Quella mattina di settembre il sole non voleva saperne di farsi spazio tra le nuvole. Le loro forme animavano il cielo, ogni momento, di una nuova storia da inventare.
Pitroni era in gran fermento per la festa del santo patrono che ogni anno, da secoli, pone fine alle vacanze estive dei ragazzi e ripopola il paese. Io e mio fratello Giovanni, con il carro a buoi, di buonora scendemmo lungo la strada che costeggia i campi e le vigne per andar ad accudire il bestiame. Mio padre Baignu, vecchio e malconcio, ormai segnato dal tempo e da una brutta caduta, impartiva ordini da casa. Conosceva il nostro lavoro a memoria e non si poteva contraddirlo in nessun modo.
Mamma Ica, da quando babbo aveva smesso di venire in campagna e passava molto più tempo a casa e in paese, era più tranquilla e rilassata. Stavano bene insieme. Ormai erano sposati da più di cinquant’anni e, finalmente, iniziavano a compiacersi della loro nuova pace dopo una vita di sacrifici, fatiche e sofferenze.
Il nostro compito di questi tempi si limitava alla mungitura e al controllo delle bestie, poi, il resto della giornata lo potevamo dedicare ai nostri passatempi. Quel giorno Giovanni ed io avevamo fretta di tornare in paese per dare una mano agli amici nei preparativi ed entrambi decidemmo di alzarci prima del solito. Lungo la strada, i rumori consueti, quelli che ci accompagnavano tutti i giorni, sembravano diversi, assopiti, pareva quasi che gli alberi e gli animali che popolano e abbracciano la via sterrata, quel giorno avessero paura di affacciarsi.
Neanche il leggero fiato di vento che ci accompagnava, riusciva a disturbare il loro sonno. Decisi di camminare un po’, scesi dal carro e, con un cenno del capo, invitai Giovanni ad andare avanti senza fermarsi.
Non era la prima volta che succedeva e lui sapeva già che io, passando per i campi, sarei arrivato prima, avrei controllato buona parte della recinzione e avrei iniziato a richiamare le pecore che, senza troppi indugi si sarebbero lasciate convincere a seguirmi. Una volta da solo, attraversando il campo di grano avidamente mangiato, quasi rastrellato dalle pecore, decisi di allungare e passai in mezzo alle sugherete. Mi fermai e respirai profondamente lasciandomi inebriare dagli odori e dai suoni che mi circondavano.
Ogni volta rimanevo stupito e mi piaceva allontanarmi dal mondo e rimaner in silenzio ad ascoltare la natura. Quando arrivai all’ovile seguito dalle pecore, io e mio fratello, iniziammo a far entrare gli animali, lungo una strettoia obbligata, che portava fin dentro la stalla e mio fratello al passaggio di ognuna di loro le contava, in modo automatico, come se stesse sognando.
Ci accorgemmo che mancavano due pecore all’appello, anche dopo averle ricontate con maggiore cura e, senza troppo meditare su questa mancanza, iniziammo il nostro lavoro.
Finita la mungitura, versammo il latte nei barili colandolo con un vecchio passino che tenevamo lì appeso all’albero. Finimmo in pochissimo tempo. Mio fratello, nato tre anni dopo di me, scalpitava, non vedeva l’ora di tornare a casa. Lo vidi ansimante: «Giovvà, mi raccomando non ti mettere a correre con i buoi che si affaticano troppo. Ricordati di farli bere alla fontana di lu casteddhu».
Mi guardò un po’ scocciato: «Issu oh, dugna olta li stessi cosi mi dici?! Gja lu socu cos’aggjiu di va». Sorrisi: «Dì a babbo che rimango un po’ a cercare le pecore, digli di non preoccuparsi perché non so a che ora torno».
Caricammo i bidoni sul carro e mentre si allontanava, lo continuai a seguire con lo sguardo fino al cancello. Io avevo in testa il pensiero delle pecore assenti, mi scocciava andare via senza ritrovarle. Ormai, da quando babbo aveva smesso di occuparsi del bestiame, ero diventato il “padroncino” come scherzosamente mi apostrofava. Quell’anno non era stato per noi molto produttivo. Una strana malattia aveva colpito tanti dei nostri animali, nostra unica fonte di reddito, alcuni erano morti da soli dopo giorni di sofferenza, altri invece apparentemente ancora sani, ci era stato consigliato dal veterinario di abbatterli per evitare il contagio con le bestie sane.
La nostra terra era soprannominata “Tanca Arimuta” per via di una parte di terreno inarrivabile e ostile, dove, a detta degli anziani del paese, nessuno era riuscito mai a giungere e leggenda narra che le poche persone che in passato, sfidando gli amici e la sorte, provarono a duellare con il destino, non abbiano più fatto ritorno alle loro case. Il podere era molto vasto con dei larghissimi campi, dove normalmente pascevano le pecore durante tutto l’arco dell’anno, ma vi erano anche delle enormi piantagioni di sughere che ogni dodici anni facevamo estrarre, da li bucadori.
Iniziai il giro senza che il minimo angolo di terra restasse inviolato. Già sapevo che avrei perso gran parte della mattina, ma il senso di responsabilità era più forte della voglia di far festa.
Andavo fiero delle nostre terre. Mio padre riuscì ad acquistarle dopo una vita di sacrifici e dopo aver fatto da ziraccu presso alcuni grossi possidenti del paese, a volte quasi ledendo la propria dignità pur di non farci mancare niente. Il suo sogno era proprio questo, lasciare in eredità ai propri figli della terra in modo da non essere costretti ad andar a lavorare a la ciurrata dagli altri ricchi padroni, come li chiamava lui.
Continuai a camminare nel bosco e rimasi sempre con l’orecchio teso ad ascoltare qualche eventuale belato che mi riconducesse alle pecore smarrite, ma ancora niente. Il sole intanto era venuto su e, con forza, si era fatto spazio tra le nuvole consegnando alla natura dei nuovi colori e una nuova vitalità, io intanto iniziavo a sudare e ad aver sete.
Mi venne in mente che mio padre tempo addietro, durante i giorni dell’estrazione del sughero, mi portò in fondo alla valle dove c’era una vecchia fontana costruita da chissà chi e da chissà quanti anni. In quel luogo scorreva un’acqua limpida e freschissima che, nel berla, dava un senso profondo di refrigerio e di ristorazione.
Dopo quel giorno non ci andai più, ma il mio senso di orientamento mi aiutò e la ritrovai senza faticare troppo anche se gli arbusti e i rovi l’avevano ormai quasi interamente ricoperta. Dopo essermi dissetato, mi sedetti qualche istante sotto un albero carico di foglie verdi e rigogliose. Le cicale, sopra di esso, non interrompevano un attimo il loro fastidioso suono se non al battito delle mani o ad un rumore improvviso che sembrava spaventarle, ma solo per pochi istanti, perché, dopo pochi attimi di esitazione, all’inizio timidamente, poi con più vigore, riprendevano incessantemente.
Lasciai correre e mi misi a osservare di fronte a me quel posto impervio e inesplorato, frutto di tante leggende narrate in paese, e quasi mi venne voglia di sfatare questo mito, pensai che non fosse possibile non poter arrivare al confine solo perché una favola consigliava di non avvicinarsi a quel posto maledetto. Per un attimo decisi di andare, ero determinato e mi spingeva la possibilità e la voglia di ritrovare le bestie. Osservavo, di fronte a me, il fiume che avrei dovuto oltrepassare, in un attimo tolsi le scarpe e i pantaloni e mi diressi verso l’argine.
A un certo punto mi tornarono alla mente le parole che mi disse babbo il giorno che venimmo insieme per prendere l’acqua e un brivido mi percorse la schiena. Mi fermai con i pantaloni e le scarpe in mano. Non ero più così convinto, l’orgoglio e l’incoscienza mi spingevano verso il fiume, ma la razionalità e prudenza mi tenevano bloccato lì, immobile, senza riuscire a muovermi. Sapevo che se a casa non mi avessero visto tornare entro una certa ora si sarebbero preoccupati e non mi andava di farli stare in pensiero. Con la testa confusa, piena di racconti e parole sentite a casa e in paese, presi la strada del ritorno e continuai a cercar le pecore, ma con scarsi risultati. Saltai il muro di recinzione che separa il nostro terreno dalla strada carraia che, a sua volta arriva alla strada principale, ma il mio pensiero era rimasto sempre lì e mi promisi che in seguito sarei tornato e sarei andato fin laggiù. Volevo scoprire cosa nascondesse quel posto tanto odiato da tutti.
Intanto però le pecore erano scomparse e non era la prima volta che questo succedeva. Ogni volta io e mio padre al ritorno in paese andavamo a denunciarne la scomparsa ai carabinieri, ma le questioni di abigeato raramente si risolvevano nel modo migliore. Alcuni si facevano giustizia da sé dando avviso ai possibili autori del furto, altre volte, di solito, si arrivava ad ammazzare solo per un dubbio di colpevolezza.
Nessuno era disposto a farsi prendere in giro da qualche mascalzone, soprattutto in tempi di magra come quelli che stavamo attraversando. Arrivai a casa tardi, stanco e sudato, affamato al punto tale da venirmi i crampi allo stomaco. L’ora del pranzo era passata da un pezzo e in casa regnava un cupo silenzio. Cercai di far meno rumore possibile, sapevo che mio padre e mia madre Ica, dopo pranzo, si coricavano per riposarsi un po’. Andai in cucina e trovai la tavola lasciata apparecchiata da mamma con la minestra, ormai fredda, nel piatto coperto da un piccolo coperchio in rame. A fianco il formaggio con il pane fresco preparato la mattina. Mangiai in fretta e senza perder tempo andai in cortile, dove il catino era stato messo al sole per scaldare un po’ l’acqua che vi conteneva. Mi lavai e mi misi seduto sulla panca in granito appoggiata all’albero, che dava ombra a una parte di cortile dove eravamo soliti, le sere d’estate, fermarci a chiacchierare con i vicini di casa o con i passanti. In lontananza sentivo le voci che arrivavano dalla piazza. La brezza che attraversava il cortile mi dava un senso di leggerezza e rendeva più fiacche le funzioni corporee, sarei rimasto lì delle ore. Decisi di sdraiarmi sulla panca ad aspettare il risveglio di babbo che da un momento all’altro si sarebbe alzato. Intanto pensavo se fosse il caso oppure no di denunciare la scomparsa delle bestie ai carabinieri, cosa che sapevo inutile. Mio padre da tanti anni ormai, non credeva più nella giustizia terrena, preferiva non aver niente a che fare con i carabinieri che ormai considerava dei vigliacchi al servizio dei ricchi e dei potenti. La sua rabbia nei confronti dell’arma esplose quando suo fratello morì, in circostanze mai chiarite. Alcuni pensarono al suicidio, altri invece ad una vera e propria esecuzione. Fu proprio mio padre a ritrovarlo una sera d’estate. Quella giornata, particolarmente rovente e madida, rimase impressa nella sua memoria. Segregato in casa, si sdraiò in camera con le finestre chiuse a lutto per meglio sopportare la calura. D’improvviso udì bussare alla porta e, subito dopo, sentì il vociare della moglie Ica, che mentre rigovernava la cucina, parlava con la cognata Francisca. Dopo pochi istanti mamma lo chiamò a gran voce.
Dal tono del suo richiamo aveva capito che qualcosa non andava. Si rivestì in tutta fretta e, arrivato in cucina, vide Zia Francisca tutta sudata e inquieta perché il marito, Ziu Tore, non era tornato per pranzo.
Era successo altre volte, ma in quella circostanza era parso strano perché, proprio quel giorno, sarebbero dovuti partire nel primo pomeriggio per andare a trovare il figlio, in città. Babbo tranquillizzò zia Francisca e si diresse al tancato. L’arsura gli annebbiava la vista, il terreno ribolliva e lui, con gesti incontrollati, come per scacciare le mosche, continuava ad asciugarsi il capo con un fazzoletto ormai intriso di sudore che arrossava, ancora di più, la pelle. Dopo ore di ricerche, continuando invano a richiamare il fratello con degli urli profondi e sempre più pesanti, intravide in lontananza, vicino a un muro, una sagoma con sopra di essa alcune cornacchie gracchianti che, con il loro trambusto, pareva litigassero per qualcosa.
Subito pensò alla carcassa di qualche animale morto per chissà quale motivo e le bestie sopra se ne contendevano i bocconi. Iniziò ad avvicinarsi ma, nonostante il caldo e il sudore salato, che entrando negli occhi lo faceva lacrimare, l’immagine davanti a sé si faceva sempre più nitida e chiara.
Cacciò fuori un urlo talmente forte che le cornacchie, con un battito d’ali veloce, si persero tra gli alberi e tutto ciò di animato che stava intorno a lui, si fermò. Sembrò che anche gli alberi, i vegetali fossero pronti alla veglia. Trovò il fratello riverso a terra con il volto sfregiato e in una pozza di sangue, pensò a una ritorsione.
Secondo lui fu ucciso da un vicino per questioni di pascolo abusivo. Corse all’impazzata con tutte le forze che aveva in corpo fino in caserma, allarmò i carabinieri che andarono e fecero tutti i rilievi del caso senza spostar il cadavere che, intanto, diventava cianotico e gonfio e le mosche iniziavano ad ammucchiarsi sul sangue, ormai secco, rimasto a terra.
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