la volevo vedere. Era una a posto, lei. Peccato. Manderò una corona. E voglio controllare che abbiano scelto una bara di pregio, pensò mentre si avvicinava per fare anche lui le condoglianze”.

Laetitia, dal canto suo, era piuttosto sorpresa di continuare a sentire e vedere, nonostante le fosse ben chiaro di essere, come diceva sua zia Blandine, “trapassata”. Vedeva il suo corpo inerte, le mani giunte sul rosario, gli occhi chiusi e osservava il viavài di gente giunta lì per darle un’ultima occhiata prima della chiusura della cassa. Beh, non era proprio così. A essere sincera erano tutti a pezzi. Non se lo aspettava, visto che nessuno era più andato a trovarla negli ultimi mesi, mesi trascorsi in una stanza d’ospedale, tra mille sofferenze e neanche un’amica che le telefonasse.

Sparite tutte. È sempre così, si era detta: quando hai il cancro, tutti ti evitano come se potessi contagiarli con il tuo dolore e la tua malattia. Dicono che “non vogliono disturbare”, quando in realtà sono in imbarazzo, forse perché loro stanno bene e tu invece hai la sentenza di morte scritta in faccia. Che fatica erano state le sue ultime settimane… Adesso poteva riposare e, se non altro, era vero che aveva “smesso di soffrire”. Eppure, a esclusione di un momento troppo breve, quando era venuto il prete, non era tranquilla e serena: guardava, suo malgrado, quel che restava di lei nella bara lucida -“Palissandro? Mogano? Mah”- e non si riconosceva. Chi era quella tizia rattrappita, con i capelli tirati indietro tipo gigolò da operetta e una camicia blu con il fiocco che, era certa, non proveniva dal suo armadio, ma da quello di zia Blandine? Perché non le avevano messo la sua adorata maglietta a righe marinare o, per essere più eleganti, il suo tubino azzurro? E che significato avevano quelle pantofole? “Sembro una vecchia megera… Ma perché? Jean-Marie e i ragazzi devono essere impazziti per conciarmi in questo modo”.

Quanto a loro, marito, figlia maggiore e figlio minore se ne stavano lì, gonfi di dolore e di pianto, quasi incapaci di parlare, circondati e forse protetti da un nùgolo di zii, cugini e parenti di ogni ordine e grado che giocavano a “guarda come sembro il ritratto del Dolore”.

Impossibile comunicare con loro… peccato. Laetitia avrebbe voluto consolare, abbracciare, sostenere. Era quello che aveva sempre fatto e sapeva farlo bene. Invece assisteva impotente alla sofferenza dei suoi, incapace di comprendere il senso del suo aspetto così lontano dall’immagine che aveva di se stessa, stupita di vedere tanta gente. “Perché solo ora? Adesso non possiamo più parlare, non posso salutarvi e avrei davvero voluto vedervi, prima. Dove eravate? Perché mi piangete, se non siete venuti quando avevo bisogno di voi?

26 Maggio 2017
Laurence Donnini è stata intervistata da Lavinia Capritti sulle pagine di Chi! Ecco il link all'intervista per chi se la fosse persa: https://blog.oggi.it/lavinia-capritti/2016/08/04/romanzo-corso-di-donnini-laurence-no-non-e-un-drammone-ma-un-giallo-con-tre-vecchiette-e-un-don/

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Ciao Laurence, che bella novità! Non vediamo l’ora di leggere il libro! Quant ricordi….la Corsica!

    Complimenti in anticipo e a presto.
    Max e Alida

  2. Ciao Laurence, tu, e il tuo premuroso marito, mi avete colto di sorpresa, non sapevo di questo grande progetto. Un romanzo sulla amata Corsica…scritto da te…e come non si fa a supportarti.
    I migliori auguri e bonne chance!
    1abbraccio
    Ste

  3. Ciao, complimenti per il tuo romanzo!

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Laurence Donnini
Francese in Italia e italiana in Francia, vivo a Milano con un marito e una figlia. Scrivo storie da quando ero bambina, alla faccia di una maestra priva d’immaginazione e senso dell’umorismo. Oggi mi guadagno il pane facendo la giornalista, così mi tengo in esercizio.
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