Era una sera d’inverno, gennaio inoltrato, soffiava una bora tagliente, e mi strinsi al cappotto di plastica comprato dai cinesi per 25 euro l’anno prima. Potevo sentire gli spifferi d’aria penetrarmi dai tagli delle suole delle mie Converse basse ad ogni passo, chissà perché mi si rompevano sempre ai lati. Dentro di me sperai solo di non ammalarmi, non potevo permettermi di perdere giorni di lavoro. Mi alzai la sciarpa oltre il mento e mi lacrimarono gli occhi per il freddo.
Arrivai alla fermata, con me una signorina avvolta nel suo Woolrich da 500 euro che picchiettava freneticamente le dita dalle unghie smaltate sullo schermo di un cellulare dalla cover blu puffo. Vidi le sue labbra stirarsi in un sorriso. Doveva avere la mia età pensai. Sui 25 anni. Si girò a guardarmi sentendosi osservata ed io distolsi lo sguardo, puntandolo sulle punte delle mie dita che fuoriuscivano dai guanti tagliati. Girai la mano e notai che sul palmo si stava sfilacciando il tessuto creando un piccolo buco. Avrei dovuto buttarli, ricordo che me li aveva regalati mia nonna per un natale quando andavo alle medie. Dio quanto avevo desiderato i guanti neri con le dita tagliate, come quelli di Lara Croft. Volevo essere come lei, ricordo che era la mia eroina. Il mio modello. Forte, indipendente, bella. Adoravo giocare al gioco di Tom Raider. Da grande sarei voluta essere come lei. Forse nella casa dei miei genitori c’era ancora il gioco buttato in qualche cassetto della cantina. Immaginai la voce di mia sorella: “ Brava Selin e ora che hai i guanti con le dita tagliate per fare la figa, con questa bora ti sono utili per il freddo? “ . Misi le mani in tasca guardando in fondo alla strada, il vapore del mio respiro si condensava nell’aria, le macchine arrancavano lente sulla strada per fermarsi al semaforo. Poi il rombo di un motore più grosso annunciò l’arrivo dell’autobus. Frugai nella tasca alla ricerca del biglietto e lo strinsi tra le dita. Feci per salire il primo gradino dopo aver fatto passare prima la signorina del Woolrich, quando notai un movimento alla mia destra e mi ritrovai per terra. Ci misi un attimo a realizzare che mi stava tirando via la borsa, un attimo di troppo. Cazzo!
Mi diede uno strattone talmente forte che non riuscii a trattenerla e lo vidi filare via con la sua bicicletta nonostante i mie urli e imprechi. Porca troia! Ero ancora per terra, l’autista era sceso e mi stava parlando. Cosa stava dicendo?
“ Signorina sta bene? Signorina?! “
Lo guardai, aveva gli occhi sgranati, era piegato verso di me, mi aveva afferrato un braccio cercando di aiutarmi ad alzarmi.
“ Si si, grazie. Mi ha rubato la borsa, cazzo! “ ero in piedi e mi girai ancora indietro.
“ Sta tremando, è sicura di stare bene? Ha il cellulare? Vuole chiamare qualcuno? “
Mi costrinsi a guardarlo, avevo la tachicardia. Il cellulare era nella borsa. Andato.
“ No, non devo chiamare nessuno. Voglio solo andare a casa grazie.” Infilai le mani nelle tasche alla ricerca del biglietto, non lo trovai. Poi lo vidi sul marciapiede e lo raccolsi porgendoglielo.
“ Almeno questo ce l’ho ancora”. dissi mentre lui lo obliterava.
“ L’avrei fatta salire lo stesso, si figuri. Comunque le conviene fare denuncia, magari lo trovano”
Si come no. “ Certo, grazie. “ risposi con lo sguardo basso e prendendo posto. Qualcuno dei passeggeri chiese come stavo, risposi che stavo bene. Ci furono brusii di voci che parlavano della mancanza di sicurezza, di disgraziati, disperati, tossici. Io mi persi a guardare lo scorrere della città fuori dal doppio vetro dell’abitacolo.
Arrivai a casa, erano le nove di sera e lo vidi buttato sul divano. Clay. L’amore della mia vita, o almeno così credevo. Stavamo insieme da 3 anni.
“ Ciao, tesoro! Sei arrivata più tardi, andato bene il lavoro? “ mi chiese rimanendo seduto.
“ Mi hanno rubato la borsa” gli dissi, buttando la giacca su una sedia e togliendomi le converse.
“ Cosa?! “ si alzò venendo da me. “ Ma come cazzo è successo??! Stai bene?? “ mi strinse al suo petto caldo. Inspirai il suo profumo e mi veniva da piangere.
“ Non lo so” dissi in un soffio. Lo guardai negli occhi blu notte, lui si chinò a baciarmi sulle labbra salate di lacrime.
“ Non piangere, si risolverà tutto “ cercò di rassicurarmi.
“ Domani vado a fare la denuncia, mi accompagni? “
“ Ma che denuncia?! Guarda che non serve a niente! E poi sai che mi rompo ad aspettare, ho altro da fare “ si rimise sul divano.
“ Cosa avresti da fare?! Ti costa tanto accompagnarmi? “ mi stavo scaldando e intanto aprii il frigo alla ricerca di qualcosa da mangiare, ma era vuoto.
“ Ma non sei andato a fare la spesa? “ chiesi e non mi rispose. Chiusi lo sportello con più forza del dovuto.
“ Selin non fare l’isterica eh! Questo non è un ristorante che arrivi e trovi pronto! “ mi urlò dal soggiorno.
Feci un respiro profondo chiudendo gli occhi. Avevo lavorato 10 ore, in un posto di merda, sottopagata, sopportando le mie colleghe acide e frustrate, mi era stata rubata la borsa, arrivavo a casa trovando il frigo vuoto con un ragazzo disoccupato sul divano che mi diceva di non fare l’isterica. Non gli risposi, quella sera non avevo la forza per affrontare anche lui. Scaldai un pentolino con l’acqua e mi preparai una tisana calda che bevvi da sola nella cucina guardando fuori dalla finestra. Non so perché ma ripensai a quella ragazza e mi venne in mente che forse qualcosa avevo sbagliato nella mia vita. Ma quando, dove?
Quando fui sotto le lenzuola e lui mi raggiunse. Ero sveglia. Mi girai dandogli la schiena. Lui mi si fece vicino.
“ Sei arrabbiata?” mi sussurrò all’orecchio e dandomi dei baci sul collo.
“ Sì, sei uno stronzo” dissi cercando di resistere a quei baci che mi stavano facendo venire i brividi. Cercai di respingerlo.
“ Dai non fare così..scusami” disse spingendo il suo bacino contro il mio sedere. Ce lo aveva duro. Mi girai guardandolo negli occhi e iniziammo a baciarci. Non riuscivo a resistergli. Il suo desiderio mi rendeva arrendevole.
Capitolo secondo
Uffici
Seduta su una sedia di plastica aspettavo il mio turno dalla polizia per fare la denuncia, per fortuna iniziavo il turno alle 15.00 del pomeriggio in negozio quindi non avevo dovuto chiedere permesso. Me lo avrebbero fatto pesare sicuramente. Clay non mi aveva accompagnato ovviamente. Finalmente un uomo sulla quarantina mi chiamò per farmi andare nel suo ufficio. Mi fece accomodare e iniziò a farmi le domande. Compilò la denuncia e mi rilasciò la copia da portare in comune per richiedere il rilascio della nuova carta d’identità. Ringraziai ed uscii. Il cielo era grigio e nuvoloso e anche se non c’era più vento, faceva freddo. Guardai quel foglio di denuncia, il mio nome Selin Lian. La mia identità. Chissà come sarebbe stato cambiare identità. Sparire. Ricominciare. Mi sfiorò solo per un momento, un’idea pazzesca, un brivido di follia. Ma a cosa stavo pensando? Non ero contenta della mia vita? Diciamo che c’erano alcune cose da sistemare, ma in fondo non era così male. Avevo un lavoro, seppur non quello che sogni da bambina, un fidanzato con i suoi difetti, chi non li ha? E poi la salute cazzo, non è una cosa da poco. C’è chi muore ogni giorno, chi ha notizie terribili. Loro sì che vorrebbero cambiare identità e poter ricominciare.
Andai in comune e feci l’ennesima ora di attesa. C’erano ancora due persone davanti a me entrambe chinate sui cellulari. Ecco sì, un’altra cosa che dovevo procurarmi. Un cellulare. E dovevo anche rifare il bancomat e passare per la banca. Che incubo. Decisi di prendermi un caffè alle macchinette per tirarmi un po’ su. Stamattina avevo saltato la colazione. Mi alzai e nel mentre uscì anche un uomo sulla trentina che si avvicinò alla macchinetta. Arrivammo in contemporanea e mi lanciò un’occhiata, aveva gli occhi di un bel nocciola e i capelli biondi corti. Aveva un viso piacevole. Mi fece segno di andare per prima. Io pensai al mio viso struccato e dissi un grazie impacciato. Infilai 50 cent nella bocca rettangolare e selezionai caffè macchiato mettendo il massimo dello zucchero. Sentivo il suo sguardo e questo silenzio mi stava opprimendo. Si sentì un bip ad indicare che il caffè era pronto. Lo presi con le mie mani fasciate dai guanti e me ne andai senza alzare lo sguardo. Avrà pensato che ero una maleducata. Cercai il mio posto ma era stato occupato da una signora appena arrivata. Mi appoggiai al muro e sorseggiai il caffè lanciando lo sguardo verso le macchinette. Lui girava il bastoncino nel bicchierino di plastica assorto nei suoi pensieri. Gli guardai la camicia aderente tirare un po’ sul ventre, non era proprio
in forma ma neanche tanto male. Poi i nostri sguardi si incrociarono, una porta si aprì di scatto e uscì una donna formosa ridendo. Lui si girò verso di lei. Io buttai il bicchierino vuoto nel cestino ed entrai nell’ufficio. Era il mio turno.
Foto. Carte. Attese. Foto. Carte. Attese. Arrivai a fine mattina con la nuova carta d’identità e il bancomat.
Mancava solo il cellulare. Andai nel primo negozio sulla strada e comprai il più economico che comunque mi costò quasi 100 euro. Mi sarei dovuta far ridare tutti i numeri. Non che fossero molte le persone a cercarmi. Arrivai a casa e Clay non c’era. Non avremmo pranzato insieme e ovviamente il frigo era ancora vuoto. Però c’era una scatoletta di tonno e dei cracker, mi feci andare bene quelli. Poi mi cambiai al volo per andare al lavoro. Nel mentre sentii la porta aprirsi, Clay era tornato, stava mangiando una pizzetta al taglio. Non era andato a fare la spesa.
“ Ciao tesoro, vai al lavoro? “ mi chiese inghiottendo l’ultimo boccone.
“ Sì. Tra 10 minuti esco “ risposi, e mi trattenni dall’aggiungere: qualcuno deve pur farlo, no? Andare al lavoro.
“ Sistemato coi documenti?” si stappò una birra. Quelle in frigo non mancavano.
“ Sì, sì. Ora scappo però” tagliai corto infilandomi la giacca.
“ Non te ne andrai senza darmi un bacio? “ mi si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia. “ Buon lavoro”
“ Grazie” presi la porta e uscii. Buttai l’amarezza giù per la gola e mi preparai ad affrontare un nuovo turno di lavoro
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