Tutte le grandi storie iniziano con un viaggio.
Dovetti arrendermi a quel pensiero, mentre le mie dita tamburellavano nervosamente sul tavolino del sedile di fronte a me.
Avevo sfogliato ognuna delle riviste disponibili, più e più volte, fino quasi a consumare quelle pagine lucide e colorate, ed avevo cercato a più riprese di appassionarmi alla lettura del libro che avevo con me, senza risultati apprezzabili. Il tempo sembrava essersi inceppato.
Avevo anche provato ad iniziare una conversazione con il mio compagno di viaggio, ma non avendo il coraggio di fare domande specifiche, le risposte di Tarek si esaurivano in pochi monosillabi.
No, neanche quello fu un buon modo per distrarmi.
Guardai fuori dall’oblò dell’aereo. Il panorama era lo stesso da molte ore: tutte le tonalità del blu, che schiarivano scendendo verso l’orizzonte, per poi tornare intense appena iniziava la linea dell’oceano.
Anche il paesaggio era monotono: ormai avevo dato fondo a tutte le mie scorte di pazienza, ed ora anche la razionalità reclamava appigli a cui aggrapparsi, spiegazioni che non osavo chiedere, per sopportare il lento scorrere dei minuti.
Chiusi gli occhi, abbandonandomi ad un limbo di pensieri, senza un filo logico a dargli ordine: raschiai la memoria alla ricerca dei ricordi della mia infanzia, dell’ultima giornata trascorsa con la mia famiglia e dell’ultima bevuta con gli amici prima di partire. Frammenti di una vita da cui stavo scappando, che mi sforzavo di ordinare in quel variopinto turbine di immagini e sensazioni, con l’intento di imprimerli a fuoco nella mente e non rischiare di separarmene.
Quando finalmente l’aereo terminò il rullaggio, dopo essere atterrati all’ aeroporto di Vancouver, mi accorsi che fuori stava piovendo.
L’odore metallico della pioggia arrivò alle mie narici con violenza, mentre scendevamo la scaletta dell’aereo.
Guardai in alto: c’erano pochi sprazzi di cielo libero dalle nuvole, ancora illuminati dall’ultimo scorcio di sole al tramonto, e avevano un colore tutt’altro che comune. Intorno a quegli squarci opalescenti, le grosse nuvole gonfie di pioggia si rincorrevano, rendendo caotico quello spazio che dal basso sembrava infinito.
Nessun aggettivo mi sembrava adeguato a rendere appieno giustizia a quello spettacolo.
Rimasi così impalato alla fine della scaletta, a contemplare il cielo con il naso all’insù: tutto ciò sembrò incuriosire Tarek, che si fermò ad osservarmi.
Il suo sguardo era davvero enigmatico: lo avevo colto di sfuggita, sull’aereo, mentre spremevo la mia pazienza e adesso, mentre mi osservava sorridendo, sentivo i suoi occhi indagatori trapassare la mia mente come lame ghiacchiate.
Udii il suo risolino discreto: probabilmente stava cercando di comprendere il mio stupore, ma allo stesso tempo, si stava probabilmente sforzando nel trattenere una risata più fragorosa. Mi accorsi di essere proprio buffo, e mi sforzai di ricompormi, assumendo, per quanto possibile, un aspetto più controllato.
***
L’asfalto bagnato friggeva al passaggio degli pneumatici.
Mentre viaggiavamo, con Tarek alla guida, osservavo il paesaggio dal finestrino dell’auto: appena oltre il ciglio della strada, a meno di un metro, c’era la foresta.
Un reticolo di alberi selvaggiamente aggrovigliati rendeva quasi impossibile vedere ciò che stava al di là dei primi tronchi contorti.
Amavo i boschi, ma quello in cui affondava la strada sembrava minacciare l’auto su cui stavamo viaggiando, e mi dava un senso di claustrofobia. Dopo qualche minuto di quello spettacolo, il paesaggio mutò aspetto: la foresta si diradò, ritirandosi come una risacca marina, e declinando in altezza.
Le ultime sparute propaggini di quell’intricato labirinto verde si trovavano proprio a ridosso delle prime file di case basse e tutte uguali.
Eravamo entrati in città e, mentre mi voltavo per un’ultima occhiata agli alberi più indietro, sospirai. Mi sentii quasi sollevato, ma non durò molto.
Passata la claustrofobica sensazione che mi aveva lasciato la visione del bosco fui raggiunto da un altro sentimento che fino a quel momento era rimasto sopito.
Sentii lo stomaco contorcersi, stretto da una morsa d’acciaio: fece il suo esordio l’ansia, preludio alla paura, inarrestabile e sinuosa nel suo lento risalire le mie membra. Il battito del mio cuore si fece talmente rumoroso che Tarek dovette accorgersene, nonostante la musica e il sottofondo di rumori della macchina.
“Rilassati, Harvey, stai andando benissimo!”.
Tarek aveva rotto il silenzio.
Lo guardai, e il mio sguardo dovette confermare i suoi sospetti sul mio imminente crollo emotivo.
Di quel viaggio, a conti fatti, non sapevo quasi niente: com’era ovvio, avrei dovuto aspettare il momento in cui la ragione avrebbe richiesto di pagare il conto.
Persino mia madre, che all’inizio non mi aveva preso sul serio, non seppe trovare argomentazioni razionali per opporsi quando le dissi che sarei partito.
Non che non ce ne fossero, di argomentazioni valide per opporsi, ma credo che fino alla fine si aspettasse un mio ripensamento, oppure l’ammissione che era tutto uno scherzo.
La vita è fatta di scelte. Quante volte avevo sentito questa frase, e oggi, finalmente, lo stavo mettendo in pratica.
Non serviva soltanto per giustificare a me stesso quella decisione: nel mio caso, avevo trascorso gli ultimi anni a costruirmi un futuro professionalmente valido. Un’esistenza decorosa, e tranquilla: il salto nel vuoto che stavo affrontando mi esponeva, in caso di caduta, a conseguenze che non riuscivo nemmeno a immaginare.
Comunque, razionalità, ragione e quant’altro avrebbe potuto elaborare la mia mente, la strada verso la fine della vecchia vita e l’inizio di quella nuova era stata imboccata, ed ora mi trovavo in macchina con una persona quasi sconosciuta, diretto verso un futuro che non avevo mai immaginato si potesse concretizzare per me.
Ripensando all’espressione di mia madre, quando la salutai per l’ultima volta prima di uscire di casa, ebbi quasi un conato di vomito.
Per fortuna il rumore proveniente dalle ruote irruppe nell’auto, scuotendomi: avevamo lasciato la strada asfaltata e nell’abitacolo avvertii lo scricchiolio della ghiaia che veniva impastata con il fango dagli pneumatici, mentre imboccavamo un vialetto laterale.
Tarek si voltò verso di me, allargando ancor di più il sorriso, e con un cenno di assenso della testa mi fece capire che oramai eravamo prossimi alla meta.
Respirai rumorosamente, deciso ad allontanare, almeno per il momento, la paura.
Percorremmo circa un chilometro, forse anche meno, tra file di abeti e pini enormi, prima che una grande casa di mattoni rossi comparisse dietro ad una curva. Era imponente, sembrava uscita da uno di qui film dell’orrore di serie b.
Il vialetto aggirava un muro perimetrale, terminando di fronte ad un grosso cancello di metallo scuro.
Da questo, entrammo all’interno del cortile, dove un ampio patio a colonne si apriva davanti a quello che sembrava l’ingresso principale della casa: le finestre, di forma rettangolare, erano celate da tende più scure delle pareti esterne. Notai una debole luce giallastra filtrare da quelle del piano inferiore.
L’ampiezza del piazzale era delimitata dalla parte interna del muro, che collegava la parte destra della casa ad uno stabile della stessa fattura, dandogli un senso di continuità architettonica.
Dalla forma, dedussi che un tempo doveva essere stato un fienile, oppure una rimessa per gli attrezzi di un boscaiolo: la ristrutturazione ne doveva aver modificato le dimensioni, vista la chiarissima destinazione d’uso, confermata dalla porta d’ingresso carrabile e dalla luce stroboscopica arancione sopra l’apice destro della porta.
La parte interna del muro, visibile dal cortile, era decorata negli intervalli tra una colonna e l’altra, da alcune pale incise: notai le prime sulla sinistra dell’ingresso, che riportavano rispettivamente il simbolo dei Nizariti, e quella successiva, il glifo dell’acqua alchemica. Il simbolo di Mercurio era subito sulla destra.
Questi riferimenti così espliciti all’Alchimia non mi sorpresero: dopotutto, la setta degli Hashashin rappresentava, almeno nella parte a me nota, oltre che una fucina di guerrieri straordinari, una delle scuole più ferventi ed attive del sapere esoterico Arabo.
I Nizariti erano un sotto-gruppo, una setta se vogliamo, facente parte del ramo degli Ismaeliti: essi passarono alla storia come una elite di guerrieri micidiale, che operò diverse azioni di contrasto alle invasioni, fino alla loro presunta scomparsa, all’inizio della seconda metà del milleduecento, travolti dalla conquista operata dal figlio del grande Gengis Khan con la sua micidiale armata Mongola.
I simboli che qui erano riprodotti, erano gli stessi che i Crociati riportarono in Europa, spianando la strada del linguaggio occulto in quelle che poi divennero le scuole esoteriche del vecchio continente. La continuità della linea tradizionale, trasmessa oralmente e sotto forma del linguaggio dei simboli, crebbe e si sviluppò nel fertile terreno delle scuole occultistiche europee durante tutto l’alto medioevo, per poi essere definitivamente consacrata intorno al millecinquecento, periodo in cui fu adottata, sia nella parte simbolica che nella parte dei contenuti, dalle Massonerie e dalle scuole Rosacroce.
Prelevai la mia borsa dal baule dell’auto e mi avviai verso l’ingresso della casa: Tarek si occupò della macchina, avviandosi verso la porta del garage, che intanto si stava aprendo con un ronzio.
La porta fu aperta, inondando di luce l’ingresso: da questa, si affacciò una donna, facendosi incontro con un largo sorriso. La guardai negli occhi, e rimasi senza fiato: era una donna bellissima, non doveva avere più di trent’anni. I lunghi capelli castani le ricadevano a cascata sulle spalle, i fianchi erano cinti da una gonna al ginocchio, che ne fasciava le forme perfette. Mi osservava con i suoi grandi occhi blu, benevoli e sorridenti.
“Benarrivato Harvey” disse rivolgendomi il suo splendente sorriso.
“Grazie…” Balbettai, dirigendomi verso la porta spalancata.
Sbattei gli occhi più volte per abituarmi alla luce, mentre entravo nella grande sala illuminata. Un profumo di fiori e di incenso mi avvolse, e pareva emanare anche dalla donna che adesso si trovava al mio fianco facendomi strada.
“Il mio nome è Ester, è un vero piacere conoscerti”.
“Il piacere è mio, Ester” Ero in imbarazzo.
Un’altra persona si fece avanti: era un uomo imponente, dalla tipica pelle olivastra e i tratti mediorientali. Quasi subito ebbi la sensazione di averlo già visto e, improvvisamente, da uno dei cassetti stipati della mia memoria il ricordo dell’incontro affiorò.
Era l’estate del 1998 ed io ero in vacanza nel sud della Francia, ad Arles. Passeggiavo nel centro storico, e mi ero fermato ad osservare i simboli presenti sulle due colonne d’ingresso di un palazzo seicentesco. Quell’uomo, che ora stava dinanzi a me, era lo stesso che all’epoca mi si avvicinò, e con cui scambiai alcune parole circa i simboli e la loro appartenenza al linguaggio occulto con cui gli architetti lasciavano i loro messaggi.
“Sono contento di incontrarti di nuovo, Harvey Timbone. Ti ho seguito per un certo periodo ti tempo, anche se probabilmente l’unico ricordo che hai di me è quello di Arles, di fronte all’ingresso della Ville Damasquette” terminò la sua frase scomponendosi in un ampio sorriso amichevole.
“Erano Ulivi, e non Querce!” dissi io mentre tentavo di reggere il suo sguardo: non era facile, nei suoi profondi occhi verdi c’era una luce strana, un misto di saggezza e forza, che mi rimandava alla profondità del tempo. Non so spiegare a parole ciò che provai, ma di fronte a me, non si era palesato un uomo comune, di questo ero sicuro. Ne fui quasi intimorito, e indietreggiai di qualche passo.
“Naturalmente, non ne sono sicuro, è passato del tempo e…” queste parole mi uscirono a singhiozzo.
“Notevole, davvero notevole” disse lui mimando con le mani un gesto di approvazione.
“Io sono Selkide, e ti porgo il benvenuto nella nostra casa” aggiunse, spostandosi leggermente a sinistra ed accompagnando il suo movimento con un gesto della mano, quasi a mostrarmi la strada da percorrere per avvicinarmi agli altri ospiti dietro di lui.
Tornai in me, e mi mossi verso il centro della stanza: sul grande sofà, di fronte al camino, stavano seduti due uomini, che non sembravano troppo incuriositi dalla mia presenza, almeno non fino al punto di doversi alzare per ricevermi. Bearil ed Angel erano i loro nomi, e furono le uniche parole che pronunciarono, senza guardarmi, intenti a fissare il fuoco che crepitava nel camino.
“Finalmente!” una voce squillante mi raggiunse, scuotendomi. Mi affrettai a cercare per la stanza la fonte.
Seduta sui gradini di una grande scala di marmo bianco, che si arrampicava verso i piani superiori, c’era una ragazza dai capelli scuri, che mi osservava. In un lampo, con un movimento aggraziato e fluido, impercettibile all’udito, me la ritrovai di fronte intenta ad osservarmi.
Ebbi un moto di imbarazzo: mi sentivo arruffato e in disordine mentre lei, sgranando i suoi grandi occhi nocciola, scorreva la mia figura dalla testa ai piedi. Istintivamente abbassai lo sguardo mentre il rossore imporporava le mie guancie.
“Io sono Catherine. E’ un vero piacere averti qui. Sembri davvero stanco…” la voce divenne meno squillante, quasi bisbigliata.
“Beh, sai, io e Tarek siamo in giro da qualche ora. Pensa, un oceano, qualche continente…” il sarcasmo nella mia risposta serviva ad esorcizzare l’imbarazzo che mi stava assalendo.
“E’ meglio che tu vada subito a riposarti, sono certa che tu ne abbia più bisogno delle chiacchiere e dei convenevoli” non riuscii a rispondere niente di sensato.
La stanchezza fu quasi richiamata dalle sue parole, e mi travolse facendomi quasi vacillare: una fitta nebbia mi velò gli occhi, trascinando le figure intorno a me in un grigio impallidire.
Non ho altri ricordi della mia prima sera nella casa degli Hashashin, il primo giorno della mia nuova vita, e nemmeno di come arrivai nella mia stanza, dove probabilmente fui portato mentre già dormivo.
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