Per la Baldini, la vita non è stata un dono.
La vita per lei è stata un mutuo, da rimborsare in scomode rate quotidiane a interessi crescenti.
Guardala anche in questo momento, perennemente in anticipo di quindici minuti sul presente, come sposta dal suo cassetto alla sua cartella le stesse carte che ieri alla stessa ora aveva spostato dalla cartella al cassetto.
O come improvvisamente venga rapita da un punto nel vuoto e allora, in piedi nel suo soprabitino verde marcio di mezza stagione, assuma la fissità dolente di un monumento al decoro.
Nello stesso momento, imboscati sul retro dell’edificio, i tuoi colleghi pendolari – gli occhi ancora arruffati dai sogni – ingannano l’attesa fumando la prima sigaretta della giornata. Il fumo, cristallizzato nei vortici d’aria del mattino quasi autunnale, s’arrampica verso un cielo nitido e fresco come un lenzuolo di bucato teso tra quattro giovani braccia.
La massa grigia del prefabbricato, piagata da mille screpolature e fratture mai veramente risanate, imbrunita da muschi e residui d’umidità mai sufficientemente contrastati, venata da tubature rosse discendenti disarticolate e pendenti, appare su quello sfondo ancora più ottusa. A vederla un po’ da lontano, da fuori il cancello, salta agli occhi perché voi studenti la chiamiate ‘Caccolone’.
Quando venni qui la prima volta, alcuni anni fa, era la fine di un altro luglio. Cercavo il liceo nel quale mi avevano appena trasferito e perlustravo il brullo stradone di periferia dalla targa toponomastica annerita con lo spray e privo di numeri civici che supponevo poter essere quello giusto. Procedevo così, sulla mia lambretta 200 cc arcaica, a dieci all’ora, guardandomi a destra e sinistra.
‘Mobilificio’, ‘deposito di automezzi’, ‘hard discount’… Nella mente escludevo, etichettandoli, i vari capannoni, ruderi o spiazzi polverosi che costeggiavo.
Passando di fronte al Caccolone, al suo cancello sbilenco assediato dalle erbe incolte, al vialetto d’accesso ossessionato dagli oleandri mai potati e, soprattutto, al suo spiazzo ricoperto dalle utilitarie stazzonate del personale, etichettai ‘sfasciacarrozze’ e proseguii.
Solo alla fine dello stradone, dove l’asfalto spariva, come tuttora, sotto una coltre di elettrodomestici arrugginiti, mi resi conto che qualche etichetta doveva esser fuori posto e tornai disorientato sui miei passi.
Col tempo, questo scenario è stato lentamente masticato dai gesti quotidiani ed è divenuto digeribile, familiare, plausibile.
Così, il giorno che ti sei avvicinata e mi hai chiesto se potevi parlarmi, stavo proprio lì sul muretto a sbocconcellare i miei cracker alla soia, in bilico sul bordo superstite alla tracimazione dei rami d’oleandro.
Eravamo all’inizio, Nina, e non ci conoscevamo ancora molto. Mi ero, però, accorto che il tuo sorriso, quando mi salutavi, indugiava quell’attimo in più del consueto, venandosi di curiosità.
Dissi: “Siediti!”. Tu ti limitasti a lanciarmi un’occhiata un po’ perplessa, indicando con i palmi delle mani aperti la seduta grigia invasa dalla vegetazione.
“Già…”, confermai. Allora mi alzai io, e ci mettemmo a camminare appaiati per i vialetti rinsecchiti del giardino, sulla stuoia di aghi di pino e cicche di sigarette, tra gli echi delle innumerevoli parole spesevi negli anni dagli studenti e i baci in decomposizione, nati e morti lì. Di fronte all’ulivo eremita – piantato nessuno sa più quando per ricordare nessuno sa più quale professore prematuramente scomparso – cominciasti a dirmi delle cose.
Sbucarono tre studenti dell’ultimo anno che si stavano facendo una canna, ma alla mia vista dileguarono verticali come folaghe da uno stagno.
Gli arbusti scarnificati all’intorno sembravano dolenti punti interrogativi in calce ai tuoi patemi, il cui vapore acido ti risaliva agli occhi arrossandoli.
Quindi, prendesti a piangere apertamente, e mi parve quasi che l’ulivo ischeletrito tendesse avidamente le radici verso la perpendicolare dei tuoi occhi ora riposti verso terra.
Fu per questo che lo sguardo ti cadde sulle mie venerate e vissute scarpe da ginnastica.
“A professo’, ma che scarpe s’è messo?”, dicesti tirando su col naso.
“Perché? Che c’è che non va?”.
“Non lo so, so’ dei tempi suoi… E quei lacci tutti zozzi e rovinati!”
Mi guardai i piedi con i tuoi occhi e capii l’errore commesso. I rinforzi scamosciati delle punte alternavano abrasioni e macchie del tempo. Dove una volta essi erano solidamente rilegati alla suola, si spalancavano ora due piccole bocche malinconiche, come quelle di passerotti affamati e inconsapevoli d’esser nel frattempo divenuti orfani. L’anima azzurra della tomaia era, a sua volta, divenuta un fantasma ceruleo e deprimente. I lacci, poi, avevano le punte sfilacciate, varie sfrangiature e un colore che, se una volta era stato bianco, era ormai diventato uno spessore opaco che quasi assorbiva del tutto – per fortuna, pensai – le piccole stampe colorate originali.
Fortuna incerta, perché te ne accorgesti lo stesso:
“Ma poi, che ci sta sui lacci? Dei disegnini? Proprio lei, professo’, che è uno dei pochi qua dentro che si veste decentemente?”.
Lo sapevo bene, Nina, che quelle scarpe erano inadatte, e peggio ancora i lacci con le figurine. Siete così attenti, voi, a come ci vestiamo noi prof. Saliamo nella vostra considerazione, quando non abbiamo quell’aspetto così tipico, da emarginato, che tende ad assumere il docente di mezza età socialmente svantaggiato e che, di solito, io sono piuttosto attento a prevenire.
Tuttavia, ci ero cascato perché a quelle scarpe ero troppo affezionato e, a dire il vero, ancor più ai lacci. Non potevo proprio privarmene e, inoltre, ogni tanto mi ribellavo al fatto di aver raggiunto l’età nella quale gli indumenti sdruciti smettono di suscitare simpatia e generano solo imbarazzo.
“Sono… Erano dei gattini, colorati…”, ammisi arrossendo.
“Dei gattini?”.
“Sì, ma posso spiegare…”.
Proviamoci.
֍
Le coinquiline di Chloé non erano ancora rientrate. Lei gettò borsa e giacca su una poltroncina di vinilpelle amaranto piuttosto malconcia, che costituiva l’unico arredo dell’ingresso. Mi fece sedere in cucina, tra i pensili ricoperti di una formica al verde e un vecchio frigo ansimante. Poi cominciò a girare per l’appartamento, come cercando qualcosa. Entrava e usciva da un paio di porte, prendendo di là degli oggetti che poi depositava di qua, e viceversa.
A un certo punto, si placò e venne a sedersi di fronte a me. Ci divideva il lato corto del tavolo coperto da una tela cerata a piccoli riquadri bianco sfuocato e verde polvere, la quale forse – prima che la vita delle cose li portasse su strade divergenti – doveva essere in abbinamento cromatico alla formica.
Teneva gli occhi fissi sul ripiano e giocava a campana con le dita sulla scacchiera della tovaglia. Infine, alzò gli occhi fino a configgerli nei miei. Mi sembrarono vasti e incerti come laghi siberiani.
“Tu sei sicuro?”, mi chiese.
Non ero certo d’aver capito bene, ma trovai conferma nel ritmo del suo respiro. “Credo di sì…”, dissi.
“Io no”, concluse. Poi, si alzò, mi prese per mano e mi trainò nella camera da letto.
Rinuncio a descrivertela nel dettaglio, la camera, perché c’è un limite alla verosimiglianza. Del resto, se tu non conoscessi il Prof. Ragusa, riusciresti a credere alla sua esistenza?
Ci stendemmo su un letto disossato. Bisognava anche stare attenti, perché il materasso era un po’ più largo della rete e, spostandosi troppo sui lati, si rischiava il precipizio.
Chloé cominciò a perlustrarmi con le mani, come fosse cieca, o come una rabdomante. Sembrava dovesse ricostruirmi in codici sensoriali diversi dalla vista. I capelli sparsi sul volto sembravano alghe sulla battigia.
Tentavo inutilmente di radunarli in piccoli cumuli, in modo da scoprire, oltre le gote, ai piedi del naso, nelle valli delle labbra, i sottili sentieri per i quali s’incontrano i desideri.
Sentivo il mio, di desiderio, incombere. Era l’ennesimo miracolo di una certa liquefazione del sangue che defluiva così dai centri di controllo e colonizzava in ebbrezza la pelle, i muscoli, l’aura.
Prometteva bene, ed era pronto per incontrare il suo e farsi strada insieme nella carne per i sentieri irripetibili di un incontro. Succede così, no? Puoi essere esperto nel cercare. Nel trovare siamo tutti appena nati.
Il sole, a un certo punto, formò un angolo critico con la finestra, così che un raggio, come in una piramide maya al solstizio, penetrò l’aria e colpì una mattonella scheggiata. Mentre le toglievo la camicia, mi venne in mente, chissà perché, le buste della spesa che avevo portato in casa prima di andare all’appuntamento e che, prevedendo di tornare al volo, avevo semplicemente appoggiato sul ripiano della cucina.
Le sue ascelle, ora libere, spandevano una fragranza arcaica, di fieno e di cascina, su cui provai a concentrarmi. Ma mi tornavano in mente il pescespada e i formaggi, abbandonati a sé stessi fuori dal frigo. Qualcosa in me stava subdolamente divagando.
Era forse per questo, perché io ero altrove, che continuavamo a procedere un po’ a tentoni? O viceversa? A momenti, mi sembrava di sentir respirare il suo desiderio, come dietro una porta sottile. Allora, provavo ad aprirla. Ma c’era solo un’altra porta. Continuavo a sfogliare pacatamente i suoi indumenti, cercando di rintracciarlo, il desiderio, in pieghe sempre più segrete. Ogni volta arrivavano nuovi odori che non mi erano sgradevoli, e tuttavia mi sembravano avere un non so che di neutro, o di sedativo.
Infine, non ci fu più nulla da togliere, se non un diaframma invisibile.
Qualcuno telefonò. Sentivo Chloé irrigidirsi lievemente ad ogni squillo, come per degli infinitesimali elettrochoc. Quando desistettero, continuai a sentirmi per un po’ i trilli dentro.
A lei, però, il ritorno della quiete doveva aver sussurrato qualcosa, e improvvisamente si diede da fare. La cosa mi parve per un po’ promettente, benché in questo modo mi spingesse pericolosamente verso l’angolo pensile del materasso. Anche ora, però, avvertivo un che di macchinoso, o di stentato, che mi allarmava.
Mi sembrava di vagare in un labirinto, nel quale ci si trovasse sempre a un passo e, tuttavia, irraggiungibili. Ma, ancora una volta, più mi pietrificavo nell’interno, più un desiderio cupo e inarrestabile mi scorreva per la carne.
Andammo, di qui in poi, verso l’uscita dal labirinto. Nella carne dell’altro e per proprio conto. Negli ultimi istanti non pensai più al pescespada, ma a quanto sarebbe stato difficile subito dopo, e cercai – durante il piacere – una frasetta per l’immediato, da buttar là per disincagliarsi subito dagli imbarazzi.
Mi sembrò di aver trovato una battuta che potesse fare al caso nostro e ne fui felice. “Va bene – pensai abbandonandomi, infine, sul materasso – non c’è nulla di tragicomico come le prime volte importanti”.
Poi l’abbracciai, e mi giocai la mia chiosa geniale: “Se non ti fidavi di me come cuoco, potevi dirlo!”.
“E sì… – rispose in franconapoletano – anche perché non potrai mai essere un disastro in cucina come a letto…”.
Scoppiò in una risata strabiliante. Poi, mi abbracciò a sua volta e disse: “Le prime volte sono sempre tragicomiche…”.
֍
Passavamo qualche ora così, mimetizzati tra i bagnanti. Se ci tuffavamo, la frescura delle onde le provocava la comparsa di centinaia di collinette epidermiche, sulle quali rimaneva impigliata una miriade di goccioline, che al sole sottolineava di scintille le sue fattezze incaute.
Era per me ogni volta un trauma taumaturgico, un’agonia benefica che durava fin quando non risalivamo, nel pomeriggio inoltrato. Il momento deputato.
Aprivamo gli scuri, per lasciar entrare le ombre già allungate dei lecci e il respiro primordiale della sera. Abbassavamo le zanzariere perché la nostra pelle indifesa non attirasse nemici. Da ultimo, veniva il tentativo di chiudere precauzionalmente fuori Poe-mìcio, il quale era però troppo edotto nell’arte dell’agguato.
L’alternativa, per depistarlo, consisteva nel provare a far piano come adolescenti nei pomeriggi invisibili delle case paterne. Ma non c’era nulla da fare: Poe-mìcione planava inevitabilmente sul futon, vellutato come una grassa albicocca. Mi toccava allora alzarmi, raccoglierlo e defenestrarlo, già che le pedate dimostrative avevano ben presto perso ogni efficacia dissuasiva.
Tornavo a stendermi, mentre ogni giorno lei fantasticava nuove e più atroci trappole atte a contenerlo, o inediti e strazianti metodi di pedagogia felina per rieducarlo.
Ridevamo allora come se le lenzuola fossero state profumate col protossido d’azoto. Le lucertole sul davanzale, sempre assorbite nella loro bolla di preistoria, forse sospettavano di perdersi qualcosa, o forse no.
Ridendo, però, ci abbracciavamo e, al contatto, le leggi del suo potere su di me diventavano infine chiare e ineluttabili, quasi fossero scritte in braille sulla sua pelle.
Era un abbraccio popolano, sempre più diretto, senza narrazioni speciali, assediato dalle vite degli altri. Nella sua cavità, echeggiava la voce del mondo: lo scorrere del latte nelle mammelle delle puerpere, l’incomprensibile e benefica musica delle particelle subatomiche, i sospiri dei moribondi e la pioggia delle lacrime dei martiri oscuri.
Si sentiva tutto e si abbracciava tutto, con una trasognata sensazione d’integrità. C’è una verginità che non si perde, Nina, ma si conquista.
I fatti, suppergiù, erano questi, e si faceva l’ora in cui il mondo andava a mangiare qualcosa. Su questa strada, però, seguirlo passo passo non era semplice, perché il mondo andava in posti di tutti i tipi e noi, invece, ne cercavamo uno carino carino.
Giuliana Ceccarelli (proprietario verificato)
La penna elegante dell’autore segue il suo sguardo benevolo sui personaggi. La vita a scuola offre una riflessione più ampia, sulla condizione umana. L’autore accompagna con delicatezza e con ironia i suoi personaggi, ne perdona le debolezze e dà loro un respiro universale
Cristiana Vallarino (proprietario verificato)
“Una collana perfetta” è un libro che attinge ispirazione dalla vita e dalle esperienze del suo autore. La descrizione dell’ambiente scolastico, degli studenti e dei colleghi è filtrata dall’ironia che si ritrova spesso negli aspetti paradossali delle relazioni scolastiche, proprio per questo vitali e vivaci. Ma il libro è soprattutto una descrizione delle sfaccettature che ogni rapporto uomo–donna possiede e di quanto sia difficile coniugare eros con sentimento, comunanza di interessi con sensibilità, il romanticismo con la banalità della vita a due quotidiana. E’ un’opera, in cui ci si possono riconoscere tutti, ad ogni età: ora immedesimandosi nell’adulto narratore il professore, ora nelle sue conquiste femminili o infine negli studenti.
Il libro è scritto bene: Nuccetelli ha un’ottima padronanza dell’italiano e dalle pagine traspare la sua profonda conoscenza e il suo amore per filosofia e i suoi esponenti.