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Come tessere di un puzzle

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Philippe è un senzatetto e un poeta, che si guadagna da vivere scrivendo frasi d’amore sui marciapiedi di Milano. Odia la pioggia perché gli impedisce di esprimere la sua arte, ma proprio in una mattina di pioggia trova riparo sotto la tettoia dell’edicola di Marco.
L’incontro fortuito con l’edicolante apre a Philippe una dimensione del tutto nuova: Marco gli offre un lavoro e un riparo per la notte, ma soprattutto lo accoglie nella sua vita e in quella della famiglia del Bar del corso, composta da Max e sua figlia Ginevra, i titolari del bar, e dai quattro postini in pensione, emigranti di origine pugliese che vi stazionano perennemente.
Alla vita di Philippe manca però ancora un tassello, la donna che riesca a rubargli il cuore e con la quale intraprendere il viaggio più bello nella vita di un uomo. A Philippe manca Clara, l’amore della sua vita.
Ma quando le tessere del puzzle sembra abbiano trovato la loro collocazione, qualcosa rimette tutto in discussione.

 

CAPITOLO UNO
PHILIPPE
Per la pioggia ho sempre provato rabbia.
Amavo starmene da solo: vivevo per le strade di Milano e mi
guadagnavo quello che mi serviva per sopravvivere scrivendo
frasi sui marciapiedi.
Non so da dove arrivino, scrivo anche oggi ma non più
per terra, sembra che siano state sempre dentro di me e che
aspettino solo il momento giusto per uscire.
Provai a scrivere quello che sentivo anche sui muri, ma i vigili

furono molto meno comprensivi con me di quanto non lo
fossero stati quando scrivevo per terra.
Il mio nome è Philippe. Sono nato a Parigi, anche se ho vissuto

lì pochi anni.Continua a leggere
Continua a leggere

Amavo e amo Milano perché mi ha permesso di essere quello che ero;

non dico di non essere stato giudicato e in qualche
caso anche additato, ma potevo vivere la vita come mi andava.
Non so in quanti altri posti avrei potuto farlo.
Mi sono fermato in zona Porta Genova un po’ di tempo. Con
il tempo hanno iniziato a conoscermi un po’ tutti lì e sono stati

molto generosi con me.
Non amavo la pioggia perché non mi permetteva di esprimermi.
Per me esprimermi, oltre che una esigenza spirituale, era
una necessità perché mi permetteva di non restare senza
cibo. E senza vino.
Per chi, come me a quel tempo, vive per strada, il vino è
come un piumino. Aiuta a tenere al caldo quando la coperta
o il cartone non bastava. E poi aiuta a dormire, anche se in
realtà i miei sonni erano spesso molto agitati.
Vivere per strada fu una scelta della quale non mi sono mai
pentito. Certo, a volte avere un letto comodo mi mancava, ma
quando alzavo gli occhi al cielo e vedevo le stelle che mi sorridevano,

ero felice e questo mi bastava.
Stazionavo in zona Porta Genova e più precisamente in corso Genova.
Quella divenne la mia casa e lì trovai la mia nuova famiglia.
Ho conosciuto persone meravigliose e complesse, proprio
come piacciono a me, delle quali, se ne avrete voglia, potrete
leggere più avanti.
Devo iniziare con il ringraziare Marco, l’edicolante che mi
permise di dormire sotto la tettoia del suo gabbiotto, come
lo chiamava lui. Senza quel riparo, senza i giornali che mi lasciava

per riparami dal vento e per leggere un po’, le mie notti milanesi

sarebbero state molto più tristi. Fra me e Marco
i rapporti, nonostante una sua iniziale e naturale diffidenza,
sono diventati ottimi.
La prima volta che mi vide ripararmi sotto la sua tettoia, si
arrabbiò molto e mi intimò di andare via in malo modo. E io
non obiettai: in fondo amavo starmene tranquillo e non volevo

creare problemi a nessuno.
A lui non parve vero. Di solito doveva sempre litigare per
cacciare i senzatetto che si fermavano lì sotto. Quando vide i
miei occhi che si rassegnavano a quel no, mi chiamò indietro:
«Devi scusarmi. Sai, la mattina faccio sempre fatica a svegliarmi

e ho un umore pessimo. Resta pure qui ancora per un
po’. Fra poco arriva il furgone dei giornali e, se ti va, potresti
aiutarmi a scaricare le ceste. Ti offro un cappuccio e una brioche

per sdebitarmi. Ok?».
Lo guardai sorridendogli e mi rimisi a sedere. Erano le cinque

del mattino e quello era l’inizio della sua giornata.
Da quella volta i suoi inizi furono anche i miei.
Capitolo uno Come tessere di un puzzle
Col tempo mi capitò di ricevere da solo le ceste con i giornali.

Se sapevo che aveva qualche impegno con sua moglie, mi
offrivo di aprire io l’edicola e lui accettava volentieri.
Marco era, è e lo sarà per sempre, un amico straordinario.
Oltre a lui, in corso Genova ho incontrato anche Max, il barista del Bar

del corso, e sua figlia Ginevra. Che creatura meravigliosa è Gin! Dal

padre ha preso il carattere buono e l’amore
per la gente, da sua madre, che purtroppo non conoscerò mai,
gli occhi e il portamento. Così almeno mi disse Max. Giulia,
questo era il suo nome, morì di parto, lasciando Max solo con
una bambina da crescere e un bar da mandare avanti.
Marco e Max erano le persone, per così dire, più normali
della mia famiglia del corso.
E infatti gli altri quattro personaggi sembravano usciti da
un romanzo di Daniel Pennac o del grandissimo John Fante: i
pensionati pugliesi delle poste.
Calogero, detto Gerry, perché passava ore a guardare

i programmi TV di Gerry Scotti; Mimmo, detto Mezzosigaro,

perché ne aveva uno sempre in bocca, rigorosamente spento, che
gli lasciava un segno scuro fra le labbra; Carmelo, detto il Pirata,

perché, nonostante avesse più di settant’anni, portava
ancora i capelli lunghi legati con una coda di cavallo, come
i pirati nei film con Jack Sparrow. E per ultimo ho lasciato,
volutamente, Valentino Morra detto Imperatore. Imperatore

era davvero un uomo straordinario. Non è esistita donna
al mondo che non sia stata ammaliata e affascinata dalla sua
naturale bellezza. Capelli brizzolati, rigorosamente pettinati
all’indietro e tenuti fermi da litri di brillantina. Guai a chiamarlo gel:

iniziava a sbraitare come un matto. Mai un giorno,
che io ricordi, che non fosse circondato da una nuvola di profumo.
Loro quattro, per me, erano gli Altoatesini, naturalmente
perché erano i soggetti più terroni che abbia mai conosciuto.
E loro non volevano che li si definisse meridionali. Perché poi?
«Noi siamo terroni, perché terroni lo si è nel sangue, perché terroni

vuol dire passione e perché terroni vuol dire brava
gente!» Questo è quello che mi dissero la prima volta che mi
permisi di additarli come meridionali.
Ed è tutto vero. Erano proprio così: passionali e buoni.
Li conobbi quel primo giorno in cui Marco mi offrì la colazione per

l’aiuto che gli avevo dato.
Entrai nel Bar del corso alle cinque e venti del mattino e
loro erano già lì.
Aspettavano Marco che, con la scusa della colazione, gli
portava i giornali.
Appena entrammo, Mezzosigaro ci venne incontro, si avvicinò a Marco e,

mostrandoci il suo mitico sorriso (fra un dente e l’altro c’erano dei

buchi enormi), ci disse: «Eccolo qua, il
giornalaio, hai uscito i nostri giornali, finalmente! Lo sai che
dobbiamo crescere la nostra cultura. E chi c’è con te stamattina?

Il parrucchiere?».
Poi era scoppiato in una risata terribile, sputacchiando da
tutte le parti.
Dietro di lui gli altri avevano riso anche più forte, come se
avesse fatto la battuta più divertente mai sentita.
Marco si asciugò il viso con la manica della camicia e gli
consegnò i giornali: «Mezzosigaro, guarda che la faccia me la
sono già lavata a casa stamattina!».
E, contrariamente a come avevano reagito alla battuta del
compare, questa volta i tre pensionati risposero seriamente:
«Guarda che Mezzosigaro non sputa in faccia, lui profuma
l’ambiente intorno».
E lì scoppiò il finimondo.
Imperatore non trattenne le risate cadde per terra, forse
perché in equilibrio precario sulla sedia; il Pirata sputò il caffè che

stava bevendo, sporcando il tavolino. Insomma la giornata nel

Bar del corso iniziò, come spesso accadeva, con una
grassa risata.
Vivere per strada aveva molti vantaggi. Io non avevo mai
fretta, riuscivo a fermarmi ad ammirare uno scorcio di Milano,

di cui molti milanesi non conoscono nemmeno l’esistenza.

Ci sono dei vicoli, soprattutto nel centro storico, che si fa
fatica a trovare anche sulla mappa della città, ma che

racchiudono un fascino misterioso.
E poi ascoltavo molto. Le persone erano tutte indaffarate,
camminavano a una velocità strabiliante ed erano sempre al
telefonino. Ma che avranno avuto da dirsi di così importante
da non potersi godere la vista di questa città?
Io, per esempio, ho visitato moltissime chiese, è una cosa
che faccio anche adesso: a volte entro solo per una breve preghiera,

non per chiedere qualcosa, ma per ricordare a chi sta
lassù che ci sono anche io. Poi resto estasiato dai dipinti, dalle
statue e non mi rendo conto dello scorrere del tempo. Provate
a entrare in una piccola chiesa che c’è in via Torino. È la chiesa di

San Satiro. Al suo interno vi è un capolavoro di Donato
Bramante, un affresco con una prospettiva incantevole.
Ecco, lì, in quella piccola chiesa quasi invisibile ai più, ho
avuto il primo appuntamento con Clara, l’ultimo, ma non in
ordine di importanza, componente della famiglia di corso
Genova.
La mia giornata tipo iniziava sempre alle cinque, da Marco, per

aiutarlo nella sistemazione dei quotidiani. Proseguiva
con una breve colazione da Max e Gin, con la splendida compagnia

del quartetto altoatesino. Poi iniziavo a girovagare.
L’elemosina, anche se non ho mai amato chiamarla così e
preferisco pensare che sia stato un compenso offerto al mio
talento di poeta, la raccoglievo sempre nel corso. Andavo sul
sicuro.
La mattina che conobbi Clara il tempo non prometteva nulla di

buono e, visto che avevo lo stomaco già pieno della brioche, decisi di

incamminarmi verso il centro. Volevo rifugiarmi nella chiesa di

San Satiro e leggere un po’.
Marco mi aveva regalato un libro di uno scrittore che raccontava

degli anni passati in India; avevo deciso di iniziarlo
per vedere cosa ne sarebbe venuto fuori, nonostante la copertina

improponibile: raffigurava il fiume Gange dove molte
persone andavano a bagnarsi, lavarsi o semplicemente

portavano le mucche a bere.
Mi dissi: «Possibile che uno scrittore possa essere così folle
da fare una copertina così brutta? Dev’essere un libro meraviglioso».
E non sbagliai. Il titolo? Shantaram di Gregory David Roberts.

A volte le storie che hanno una trama molto complessa
nascondono dettagli di una bellezza inattesa. Ad esempio, il
sorriso di Prabaker, il giovane indiano che aiuta il protagonista

nei primi momenti in India, non si può spiegare, puoi solo
rimpiangere di non averlo incontrato di persona.
Tornado a noi, camminavo lentamente in direzione del centro,

quando vidi davanti a me una ragazza che fissava il cielo.
Era ferma, quasi fosse un fotogramma incastonato in una
pellicola. Il mondo le girava intorno e lei riusciva a non accorgersene.

Era immobile e guardava in alto, sopra di sé.
Mi fermai e, imitandola, guardai all’insù anche io. Stava osservando

un piccolo nido, probabilmente di rondini, arroccato sotto una grondaia.
Mi avvicinai e iniziammo a parlare senza neanche guardarci in faccia.

Entrambi fissavamo il nido.
«Mi scusi, ma è un nido di rondini?» le domandai.
Lei, non curandosi di chi le avesse fatto la domanda, rispose
gentilmente: «Credo di sì, anche se non ho visto nessun uccellino

entrare o uscire, quindi potrebbero essere anche dei
passerotti».
«Forse stanno dormendo. In fondo sono solo le sei e quasi
tutta la città dorme ancora.»
«Io e lei però siamo svegli. Non credo che stiano dormendo,
comunque; secondo me aspettano la mamma, avranno fame.»
«Allora speriamo che arrivi presto perché sono proprio curioso di

sapere che uccelli sono.»
In quel momento la donna parve destarsi da un sogno e si
accorse realmente di me. Abbassò lo sguardo fino a incontrare i

miei occhi e mi sorrise.
«Non le sembra strano che due perfetti sconosciuti si fermino

a parlare di nidi di uccelli nel bel mezzo di via Torino? O
sono due matti o hanno poche persone con cui parlare.»
Io ricambiai il suo sorriso e le risposi: «Io credo che, forse,
è solo perché entrambi sono in grado di osservare il mondo
senza il timore di far vedere che amano le piccole cose, quelle
a cui nessuno fa caso».
Lei rimase in silenzio per qualche secondo e poi mi salutò:
«Allora non cambi mai e ami quei dettagli che sembrano banali,

perché è in essi che si nasconde la magia del mondo».
Si voltò e ricominciò il suo cammino.
Guardai per l’ultima volta il nido e, quasi a volermi regalare un’emozione,

in quel momento arrivò la mamma rondine:
piccoli becchi emersero dall’intrico di rametti intrecciati,
iniziando a cinguettare.
Mi voltai per chiamare la ragazza, ma lei era già sparita.
Ero sicuro che non l’avrei mai più incontrata, ma mi sbagliavo.
Avrei dovuto aspettare solo pochi minuti.

CAPITOLO DUE
CLARA
Odiavo questa città. Tutti correvano sempre e vivevano di
superficialità; le donne con cui lavoravo, ad esempio, erano
insopportabili: i loro unici argomenti di conversazione giravano

intorno al sesso e ai vestiti; erano sempre pronte a criticare tutto e

tutti fermandosi esclusivamente all’apparenza.
Io non ero così e non lo sarò mai. Credo che odiassi Milano
perché infondo odiavo un po’ anche me stessa.
Sono nata in un piccolo paese della Romagna ai piedi delle
colline. Da lì vedevo anche il mare.
Fino ai miei trentacinque anni non ho mai avuto una relazione

duratura con un uomo.
Uscivo poco perché non amavo la falsità. Quando provai a
uscire per un aperitivo tra colleghe, me ne pentii subito. Nonostante

fossero tutte sposate, in quell’occasione non fecero
altro che flirtare con i ragazzi più giovani e, quando non erano
troppo occupate a fare le civette, parlarono solo di lavoro.
Odiavo Milano, finché non conobbi un uomo straordinario.
Un uomo senza maschera, che sapeva andare al di là dell’apparenza.
Philippe è il suo nome e credo di averlo amato dalla prima
volta che lo vidi. Ero ferma ad ammirare un nido di rondini
arroccato sotto una tettoia di un palazzo antico di via Torino
e lui mi si avvicinò chiedendomi cosa stessi guardando.
Parlammo per un po’ e, per la prima volta, non mi sentii in
imbarazzo davanti a un uomo.
Quando lo guardai bene, mi accorsi dai suoi vestiti malandati, dalla

lunga barba non curata e dai capelli lunghi e sporchi che doveva

essere un senzatetto. Non mi importava. Quello che notai subito di

lui furono i suoi occhi, troppo buoni per
il mondo in cui viviamo.
Erano, anzi sono, occhi del cielo e stavano guardando me.
Abbiamo scambiato un paio di battute, ma ben presto, presa
dal panico per quella sensazione di completezza che mai avevo

sperimentato, mi allontanai in direzione del Duomo.
Il cuore mi batteva forte, ero in preda a un insieme di sensazioni.

Possibile che quegli occhi fossero davvero così belli?
Proseguii a camminare in direzione chiesa di San Satiro,
senza alzare mai lo sguardo verso la gente. I suoi occhi, avrei
pensato ai suoi occhi per tutto il giorno, non volevo confonderli

con quelli delle persone che incrociavo.
Entrai in chiesa, feci il segno della croce e mi sedetti su una
panca verso il fondo.
La chiesa era semi deserta. Ma non me ne meravigliai più
di tanto: i milanesi, dopotutto, hanno poco tempo da dedicare

alla magia che si nasconde in un luogo santo. Io amo
molto invece stare in pace con me stessa davanti a un crocifisso.

So che lì posso finalmente trovare la serenità di cui
ho bisogno.
Stavo ripensando a quegli occhi che mi avevano così colpita, che non

mi accorsi subito del portone della chiesa che si
apriva. Percepii però un’ombra che si stagliava alle mie spalle.
Mi voltai e lo vidi.
Da seduta mi parve ancora più alto di quello che in realtà
era. La luce alle sue spalle rendeva quasi indecifrabili i suoi
lineamenti, ma gli occhi no. Quelli li vedevo bene. Si mise a
sedere accanto a me e mi sussurrò: «Sono rondini. Quando sei
andata via è arrivata la mamma e sono venuti fuori anche i
piccoli. Avrei voluto che ci fossi anche tu».
«Potremmo tornarci dopo insieme, se ti va. Ora vorrei pregare un po’.»
«Certo, scusami. Ti lascio sola.» E si allontanò di qualche
panca.
Era ancora troppo vicino a me perché io potessi concentrarmi

davvero sulla preghiera, ma forse lo sarebbe stato anche se
avesse cambiato città. Lui era già dentro di me.
Rimasi un po’ a ripensare alla stranezza della vita, a come
un semplice sguardo possa rivoltarti come un calzino. Poi mi
alzai e uscii: lui mi seguì.
Tornammo al nido e rimanemmo immobili a guardare i rondinini

che mangiavano dal becco della madre.
Mi resi conto che doveva essere tardi dal traffico in via Torino che

iniziava ad aumentare, allora guardai l’orologio. Erano quasi le nove.

Possibile che fossi rimasta con lui per tutto
quel tempo? Quasi tre ore.
Lo salutai velocemente, adducendo scuse lavorative; lui
parve capire.
«È stato molto bello passare del tempo con te» mi disse. «Se
ti va di vederci ancora, io giro per corso Genova. Mi puoi trovare

davanti all’edicola o al Bar del corso. Chiedi di Philippe,
il barbone.»
«Preferisco pensare a te non come a un barbone, ma piuttosto

come a un uomo che ama il bello della vita. E sì, verrò a
trovarti, perché anche per me è stato bello conoscerti.

Io comunque sono Clara.»
Corsi verso il mio ufficio e fu una giornata speciale.

Finalmente avevo qualcuno a cui pensare.
Tuttavia la gioia per quell’incontro era offuscata dalle

paure che mi portavo dentro e che, pensavo, difficilmente mi
avrebbero abbandonata.
Come mi sbagliavo.

01 agosto 2018

Aggiornamento

Cari amici lettori, dopo venti giorni il mio romanzo è arrivato a quota 80. Volevo ringraziare tutti quelli che ci hanno creduto subito, molti di voi non li conosco e questo è un risultato straordinario. So che molti amici devono ancora acquistarlo e sono certo che lo faranno presto. Qualcuno si è lamentato perché l'acquisto è possibile solo con carta di credito, non esitate a contattarmi perché possiamo risolvere anche questo . Continuate a crederci come lo faccio io e passate parola, è importante per la riuscita del progetto. un grande abbraccio a tutti. Claudio

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    “Come tessere di un puzzle” è un libro unico che emoziona dalla prima all’ultima pagina..che non riesci a smettere di leggere perché ti fa innamorare dei personaggi..perché sembra di essere lì con loro. È realmente un bellissimo libro..da leggere! Da regalare e regalarsi..super consigliato!

  2. (proprietario verificato)

    Dopo aver letto “Come tessere di un puzzle” si ha la struggente nostalgia di abbandonare un vecchio amico. Si rèspira tanta vita in questo romanzo di Tarantino. Non lascia indifferenti la grossa carica emotiva che accompagna le vite di questi personaggi, oltre che la grande carica comica che ne coinvolge altri. Vien da leggerlo d’un fiato grazie ad una scrittura leggera e coinvolgente mai banale.Me ne sono innamorato dalla prima pagina, non posso che consigliarlo caldamente.

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Claudio Tarantino
CLAUDIO TARANTINO, diplomatosi in elettronica, entra nel mondo del
lavoro svolgendo diversi ruoli, da operatore geriatrico a impiegato, no a
rappresentante nel settore ottico, ruolo che svolge tuttora. Sposato con
Claudia e padre di Filippo ed Elena, inizia a scrivere di notte quando i bambini dormono. Come tessere di un puzzle è il suo romanzo d’esordio.
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