Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors

Verso le nebbie

Svuota
Quantità

Le terre del nord sono crudeli.

L’autunno è breve, e l’inverno morde con zanne di ghiaccio e vento. Jarren lo gnomo è preoccupato per l’arrivo delle nevi, la sua vita da girovago e menestrello ha avuto un momento di quiete al suo arrivo nella città portuale di Acquascura, ma le cose si stanno facendo complicate ed è arrivato il momento di andarsene. Ma come sopravvivere da solo all’inverno nelle terre selvagge?
Exer è uno studioso, un accademico dalle misteriose doti. Viaggia accompagnato da un animale mostruoso, forse un lupo o forse qualcosa di peggio. Potrebbe essere lui la soluzione ai problemi dello gnomo cantastorie? L’offerta di un rapido viaggio verso la capitale è allettante, anche se la fama della città non conforta Jarren. Il Porto delle Anime, Gloor Kay, è sede di mausolei e culti religiosi, una città di segreti e complotti. Sprofondata nelle nebbie perenni della Desolazione, la capitale del Kay nasconde qualcosa che l’uomo ammantato di nero brama ardentemente, e che Jarren non sospetta minimamente possa segnare profondamente la sua vita.

Le terre del sud sono crudeli.
Primavere piovose ed estati torride in cui il sole martellante batte sull’incudine di steppe aride e desolate. L’immane esercito dell’Impero sta terminando la conquista dei nove regni di Raeon, e il sovrano è ad un passo dal diventare l’unico dominatore del continente. Cal Ronal, Testa dell’Idra e Generale Scarlatto è a capo di una schiera di soldati che devono sfondare le prime difese del sultanato di Bas. Ma sebbene l’esercito del Sangue immortale sia sempre stato vittorioso, gli astuti e folli dervisci delle terre meridionali non intendono cedere le proprie terre senza combattere, e non useranno alcuno scrupolo per ottenere la vittoria.

Dal profondo nord all’estremo sud le sorti di tutte le genti di Raeon dovranno plasmarsi attorno alle gesta di pochi individui, molto lontani dall’essere eroi ma con un grande destino all’orizzonte.
Tutto comincia con un viaggio verso le nebbie…

mappa di raeon verso le nebbie

 

 

PROLOGO

Lyara sentiva il suono di quella tempesta come una nota

bassa, un rumore percepito pi. dallo stomaco che dalle orecchie.

Quella sera alla locanda avrebbe avuto un sacco di lavoro

da sbrigare, se la pioggia fosse arrivata sin sulla costa. Tutti i pescatori dei villaggi vicini

sarebbero saliti in città, e se anche i più squattrinati si fossero fermati nei

quartieri bassi, in molti avrebbero risalito il colle fino alla

locanda di Otar. La pioggia voleva sempre dire più guai

che altro, per una cameriera.

Il vento spazzava il ripido vicolo, l’abito leggero svolazzava

frustandole le caviglie pallide. Sebbene Lyara

fosse poco più di una bambina, già da anni aiutava l’oste

alla locanda. Era alta, graziosa e sapeva come trattare gli

uomini dalle mani troppo ardite. Le sue gambe da cicogna,

lunghe e magre, la portarono in fretta alla Piazza del

Principe, al termine della salita. Quando si fermò ansimava,

e sentiva che nonostante l’aria fresca e carica di umidità

la camicetta le si incollava alla schiena per il sudore.

Poggiò la gerla che portava sulle spalle, e si avvicinò al

parapetto della Piazza, concedendosi un istante per ammirare

la città ai suoi piedi. Scrutò l’orizzonte fin dove poteva

giungere il suo sguardo.

Acquascura era forse la più importante città che si affacciasse

sul golfo, tanto che quel tratto di mare aveva ormai

assunto lo stesso nome. Nonostante questo, il centro

abitato era situato ad almeno un miglio dalla costa vera e

propria, su di un colle ripido e solitario che si alzava dalle

terre ondulate del Kay. Mura robuste circondavano il borgo,

e dentro di esse le case si affollavano e si accatastavano

seguendo il pendio. Nella piana antistante, tutto intorno

alla cinta muraria, erano nati nel corso degli anni molti

altri edifici. La città si era sviluppata parecchio da quando

il Principe aveva costruito le mura, ma le abitazioni nuove

si riconoscevano subito: i tetti di paglia e le mura di legno

indicavano che gli abitanti di quelle zone non erano

nobili signori o ricchi mercanti, ma agricoltori e manovali.

La piazza era proprio in cima alla collina, l’antico centro

dell’abitato. Accanto a lei c’era il Palazzo Principesco,

massiccio e appesantito dalle fortificazioni, mentre intorno

si alzavano le mura austere delle magioni nobiliari.

Non erano grandi quanto il Palazzo, ma le loro vetrate colorate

e le balconate adorne ne facevano dimore di gran

pregio confrontate con la semplice funzionalità delle casupole

della città bassa.

Lyara si lisciò la gonna, inspirando l’odore della pioggia

in arrivo. Non aveva dubbi, la tempesta sarebbe giunta

su Acquascura in poche ore, e lei avrebbe dovuto badare a

un numero probabilmente pi. che doppio di avventori.

– Scommetto che a lui il temporale non causa il minimo

problema – mormorò guardando il Palazzo Principesco.

Da anni ormai il Principe non c’era più, sostituito dal

Sire, il Reggente Imperiale, ma a Lyara piaceva immaginare

lo sfarzo e il lusso della corte prima della guerra.

Alla sua nascita le truppe imperiali erano già molto lontane

a sud, e la gente si era da tempo abituata al nuovo conio

e al nuovo governo, ma l’immaginario legato alla corte

ereditaria era ancora vivido.

Lasciando correre lo sguardo a nord, Lyara abbandonò

le sue sciocche considerazioni. Era una cameriera di taverna,

non una principessa, e sapeva bene che non sarebbe

mai stata accolta a Palazzo. Avrebbe fatto bene a finirla

con quelle stupide fantasticherie.

Lontano il mare era una linea color ardesia contro il

verde cupo dei campi. Poteva quasi distinguere la curva

chiara delle spiagge, e i puntini candidi dei pescherecci

che rientravano al porto per attraccare.

– Tutti clienti per Otar, poco ma sicuro – sbuffò.

Un lampo più vivido degli altri illuminò l’orizzonte, e

pochi istanti dopo si fece sentire un tuono, questa volta

forte e pieno. La superficie del mare in lontananza era increspata

dagli acquazzoni, rendendo sfocata la linea di

confine tra terra e cielo.

– Oh, Dei, non mandateci troppi ubriachi, questa sera.

Nubifragio.

Quella era la parola giusta. Non era solo pioggia quella

che cadeva dal cielo. Sembrava che il mare stesso volesse

rovesciarsi sulla terraferma, e a quanto pareva la

gente non aveva immaginato nulla di meglio della locanda

situata più in alto sul colle per sfuggire al diluvio.

I lampi si susseguivano rapidi, solcando le nubi in

rami abbaglianti. Le acque del golfo rumoreggiavano tanto

che si udiva il loro tonfo sordo persino a quella distanza.

L’aria stessa era elettrica quella notte, e nessuno desiderava

restare solo in un tempo da lupi come quello.

– Altra birra, piccola! – chiamavano da un tavolo.

– Porta del formaggio, Lyara, e del pane! – da un’altra.

Elettricità nell’aria.

Non le piaceva.

Se c’era una notte in cui poteva scoppiare una rissa,

Lyara era certa che sarebbe stata quella.

La ragazzina si muoveva come un turbine in mezzo ai

tavoli colmi della sala comune. I boccali che aveva in

mano sembravano svuotarsi da soli, e faceva appena in

tempo a posarne uno su di un tavolo che la gente ne chiedeva

subito ancora. Dietro al banco la sagoma massiccia

di Otar sembrava avere mille braccia per servire la folla

di avventori che cercavano di ritagliarsi un angolo dove

poter appoggiare i loro boccali.

– Calmi, calmi! Che gli Dei vi fulminino, avrete tutti la

vostra razione! – gridava. Erano ore che Otar era costretto

a urlare così, e Lyara non sapeva come potesse avere ancora

fiato in gola. Le cuoche dalla cucina vociavano e facevano

suonare i campanelli per indicare che le pietanze

erano pronte, mentre Randyll, il garzone, non faceva altro

che trasportare giare di vino e barilotti di birra dalla cantina

al banco.

Continua a leggere
Continua a leggere

– Otar, versami altri sei boccali. Subito per favore! –

disse Lyara all’oste, senza preoccuparsi di controllare se

l’avesse udita.

Prese uno straccio umido e iniziò a pulire più in fretta

che poteva i bicchieri che teneva davanti a sé. Approfittò

del momento di pausa per osservare l’insieme della sala

comune.

Acquascura era situata nella parte più meridionale delle

marche del Nord, vicina ai passi meridionali per Nylamon.

La gente che frequentava la locanda era per lo più

nordica, con pelle e capelli chiari, ma qua e là la carnagione

scura e la chioma nera degli uomini del sud lasciavano

intendere che anche i mercanti meridionali preferivano

una bevuta in compagnia piuttosto che affrontare il

fortunale.

Da dovunque venissero, a Lyara non importava, fintantoché

rimanevano tranquilli.

Il vociare dai tavoli aumentò, e la ragazza con un sospiro

lasciò cadere sul banco lo straccio, raccolse i boccali

che per magia sembravano essersi riempiti da soli, e si

tuffò di nuovo tra i corpi accaldati degli avventori.

L’umidità toglieva il fiato. La sala comune della locanda

aveva il soffitto basso, attraversato da grandi costole di

legno scuro. Quella sera il fumo delle pipe e dei sigari degli

uomini ai tavoli era tanto denso da far bruciare gli occhi.

Ormai era notte fatta, il cielo aveva abbandonato le

tinte fosche del crepuscolo da un bel pezzo e se si fosse

potuta vedere oltre le nuvole, la luna avrebbe fatto capolino

vicina al culmine della sua corsa. Eppure, nonostante

l’ora tarda, la taverna era ancora piena.

– Larya, vieni qui! – grid. Otar, appoggiandosi ai battenti

basculanti che separavano la cucina dalla sala.

La ragazza si fece largo tra gli uomini, scacciando le

mani che si allungavano per tirarle la veste.

– Cosa c’è, Otar? – chiese, stizzita. La folla e la stanchezza

la rendevano nervosa.

– Fai attenzione, ragazza. Il livello della birra nella

botte giù dabbasso si sta avvicinando un po’ troppo al limite.

– E non ne sei contento, grosso bue? – disse lei, lanciandogli

uno sguardo tagliente come una lama.

Otar la afferrò per il collo, e la portò lontano dalla

sala. In cucina Setta e Larisa si muovevano come falchi,

ma sebbene non ci fosse pentola o padella che sfuggisse

alla loro attenzione non badarono al grande oste e alla ragazzina.

– Ascoltami bene Lyara – disse, con occhi pericolosamente

scuri. – L’ultima cosa che desidero in una notte

maledetta come questa, è avere una torma di avventori

mezzi ubriachi che mi distruggano il locale perché non ho

pi. birra da servire. Qui non arriviamo a chiudere i battenti,

se andiamo avanti di questo passo.

– E cosa intendi fare? – chiese lei, ignorando la posa

aggressiva di Otar. Non che l’oste fosse una persona gentile,

Lyara aveva già assistito alle sue discussioni con i

clienti che facevano storie. Teneva sotto il banco della locanda

un bastone liscio e grosso quanto il polso della ragazza,

e non si era mai tirato indietro dall’usarlo quando

era necessario. Una volta aveva persino percosso una

guardia cittadina, finché questa non aveva pagato il conto.

– Sai benissimo come fare, ragazza. Lascia molta

schiuma e non servire troppo in fretta quelli che hanno

già avuto la loro dose.

Layra fece roteare gli occhi – Tutti hanno già avuto

una dose, Otar. Anche due, credo.

– Quindi direi che ne hanno avuta abbastanza, di birra

– disse lui, con un sorriso tirato – Fai quello che devi, e se

ci sono problemi… beh, sai che fare.

Lyara annuì.

I problemi di solito alla locanda di Otar avevano una

sola soluzione.

Nella sala comune la gente rumoreggiava quando Lyara

vi tornò. La confusione era addirittura aumentata, e gli

avventori non defluivano come al solito, dato che la tempesta

là fuori non accennava a diminuire; quelli in piedi

erano numerosi almeno tanto quanto quelli seduti; molti

agitavano il boccale e bevevano. Alcuni addirittura si erano

assopiti (ma come potevano, si chiese Lyara, col fracasso

che c’era?) appoggiati al muro o stavano sdraiati negli

angoli dello stanzone, annegati nei fumi dell’alcol.

Un tuono lacerò il chiasso della sala come una lama

che taglia un lenzuolo, ma dopo qualche istante di timoroso

silenzio gli schiamazzi ripresero con rinnovato vigore.

– Dei, fate finire presto questa pioggia – mormorò a

mezza voce Lyara.

Un uomo dal volto paonazzo la fermò per il braccio,

rivolgendole uno sguardo annebbiato.

– Portami una birra, bella ragazza – il suo alito le ricordava

l’odore di una botte in cui fossero annegati dei

topi – Porta una bella birra al tuo paparino, che ne dici?

Lyara si divincolò, ma l’uomo la tratteneva, stringendo

la sua mano fino a farle male.

– Se mi porti una bella birra potrei anche tenerti per un

po’ sulle mie ginocchia, che ne dici? Le vuoi due coccole

da parte del tuo paparino? – l’espressione dell’uomo era

un misto di euforia e di scherno.

Con un ringhio Lyara afferrò la brocca dal tavolo e

colp. forte la tempia dell’uomo con il fondo spesso del recipiente.

Si udì un tonfo sordo, e gli occhi dell’uomo si

voltarono all’insù. Con uno schianto il suo capo cadde sul

tavolo, dove il suo labbro lasci. un filamento di bava vischiosa.

– No grazie, paparino. Sarà per un’altra volta.

Gli uomini al tavolo vicino, inizialmente interdetti, alzarono

i boccali e vociarono la loro approvazione allo spirito

della ragazza. Un’ottima occasione per un nuovo brindisi.

Pochi minuti dopo, Otar sollevava il corpo ciondolante

dell’ubriaco per sbatterlo di peso in strada.

Ormai la notte era profonda, quando dal bancone per

l’ennesima volta la voce di Otar richiamò. Lyara.

– Piccola, vieni un momento in cucina – le disse sporgendosi

a fatica con il suo ventre prominente al di là delle

assi umide del banco.

– Dimmi Otar, che c’è? – chiese lei con aria stanca, sedendosi

pesantemente su di uno sgabello accanto a Larisa,

che nel frattempo stava impilando le scodelle di zuppa da lavare.

L’oste le indicò il barile della birra.

– Guarda tu stessa. Questo barile . quasi finito, e stasera

ne abbiamo già fatti fuori due. In cantina ne rimane

soltanto uno. Com’è l’atmosfera di là?

Lei si stropicci. lo straccio tra le mani, cercando di

pulirle – Ci sono ancora parecchie persone, sedute. Alcuni

sono in terra, troppo sbronzi per ordinare ancora anche

solo un boccale, ma gli altri per quello che so potrebbero

andare avanti anche tutta la notte. Che cosa faccio, gli

dico che da adesso in avanti serviamo solo acqua?

– Non dire sciocchezze, Lyara. Una serata come questa

non ci capita più, te lo dico io! Piuttosto, credo che a questo

punto un po’ d’acqua nel barile non darò fastidio a nessuno,

non pensi?.

Lyara si pass. la mano tra i capelli – Che ora è?

– Un’ora dopo la mezzanotte.

– È tardi. E se li mandassimo via?

Setta, lì accanto, rise sguaiata. – Chiudere con questa

pioggia? Sei matta, Lyara! Quelli abbastanza sobri per

tornare a casa non metterebbero più piede qui dentro, e gli

altri sarebbero capaci di andarsi ad ammazzare sulle gradinate

per la città bassa.

Larisa sghignazzò con lei, mentre entrambe tornavano

a rassettare le stoviglie. Facile parlare per loro, pensò

Lyara, la cucina non è tenuta a rimanere aperta tutta la

notte.

– Se non possiamo avere altra birra, allungheremo

quella che rimane.

– Otar! – disse lei, battendosi la mano su una gamba. –

è contro la legge!

– Lo è solo se qualcuno si accorge della differenza.

Guardali Lyara. Sono più ubriachi dei parenti di Setta al

suo matrimonio. Potremmo dargli brodo di pollo invece

che liquore, e loro brinderebbero alla mia salute.

– Niente da fare grassone. Non finirò nelle segrete del

Reggente insieme a te.

Otar sorrise, sardonico.

– D’accordo, ragazza. Si dà il caso però che la cucina

sia rimasta a corto d’acqua.

Lyara guardò l’oste con gli occhi stretti.

– Devo tornare di là grassone disonesto. L’acqua per la

tua birra falla prendere a Randyll.

Gli occhi di Otar brillarono, e per un istante Lyara

ebbe il timore che potesse colpirla. Per quanto la trattasse

come un membro della famiglia, l’oste sapeva essere severo.

– Fila a prendere due secchiate d’acqua al pozzo, Lyara.

Con uno sguardo astioso, la giovane ragazza afferrò i

manici di corda dei secchi, e uscì sotto la pioggia.

Il temporale per sua fortuna stava placandosi, e gli

scrosci di pioggia non erano più così torrenziali. Sentiva

il suo abito leggero che le aderiva addosso come una carezza

gelata.

– Vecchio maiale! Che gli Dei ti portino all’inferno! Se

vuoi annacquare la tua birra potresti almeno andare al

pozzo sulle tue gambe – borbottò la ragazza.

Gli edifici della città alta erano scuri di pioggia, ma la

pietra bagnata rifletteva ogni luce, creando bagliori spettrali

nella notte intorno a Lyara.

Sospirando e proteggendosi al meglio dall’acqua, la

giovane corse con passo leggero su per la salita verso la

piazza. Si muoveva come uno spettro tra le case, facendo

ogni tanto sbatacchiare le due tinozze di legno che portava,

colpi secchi rapidamente inghiottiti dalla pioggia sul

selciato.

Giunse alla Piazza del Principe. Al centro era stato costruito

secoli addietro un piccolo pozzo, profondo e stretto,

che in origine serviva ad rifornire la fortezza costruita

dove ora sorgeva il Palazzo. Aveva un muretto basso, in

pietra, e un tettuccio di legno a cui era legato il piccolo

argano per calare il secchio. Lyara fece ruotare la manovella,

e il secchio discese nelle tenebre. Tirarlo su colmo

era decisamente più faticoso, e sebbene la pioggia l’avesse

infreddolita fino alle ossa quando ebbe finito di riempire

i due secchi di legno aveva le gote in fiamme.

Fermò con il gancio il meccanismo del pozzo, quindi

si adagiò sulle pietre, tirando un respiro profondo.

L’autunno stava arrivando con rapide falcate, e ben presto

le piogge sarebbero state frequenti. Non sapeva se avrebbe

retto una serata come quella, se si fosse ripetuta in futuro.

Sentiva l’orlo della gonna che le si arricciava sulla

gamba, mentre cercava una posizione pi. comoda sul muretto

di pietra, e con la mente annebbiata dalla stanchezza

lasci. i suoi sensi vagare.

Era consapevole di ogni rivolo d’acqua piovana che le

scorreva addosso, sentiva un ruscello freddo che le colava

lungo la schiena, il fastidioso gocciolare dalla gronda intasata

del pozzo che le colpiva la spalla, i piedi zuppi dentro

le scarpette di cuoio che indossava.

Sull’acqua, nei secchi di fronte a lei, si disegnavano

migliaia di piccoli cerchi, come se un’intera trib. di folletti

invisibili vi stesse danzando sopra.

La notte era silenziosa, il borgo della città alta deserto.

Inspirò a fondo l’odore ricco dell’aria umida, così pieno

dopo l’atmosfera fumosa della locanda. Sentiva che almeno

un po’ della tensione si scioglieva, la rabbia nei

confronti di Otar si stemperava, lasciando dietro di s.

solo la sensazione di una stanchezza terribile.

Era strano sentire la città così quieta, nessuna guardia

a fare la ronda, nessun avventore che si metteva in cammino

verso casa. Nemmeno i cani abbaiavano quella notte.

Tutto era calmo.

Nel momento in cui Lyara stava quasi per assopirsi,

però, un urlo agghiacciante risuonò tra gli edifici di pietra.

Un grido terribile, un lamento così disperato da farle

portare d’istinto le mani alle orecchie.

Il cuore le galoppava nel petto, frullando come una

rondine in gabbia. Cos’era stato? Da dove veniva?

Tra le vie si spense anche l’ultima eco di quel suono

lancinante, lasciando un silenzio ancora più greve dietro

di sé. Lyara stette immobile per qualche istante, finché

non fu scossa dai suoni di qualche imposta lontana, e da

qualche voce che chiamava per sapere cosa fosse accaduto.

Qua e l. si accesero delle luci, nelle case del paese, e

dietro i vetri Lyara vide comparire volti pallidi, intimoriti.

Nessuno, però, la raggiunse nella piazza.

Per le strade di Acquascura quella notte poteva esserci

chiunque, immaginò. Qualunque cosa, mostri che si muovevano

nella città deserta, tra le ombre illuminate dai riflessi della pioggia.

Un brivido la percorse.

Da dove veniva il grido?

Chi l’aveva lanciato?

Solo di una cosa si sentiva sicura: quello era il grido di

una persona che aveva incontrato la morte.

Raccolse i secchi, e dimenticando il freddo e la pioggia

mosse qualche passo verso il vicolo da cui era giunta.

E se chi aveva gridato non fosse morto?

E se avesse bisogno d’aiuto?

Lyara scosse con decisione il capo. Non erano affari

suoi. Non era una guardia, non poteva fare nulla se non

mettersi al più presto al sicuro. Senza dubbio anche alla

caserma e ai posti di guardia avevano sentito. Doveva

solo fare come quella gente dietro alle finestre, essere

cauta e non esporsi.

Però le era sembrato vicino. Molto vicino.

Lasciando cadere tutti i pensieri di prudenza, contro

l’istinto che le urlava prepotentemente di togliersi di mezzo,

posò i due secchi di legno a terra.

Percorse la piazza, fino a potersi sporgere dall’altra

stradina che vi si immetteva. Solo uno sguardo veloce, si

disse. D’altra parte erano pochi passi, e se avesse lasciato

i secchi lì sarebbe potuta scappare molto più in fretta.

Un singhiozzo.

L’aveva sentito distintamente, anche se la pioggia batteva

ancora sulle pietre del selciato.

Un vicolo poco distante si diramava dalla viottola,

stretto e scuro. Non era illuminato dalle lanterne, ma era a

pochi passi dalla piazza. Solo pochi passi da dove si trovava lei.

Seguendo il profilo del muro, protetta dal lembo di tetto

del palazzo al suo fianco, percorse con le gambe tremanti

quei pochi metri che la separavano dal vicolo.

Lanci. uno sguardo rapido, sporgendo la testa oltre l’angolo.

Tenebra.

Le ombre degli edifici circostanti inghiottivano qualunque

cosa ci fosse in quel vicolo.

Lyara inspirò a fondo, iniziando a pensare che fosse

una follia rimanere là. Era solo una sciocca ragazza curiosa,

peggio delle stupide servette delle nobili signore che

infestavano i palazzi lì intorno. Loro erano un branco di

stupide ochette, ma in quel momento sarebbero state ben

distanti dalla piazza, dai vicoli e soprattutto dalle ombre

in cui creature misteriose singhiozzavano…

Un suono. Un rumore soffocato, come un gemito. Poi

forse un passo, il tacco di uno stivale. Il cigolare del cuoio.

Un lampo improvviso illuminò la notte, trasformando

la strada buia in un dipinto in bianco e nero che si fissò

nelle iridi di Lyara.

A pochi metri da lei.

Un uomo, in piedi.

Fermo, di fronte al fagotto scuro che era la sua vittima.

Fermo, con lo sguardo fisso verso di lei.

Lyara non potè trattenere un urlo, un grido che rimase

strozzato dalla paura che le attanagliava la gola.

Le ombre tornarono a colmare il vicolo, ma la ragazza

terrorizzata sentì i passi dell’uomo dirigersi verso di lei,

sempre più vicini, sempre più veloci.

Le stava correndo incontro.

Le gambe della cameriera erano diventate di pietra,

due inutili appendici che la tenevano ferma in quel punto.

Da qualche parte nella sua mente sapeva che si stava

comportando come una lepre terrorizzata, che forse era

tardi per scappare, ma che correre via più veloce che poteva

sarebbe stata la cosa pi. furba da fare in quel momento.

Quella parte del suo cervello per. non era quella

che governava le sue gambe, ancora immobilizzate dal panico.

Percepiva la corsa dell’uomo verso di lei, solo pochi

istanti e mi sarà addosso pensò Lyara.

Sentiva sopra la pioggia il raschiare del suo respiro, lo

schioccare del suo mantello.

Era su di lei.

Un calore intenso, febbrile, emanava dal corpo scuro

dell’uomo. Lyara vedeva la sua sagoma che usciva dal vicolo,

come una nube di tenebra. Un mantello dalle larghe

falde. I passi veloci, ma incerti.

Il suo respiro era un ansito, raschiava l’aria come un

pezzo di corteccia polverosa. Caldo. Ardente.

Un paio d’occhi si fissò nei suoi, in quell’istante. Il

suo viso era un’ombra, ma gli occhi di quell’uomo catturarono

la luce delle lanterne lontane, brillando di luce

propria.

Lyara sentì che finalmente le sue gambe si scioglievano,

anche se quella consapevolezza giunse come ultima,

flebile informazione prima che il suo corpo si accasciasse

al suolo privo di sensi.

Le voci concitate di molti uomini la circondavano. Un

brusio confuso intorno al suo capo, poi ebbe la sensazione

di essere abbracciata. Qualcuno la stava sollevando.

Lyara aprì gli occhi, le palpebre potevano anche essere

fatte di piombo per quanto le era difficile tenerle sollevate.

Davanti a lei c’era il volto grasso e rassicurante di

Otar. Era lui che l’aveva raccolta dal suolo. I suoi radi capelli

erano incollati al cranio, lo sguardo perso nelle caverne in cui

sembravano sprofondati i suoi occhi. Intorno

a loro una coppia di lanterne illuminava l’incrocio, facendo

danzare le ombre.

Lyara seguì la direzione dello sguardo dell’oste, che

ora era ammutolito. Anche coloro che erano venuti con

lui stavano in silenzio. Capì immediatamente perché.

Nel vicolo, dove in precedenza stava ritto in piedi

l’uomo, giaceva a terra riversa una persona. Il fagotto che

aveva intravisto nella luce del lampo era un cadavere.

Fece fatica a capire che si trattava di una donna, data la

sua posa innaturale. Stava distesa sulla schiena, così arcuata

e contratta da sembrare sul punto di spezzarsi. Le

braccia erano sollevate come a coprire il capo da un urto.

I gomiti ossuti ricordavano a Lyara dei rami spezzati. Le

mani erano rigide come il resto del corpo, le dita ritratte

come in un istante di agonia.

Se possibile, però, il volto della donna era anche peggio.

Gli occhi sbarrati erano rivoltati, e non mostravano

l’iride. Aveva le labbra tanto contratte da rivelare le gengive

annerite e una chiostra di denti che sembravano d’avorio

nella luce eterea della notte. Sulle guance incassate gli

zigomi erano lame d’aratro che solcavano il volto. Un rivolo

di bava schiumosa si stava mescolando alla pioggia,

cadendo sulle pietre scure del vicolo.

Emise un gemito.

Non era morta.

Sconvolta da quell’orrore, Lyara svenne di nuovo.

Al suo secondo risveglio, la giovane si trovò in un letto

caldo. Era asciutta, e calda. Non era nella piccola stanza

che divideva con Setta e Larisa, però. L’arredo non le

diceva nulla, anche se il mobilio era di legno pregiato.

Intorno a lei diverse figure si alzarono, vedendo che

stava riprendendo conoscenza. Ormai il sole era sorto, ma

Lyara non avrebbe saputo dire che ora del giorno fosse.

Lentamente riaffiorò alla memoria il motivo per cui era

svenuta, e il suo stomaco si contrasse.

Ricordava il grido nella notte.

Ricordava l’uomo nero che bruciava come un demone.

Soprattutto, ricordava il corpo rattrappito della donna

riverso nel vicolo.

Vide, chino su di lei, un uomo dagli abiti di lana e velluto.

Sul suo colletto brillava una spilla dorata che ancora

non riusciva a mettere bene a fuoco.

Cercando di schiarirsi dalla nebbia dell’incoscienza, si

rese conto di dove fosse: il Palazzo dei Principi. Se non

fosse stata tanto sconvolta, si sarebbe messa a ridere. Alla

fine ce l’aveva fatta, ci era entrata.

– Lyara, mi senti?

La voce che la chiamava non era quella di Otar.

– Lyara, ti senti meglio? – una mano maschile, calda e

morbida la accarezzò sul viso. Di certo non era la mano di

Otar. Le sue erano piene di calli e di bozzi.

– Dimmi, piccola: che cosa è accaduto ieri notte nel vicolo?

Lei si voltò verso di lui, cercando il suo volto.

Come aveva intuito prima, non erano soli. Tante figure,

uomini e donne, si stavano assiepando intorno al suo

giaciglio. Vide al fianco di alcune figure la forma allungata

del fodero di una spada.

Lei aprì la bocca, ma non le venne alcuna parola.

– Lasciatela respirare – disse una voce femminile. – Indietro,

non accalcatevi!

Madre Tamea, del Tempio. Sicuramente era lei.

Sentì un tocco fresco ora, sulla fronte.

– Cosa ricordi, piccola incosciente? Dicci, che cos’hai

visto nel vicolo ieri notte?

Lyara si concentrò. Non era sicura di voler ricordare

quel particolare.

– Oro… – disse, con voce asciutta. Si schiarì la gola.

– Quell’uomo… aveva occhi d’oro.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

Ancora non ci sono recensioni.

Recensisci per primo “Verso le nebbie”

[scrapeazon asin="8899557063" height="600" width="100%"]
Condividi
Tweet
WhatsApp
Lorenzo Zampieri
Lorenzo Zampieri è un chimico di 40 anni, da sempre appassionato di inchiostro e parole. La scienza è il suo lato pragmatico, la narrativa fantastica la sua occasione di evadere dalle regole della nostra realtà. Da sempre lotta per far uscire il fantastico dalla sua nicchia, e donargli la stessa dignità artistica della narrativa contemporanea. Le sue storie non sono per ragazzi, e nemmeno per adulti: sono avventure per tutti coloro che vogliono vedere cosa c'è oltre la membrana monocromatica della quotidianità.
"Oltre il Velo" è il suo secondo romanzo, seguito di "Verso le Nebbie".
Lorenzo Zampieri on FacebookLorenzo Zampieri on Wordpress
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors