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Tolidà – La paura della felicità

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L’estate incalza su Roma mentre Vittoria prende un treno che la riporterà a casa, nel Sud Italia. Proprio in quel viaggio incrocia un uomo, Adriano: il loro è un incontro fatto soltanto di sguardi, ma è evidente l’attrazione reciproca. Nella fretta di abbandonare la carrozza del treno, Vittoria dimentica il suo cellulare, che viene recuperato da un altro uomo, Alessandro.
È questa la coincidenza che innesca l’anello di congiunzione tra i vari personaggi: le esistenze di Alessandro, Vittoria, Adriano e Arianna si incontrano, a partire da un passato che sembra proseguire verso una direzione nota.
E invece la vita, imprevedibile, li pone di fronte a situazioni che minacciano gli equilibri esistenti. Percezioni e interpretazioni della stessa realtà si incastrano come tessere di un puzzle, in un viaggio alla ricerca della felicità.

1. FOTOGRAFIA
Vittoria
Era una tersa mattina di fine luglio.
Come ogni anno, la città, in quel periodo, si svuotava.
Si vedevano ondate di abitanti – vestiti di occhiali da sole
colorati, abiti leggeri, cappelli esotici e ciabatte – trascinare
le loro valigie estive, pronti a varcare le immaginarie mura
circolari della città eterna. Le grida di entusiasmo liberatorio
affollavano come un fuoco di paglia le strade per smorzarsi, insieme
allo stridio delle gomme di vettura sull’asfalto rovente, solo pochi
istanti dopo. Volevano scappare dalle
corse contro il tempo che caratterizzavano le vite
frenetiche, assetate di calma.Continua a leggere
Continua a leggere

Gli studenti avevano terminato gli esami della calda
sessione e preparavano i bagagli per tornare alle terre d’origine.
Lasciavano, salutandole, le biblioteche illuminate di
sapere in cui avevano trascorso giornate di studio matto e
disperatissimo. Ai libri, agli appunti, al PC avevano alternato
frequenti pause brevi, durante le quali si erano alzati,
stiracchiandosi, dalla sedia per recarsi verso l’uscita, nel
silenzio più assoluto. Con gli sguardi e i gesti, senza fiatare,
avevano attirato l’attenzione di compagni di acculturazione
per scambiare due chiacchiere mentre fumavano tabacco.
Era andata com’era andata: la sessione era finita; le scale di
ingresso agli atenei si svuotavano gradualmente. Le aule diventavano
spoglie e popolate soltanto da sedie e banchi taciturni e immobili.
I corridoi dei dipartimenti, dai soffitti
bassi e bianchi, diventavano lunghi labirinti vuoti, calpestati
dal solo personale della vigilanza. Gli alloggi erano case
spente e senza voce in cui si accumulava la polvere di stanze
momentaneamente chiuse.
I pendolari si allontanavano dai luoghi di fatica, sorridendo
di sottecchi dai finestrini dei mezzi pubblici. Per qualche
settimana potevano evitare di svegliarsi all’alba, di correre,
per rispettare la tabella di marcia. Potevano non sentirsi
come sardine in vagoni di latta, stipati senza quasi potersi
muovere. Dimenticavano le oscillazioni delle ruote dell’autobus
che cercava di sfrecciare tra le code di automobili,
sussultando sui sanpietrini; scordavano anche quelle delle
ruote di ferro del treno che raschiava le rotaie, mentre le
narici si inondavano di un acre odore di sfregature di ferrame;
mettevano da parte il rumore del tram che seguiva i suoi lunghi fili.
Tutti i fuori sede in cerca di fortuna tornavano alle loro
case. Per un breve periodo, ritrovavano le proprie comodità,
senza doversi arrangiare in case condivise con inquilini
spesso sconosciuti, a volte improbabili. Non erano più
costretti a sistemazioni di fortuna, a spostamenti stressanti
in città. Potevano godere dell’affetto dei propri familiari, nel
luogo in cui erano nati e cresciuti e in cui ritrovare quelle
parti dell’esistenza che, a volte, sembravano perdute.
Pochi rumori di motori e le orecchie sembravano rilassate,
finalmente libere di ascoltare, senza più corazze di difesa.
Quasi si riuscivano a percepire gli strilli dei gabbiani che
volteggiavano alti sui colli.
Appariva così bella la città, abitata dai fantasmi di un
grandioso passato e da numerosi turisti curiosi ed estasiati:
erano queste le anime che popolavano le strade di fine
luglio. Folle di giapponesi con ombrellini spiegati sulle
testoline scure, grandi occhiali da sole, freschi abiti di cotone
che coprivano gran parte della pelle delicata, per difenderla
dai raggi bollenti. Cappellini, scarpe da tennis e grandi fo-
tocamere appese al collo. Gruppi di nordeuropei, dal volto
arrossato e dalle teste chiare, marciavano in canotte e
pantaloncini risicati su passi rigorosamente scoperti e affondati
in sandali ergonomici. Zaini in spalla e bottigliette d’acqua
al seguito. Si aggiravano per le strade del centro storico con
il naso all’insù: le espressioni di stupore manifestate attraverso
la grande O che la loro bocca formava, increduli per
il fascino, per la bellezza e l’alone di mistero che avvolgeva
l’immenso agglomerato semivuoto.
Vittoria si stava godendo questa insolita atmosfera. Le
sembrava di essere in un’altra città: no, questa non era la sua
città. Quella in cui, all’uscita dalla metro, fiotti di pendolari
si scontravano e si travolgevano come fiumi in piena; quella
la cui musica risuonava di strombazzate di automobilisti imprecanti
e incollati al clacson.
A Vittoria, in queste circostanze, veniva in mente una celebre
frase: “la gazzella, al suo risveglio, deve correre più del
leone, altrimenti verrà uccisa”. Ecco, Vittoria sapeva che, in
quella città, proprio come accade alla gazzella, l’unica cosa
da fare per sopravvivere ai ritmi soffocanti era correre.
Quel giorno la città sembrava quasi una perla del Nord Europa
quanto a ordine, silenzio, pulizia e limpidezza dell’aria.
Vittoria la osservava dal balconcino della sua mansarda in
centro, sorseggiando caffè. Si era concessa un momento di
relax prima di fare i bagagli e tornare a casa per un po’. Con
gli occhi semichiusi tentava di scrutare l’orizzonte lontano,
al di là dei palazzi, accecata dal bagliore dei raggi del sole
che si riflettevano nei vetri delle case circostanti e nei
finestrini delle auto che dormivano parcheggiate ai lati della
strada. A quell’ora del mattino presto, poi, era tutto così
fantasticamente calmo.
Ciò che maggiormente adorava era annusare a pieni polmoni
il profumo di cornetti appena sfornati e caffè bollente
che saliva, espandendosi nell’aria, dal piccolo e accogliente
bar sotto il palazzo.
Rifletteva sulla condizione in cui si era cacciata. Mai una
storia normale, pensava. Come l’ultima, poi, non le era mai
capitata prima. Non si sentiva quella che propriamente si
definisce una santarellina, quindi non era di certo per
principio che aveva evitato una situazione del genere. Piuttosto, a
un certo punto della sua vita, aveva deciso di seguire
alla lettera un conclamato principio edonistico. Era proprio quello
il punto: nelle suddette circostanze, lo stesso principio
edonistico la spingeva da un lato a buttarsi, dall’altro a lasciar
decisamente perdere. Insomma, si era imbattuta in un seducente,
irresistibile uomo sposato. Di conseguenza, il famoso principio
edonistico le suggeriva di seguire i suoi istinti
e lasciarsi andare alle avances di quell’uomo così intrigante
che aveva risvegliato in lei forti spinte passionali, senza
logiche e senza freni inibitori. Tuttavia, il principio edonistico
implica non soltanto che il piacere sia perseguito, ma anche
che il dispiacere venga allontanato. Pur non avendo mai
vissuto in prima persona una tale situazione, immaginava che
condividere un uomo con un’altra donna fosse un’esperienza
che a lungo andare le avrebbe provocato una qualche sorta
di disagio, per tutta una serie di motivi. Punto primo, per la
difficoltà con cui due amanti, ovvero due persone che
intrattengono una relazione clandestina – cavolo, quanto odiava
quella parola: non riusciva neppure a pronunciarla nella sua
mente – debbono ritagliarsi degli spazi e dei tempi in cui stare
insieme. Raccontare balle, incastrare impegni, sottrarre
tempo ed energie al lecito per riversarli a nutrire l’illecito,
travestirsi fisicamente e psicologicamente per non essere
scoperti, cercare un luogo per nascondersi. Tutte operazioni
mentali e materiali che richiedono uno spreco assurdo
di risorse. Il secondo punto che la spingeva a desistere era
il pensiero di non poter avere l’esclusiva. Non era abituata,
lei. Nelle relazioni, in campo professionale, in qualsiasi sfera
della sua vita, la sua innata tendenza a essere competitiva la
costringeva ad avere come obiettivo costante quello di dover
primeggiare. Figurarsi quanto fosse importante essere la
prima, e unica, in una relazione sentimentale. Punto terzo:
l’eventualità di ferire altre persone. Anche se, per raggiungere
la propria meta percorreva alcuni sentieri bardata da paraocchi,
aveva un gran dono, lei: l’empatia. Quella capacità
di mettersi nei panni dell’altro che consente di comprendere
alla perfezione cosa prova. Be’, di certo non avrebbe mai voluto
trovarsi nei panni dell’altra. E ciò costituiva un motivo
sufficiente per evitare di intrattenere questo tipo di rapporto.
Ma la controparte, quella non l’aveva proprio considerata.
Non conosceva la sensazione dell’adrenalina che sale
quando lui telefona e dice: «Stasera mia moglie non c’è. Vediamoci».
Non sapeva che da quel momento fino all’appuntamento il
cuore batte all’impazzata, perché una moltitudine di emozioni
si affolla dentro: ansia, gioia, inquietudine, rimorsi,
ripensamenti, eccitazione. E allora scatta la corsa ad annullare
gli impegni, con l’affanno di trovare immediatamente
una scusa plausibile, del tipo: “Niente cinema stasera, mal di
testa allucinante”; “Pomeriggio di shopping annullato, causa
imprevisto”; “Oggi sono KO, un principio di inf luenza”. Dopodiché,
cominciano i rituali di preparazione.
Ah, quanto conta sentirsi perfette. In una tipica relazione
clandestina sono così poche le occasioni in cui lei può mostrarsi
per com’è realmente che, quando raramente succede,
presentarsi nel migliore dei modi diventa di vitale importanza.
Prende avvio, allora, l’operazione “l’anatroccolo si trasforma
in cigno”. Bagno rilassante, per mandar via il tremore
dalle mani; maschera al viso, per attenuare le occhiaie dopo
notti insonni per l’impazienza; impacchi di creme vellutanti
sulla pelle bollente di ormoni impazziti; e, ancora, scelta
del vestito migliore, quello che rende sexy senza che sia tolto
spazio all’immaginazione; tanto tempo allo specchio per un
make-up che esalti gli occhi e renda le labbra focose e appetibili.
Capelli di seta e un tuffo nel profumo più inebriante
per ubriacare i sensi. L’opera d’arte che ne risulta viene, il
più delle volte, completamente deturpata in pochi minuti; il
piatto di nouvelle cuisine viene avidamente divorato.
Non prevedeva, Vittoria, che sarebbe diventato motivo di
batticuore anche il semplice bere qualcosa al fianco dell’uomo
irraggiungibile; passeggiare in un paese di sconosciuti;
attendere che si facesse buio per essere meno riconoscibili;
guardarsi intorno come dei paranoici conclamati prima di
montare insieme in auto.
Ma, probabilmente, erano proprio queste circostanze a
rendere il tutto così intenso, a trasformare due perfetti
sconosciuti in amanti insaziabili che imparano a memoria ogni
centimetro di pelle l’una dell’altro. La necessità di mantenere
un segreto così indicibile li rendeva due complici perfetti
e la loro capacità di comunicare senza dire una parola si era
affinata in maniera straordinaria.
E così si incontravano, gli amanti, nella realtà e nei sogni,
guardinghi e attenti. Un timido bacio sulla guancia come saluto
disinteressato, qualche chiacchiera da vecchi amici per
sciogliere il ghiaccio, la domanda “Dove andiamo?”. Poi, bastava
incrociare gli sguardi per accendere una grande fiamma di
passione, che li rendeva impazienti e trepidanti.
Vittoria doveva rimanere con i piedi per terra. Quella
mattina, sul terrazzino, con gli occhi socchiusi, cercava di
convincersi che non era innamorata di lui. È solo attrazione
fisica, si diceva, e ora sembra tutto più grande, intenso e
magnifico soltanto perché è amplificato dal fascino del non detto
e dell’illecito. Adriano era stato chiaro fin dall’inizio. Dai,
vediamoci, le scrisse una volta in chat, trascorriamo una serata
insieme e poi ognuno per la sua strada.
Dopo che le loro vite si erano scontrate, infatti, i due si
scrivevano ogni tanto e non avevano esitato a esplicitare,
quasi immediatamente, l’interesse reciproco. Per lei,
l’attrazione era un problema fino a un certo punto. A ventotto anni
suonati non era mai stata impegnata in una relazione stabile,
presa com’era dalle sue ambizioni professionali; tantomeno
lo era in quel momento. È vero, non voleva gatte da pelare, ma
tutto sommato una serata di sesso non avrebbe avuto grosse
implicazioni, o almeno così credeva.

Adriano
Adriano era un uomo mai cresciuto. Di quelli che giocano
ancora, entusiasti, alla Playstation e sulle mensole espongono
action figures come fossero trofei.
Era, inoltre, un uomo che l’aveva sempre vinta. Non perché
la vita non fosse mai stata dura con lui, ma perché, pur
di fronte alle difficoltà, trovava sempre un modo per
proteggere il suo mondo, fatto di pensieri astratti e di calma piatta.
Perciò, era facile vederlo intento a osservare il nulla, perso
dietro a un bicchiere. Era capace di passare intere mezz’ore
a guardare le nuvole correre e immaginare, con estremo sollievo,
di essere quelle nuvole. Spesso, anche in mezzo a tante
persone, era capace di estraniarsi completamente e intervenire
in una conversazione, di cui aveva captato poco o nulla,
in modo anche abbastanza spropositato. A volte, sembrava
che tutto lo annoiasse, che raramente esistesse cosa degna
di coinvolgimento o capace di catturare la sua attenzione.
Ma lei, con quello sguardo intrigante dietro gli occhiali da
vista e quel sorriso ammaliatore, aveva subito catturato la
sua attenzione. L’aveva beccata in compagnia di un uomo, e
che uomo, ma questo contava poco. Quando si metteva qualcosa
in testa, difficilmente Adriano rimodulava i programmi.
In ogni caso, nessuna presenza avrebbe potuto annullare
i suoi pensieri fantasiosi su quella ragazza che camminava
ondeggiando i fianchi e facendo susseguire i passi decisi
lungo una perfetta linea immaginaria. Prima o poi l’avrebbe
posseduta. Era tutto ciò a cui riusciva a pensare quando la
incontrava e la osservava da lontano.
Non la conosceva e questo rendeva il tutto più attraente,
ma il modo in cui si muoveva lo faceva impazzire. Adriano
era convinto che se una donna possiede armonia nei gesti e
nei movimenti, be’… allora sarà fenomenale a letto. Non gli
piacevano le donne oggettivamente belle. Spesso si era
imbattuto in avances di donne ambite, ma non gli interessavano
due belle gambe slanciate o un seno prosperoso: non gli
bastavano. Osservava il modo in cui si muovevano o come,
parlando, gesticolavano e le sottoponeva a un privatissimo
test di femminilità. Se riuscivano a catturare la sua labilissima
attenzione, allora potevano essere etichettate come
“femminili”.
Per lui era tutto ciò che contava, non perché potessero essere
prese in considerazione come possibili candidate a una
vita insieme; ma affinché potesse sentirsene semplicemente
attratto.
In realtà, raramente gli era successo di provare un’attrazione
così forte per una donna: una di quelle dal cui corpo è
impossibile scollare gli occhi e, quando se ne va, vorresti che
ti lasciasse in prestito un pezzo della sua pelle soltanto per
poterla annusare qualche secondo e riuscire a fantasticare
meglio.
Adriano riusciva a ricordare perfettamente ogni capo
d’abbigliamento che avvolgeva quella figura esile perché
ciascuno di essi, scoprendo qualche parte del corpo, o mettendone
in velata evidenza qualche altro, gli aveva fatto letteralmente perdere la testa.
Gli capitava di dimenticare di avere la fede al dito. Chissà
se ciò accadeva perché viveva il matrimonio in maniera del
tutto naturale oppure perché desiderava, in fondo, accantonare
il proprio status. In ogni caso, non capitava di certo
perché non amasse sua moglie. Piuttosto, certi impulsi non
riusciva a reprimerli così facilmente.
Insomma, Adriano faceva parte di quella categoria che lui
stesso denominava “maschio Alfa”.
Si tratta dell’uomo che per strada si gira a guardare un culo
sodo, anche se sta passeggiando abbracciato alla compagna e
che fa commenti su una donna appariscente senza collegare
la bocca al cervello. E poi, fondamentalmente, impersonava
quello che comunemente viene chiamato “spirito libero”, o
meglio ancora, “mente libera”. Sì, i legami; sì, i sentimenti;
sì, i vincoli, le regole sociali e morali, ma il mondo interiore,
quello è un’altra cosa: lì vincoli e regole difficilmente dettano legge.

Pluf.
Un’entrata di stile nelle acque profonde. Sveglio all’alba,
con l’impeto di respirare aria e acqua. La corsa in moto per
le strade semideserte, il paesaggio che cambiando si rispecchia
sul vetro scuro del casco integrale e i monti verdi che si
addolciscono, fino a immergersi in mare.
Adriano fermò la moto di fronte a quella distesa,2
dove l’asfalto lascia gradualmente il posto alla sabbia dorata. Una
duna, coperta da grosse piante grasse, nascondeva la battigia,
visibile appena qualche metro più in là, dove il mare
adagiava dolcemente le onde. Il motore venne messo a tacere
da un giro di chiave; le mani di Adriano lasciarono il freno e
la frizione e per un momento sfiorarono la carena intiepidita dai
raggi dell’alba di luglio. Quelle mani grandi e scure si
diressero, ben aperte, verso il casco, per sfilarlo dolcemente
dal capo glabro.
L’uomo si guardò intorno, fece un respiro profondo e assaporò la
brezza marina e quell’intenso sapore di salsedine che
transitando dalle narici giunse inalterato fino alle papille
gustative. Solo lui e l’eco del canto stridente dei gabbiani nel
raggio di chilometri, nel candore delle rocce ricoperte da vegetazione
che svettavano imponenti sulla calma superficie
salata.
Adriano si sfilò il giubbotto, lo adagiò sul sedile della moto
e si incamminò sul sentiero scosceso che conduceva all’apice
di un dirupo a picco sul mare. Ansimante, raggiunse la vetta.
Si svestì in fretta, lasciò gli abiti in terra e posizionò i piedi,
unendoli, all’estremità di un ruvido spuntone. Dritto ed eretto,

alzò il mento. Guardò all’orizzonte, trattenendo un lungo
respiro mentre sollevava le braccia. Sorresse il peso del corpo,
contratto sulle punte dei piedi: i polpacci si gonfiarono, le
ginocchia si f lessero leggermente per trovare lo slancio del
salto verso l’alto e subito giù. Un corpo asciutto e dorato cadde,
perfettamente verticale, verso il mare.

E pluf.
Tutti i sensi gli sembrarono intorpiditi. La pelle si lasciò
accarezzare dalla pressione lieve e sentì gli spostamenti
dell’acqua dovuti al movimento di mani e gambe, che si agitavano
in una sincronia leggiadra per mantenere il corpo e
la testa un pelo sott’acqua. Gli sembrò meraviglioso restare
qualche secondo ad ascoltare il suono frizzante delle bollicine
di ossigeno sollevate dalla sua caduta. Si mescolavano con
le bolle più grandi e dal rumore più grave: rilasciate lentamente
dai suoi polmoni, attraverso il naso, correvano verso
l’alto per schiantarsi repentinamente in superficie. Adriano
aprì di colpo gli occhi per esplorare quel blu profondo e come
un girasole si soffermò a osservare la palla di luce che creava
una miriade di sfumature di azzurro intorno a essa, fino a
far perdere il giallo dei suoi raggi sottili e sfocati nel blu più
scuro, lontano da sé.
Riaffiorò in superficie come farebbe una tartaruga: soltanto le narici
fuoriuscivano dall’acqua per riprendere aria.
Poi andò a fondo e infine saltò su, respirando a pieni polmoni.
Si lasciò coccolare dalle lievi onde del mare.

23 giugno 2018

“Av Live”

Ai microfoni di "Av Live" ho parlato di "Tolidà - La paura della felicità". Ecco il link! Buona visione! intervista Av Live libro Tolidà  

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Lilia 22 Marzo 2018
    Storia di oggi, scritta per quattro cuori confusi che si incrociano nella vita del nostro tempo con i loro pensieri e con i loro sentimenti. I personaggi non trovano risposta ai loro dubbi e alle loro incertezze.
    Ognuno resta con il suo “perché”.
    L’ amore ?
    Forse uno spiraglio c’è ed è nell’epilogo… Alessandro… “che non poteva immaginare, neppure nei sogni più rosei, di meglio dalla vita… finalmente ha una famiglia”.

  2. (proprietario verificato)

    Chi legge sa che ci si imbatte facilmente in povere, banali e a volte ridicole raccolte di pagine fitte chiamati romanzi. Purtroppo alcuni autori non hanno senso critico e molte case editrici funzionano a pagamento… Personalmente in libreria vorrei trovare ciò che merita di essere reso noto. La scelta di Enza Graziano è questa:crowdfunding. Siamo chiamati non a votare, ma a collegarci, sbirciare la bozza non editata e a lasciarci incuriosire preordinando il libro. Insomma Enza ci ha affidato un ruolo importante! Sono sicura che tutti saremo all altezza 🙂

  3. (proprietario verificato)

    Letto in due giorni spinta dalla curiosità di sapere che piega prendessero le vite dei protagonisti con cui sin dal primo capitolo ho avvertito empatia. La lettura è piacevole, senza artifici ma allo stesso tempo non scontata!!! Consigliatissimo!!!!

  4. (proprietario verificato)

    Ho letto la bozza, l’intreccio dei tre personaggi mi piace, il riferimento alla colonna sonora è un’ottima idea, chi legge spesso si immedesima in una frase, in un momento magari vissuto e ascoltare quella canzone crea una sintonia ancora più forte con il messaggio che l’autrice vuole lasciare ai suoi lettori. Consigliatissimo!

  5. (proprietario verificato)

    Arrivi all’ultimo capitolo e non sai se leggerlo spinto dalla curiosità di come finisca, o non leggerlo per il dispiacere che finisca. Nulla è scontato, ogni personaggio ha una storia da raccontare e l’autrice con la sua sensibilità riesce a farlo benissimo. Uno di quei libri che ti appassiona dalla prima all’ultima pagina. Straconsigliato

  6. (proprietario verificato)

    Ho avuto modo di leggere la bozza. La lettura non è il mio hobby preferito ma l’intreccio di personalità e di vite così diverse tra loro, come rappresentato dall’ottimo lavoro dell’autrice, mi ha tenuto incollato al libro pagina dopo pagina. Ottimo lavoro.

  7. (proprietario verificato)

    Bello e appassionante. Ogni personaggio ha qualcosa da raccontare e tutto viene sapientemente intrecciato dall’autrice. Consigliatissimo!

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Enza Graziano
ENZA GRAZIANO nata in provincia di Avellino nel 1983, è Psicologa e Dottore di ricerca in Scienze della Mente, con interessi nell’ambito della comunicazione. Appassionata di scrittura, cura un blog, Libro vuol dire Libero, su cui parla di romanzi e scrive racconti. Nel tempo libero, sperimenta la pittura. Vive in Irpinia, con suo marito Tony e una gattina. Tolidà – La paura della felicità è il suo primo romanzo.
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