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Adesso il cielo brilla di più

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È l’estate del 2015 e il villaggio turistico di Alimini, in Salento, si prepara a fare da sfondo a primi amori, amicizie e ricordi che dureranno in eterno. Federico lo sa bene, per lui quel posto è come una seconda casa e, quando gli viene presentata Flavia, una nuova ragazza di Roma, resta immediatamente affascinato dalla sua energia positiva.

L’estate finisce e passano gli anni, ma l’amicizia tra i due è così forte che riesce a superare anche la distanza, rendendoli l’uno la spalla dell’altra.

Nella primavera del 2018, però, una notizia sconvolge la vita di Flavia: le viene diagnosticato un tumore alle ossa che, in breve tempo la porta via.

Insieme a lei, nel cielo scuro c’è una lanterna cinese che viene trasportata dal vento, pronta a illuminare la notte e i volti di coloro che la osservano. E poi c’è Federico che ha la necessità di mettere tutto nero su bianco, di raccontare, di ricordare quanto Flavia fosse magnetica e solare.

Flavia attraverso
i miei occhi

Agosto 2015. Non ricordo il giorno esatto – ci mancherebbe, sarei pazzo –, ma so che è stato un momento essenziale della mia vita. Quel giorno è stato un muro portante della mia futura casa tutta da costruire. Quell’estate ho incontrato per la prima volta Flavia Cianci. 

Ricordo tutto perfettamente, è stata una situazione strana e divertente allo stesso tempo: come ogni anno mi trovavo in Salento, nel villaggio estivo di sempre, Alimini 1; ero in teatro e Ludovica Pagliara, una mia amica, mi raggiunse per presentarmi le new entry nel nostro gruppo: una certa Ludovica e lei, Flavia Cianci.

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Da sempre, quando incontro qualcuno per la prima volta, raramente apprendo o ricordo al primo colpo il nome, le difficoltà aumentano poi se mi vengono presentate più persone. Ricordo che Flavia mi disse di provenire da Roma; da quel momento, ogni volta che la incontravo, la chiamavo: «Romaaa!». Sono andato avanti così per giorni, e lei faceva lo stesso con me: «Ehi, Bresciaaa!».

Mi piaceva, era un modo diverso di chiamarsi, era divertente. Poi mi ha subito preso, colpito: bellissima ragazza, aveva tredici anni al tempo, era simpatica, solare, sveglia, forte, decisa e determinata. Ho da subito avuto la certezza che fosse più matura delle sue coetanee. 

Un giorno, al bar sulla spiaggia del nostro villaggio, il Bikini Beach, dopo averla incontrata la salutai con: «Roma!!!», al solito modo, insomma. Ma con molta sorpresa, mi rispose a tono: «Ehi, Fede, non ti pare l’ora di chiamarmi col mio nome?», con la sua splendida e inconfondibile cadenza romana. Ero colpito e imbarazzato, c’era un problema: non me lo ricordavo! Iniziai quindi una prodigiosa arrampicata sugli specchi. «Va bene» risposi, aggiungendo che l’avrei chiamata col suo vero nome, e poi sono andato via. Cercai Ludovica, la nostra amica in comune che ci aveva presentato qualche giorno prima, per chiederle una volta per tutte quale fosse il suo nome, così che potessi fissarmelo in testa per bene. 

«Flavia!»

Passammo insieme solo una settimana, ma già ero certo che la nostra sarebbe stata una lunga e forte amicizia, una cosa rara, un’amicizia vera. 

Lei e il mio migliore amico Federico si avvicinarono molto, ma in un modo diverso rispetto all’amicizia che legava me e Flavia. Io allora mi trovavo in mezzo, come in un limbo: ero l’ago della bilancia. Dopo essersi messi insieme, provarono a far durare la relazione il più possibile, a distanza.

Non ho mai condiviso questa decisione, per il bene di tutti e tre. Non volevo trovarmi in mezzo a una relazione che sarebbe stata complicata, semplicemente avrei voluto evitare di dover prendere le parti di quelli che consideravo un fratello e una sorella. Ma non era cosa di cui preoccuparsi: era estate, erano felici e io lo ero ancor di più per loro due. Erano entrambe persone splendide che meritavano la felicità. 

Pochi giorni prima della mia partenza avevamo deciso di scattare una foto di gruppo, eravamo tantissimi. Io sono ritratto accanto alla persona a cui volevo più bene e alla quale tenevo di più: Flavia. Nonostante la conoscessi da una sola settimana, era come se le fossi amico da anni; in quel villaggio era tutto magico. Questa foto è diventata storia, ricordo, è l’unica dove siamo tutti insieme, ben visibili. 

Il 17 agosto del 2015 l’ho postata su Instagram e uno degli hashtag era ovviamente “#romaaaa”. Ci fu subito il commento di Flavia: ma te vuoi fa’ vivo, con un cuore alla fine. Ci eravamo salutati solo da tre o quattro giorni, ma la mancanza era già troppa per entrambi.

Da quel giorno non ho smesso mai di scriverle. Sì, perché io e Flavia ci sentivamo tramite WhatsApp tutti i giorni, o quasi. 

La nostra era una di quelle amicizie pure, senza segreti o inganni e per questo litigavamo spesso, nessuno dei due aveva peli sulla lingua. 

Lei, una ragazza dal carattere forte ed entrambi permalosi: il litigio era sempre dietro l’angolo. Solitamente il primo a farsi avanti per fare la pace ero io, sentivo che averla vicino era più importante delle discussioni tra noi, non avrei potuto perderla. Flavia stava attraversando momenti di alti e bassi nella sua storia con Federico. Il mio non era un ruolo semplice: ero amico di entrambi e non trovavo onesto esprimere un parere a favore o contro uno dei due. Avevo deciso di ascoltare, consolare e di promettere: «Passerà anche questa difficoltà!». Dentro di me la speranza era sempre la stessa: che i due si lasciassero perché ne stavano soffrendo troppo, e io con loro.

Fortunatamente Flavia aveva spesso l’opportunità di raggiungerci a Milano, non solo per incontrare me, ma anche la sua amica Carola e il mio migliore amico, nonché ragazzo del quale era ancora innamorata, Federico. Flavia aveva l’abitudine di organizzare i nostri incontri con largo anticipo. Nel caso in cui io non avessi potuto incontrarla per qualche impegno, se la sarebbe presa tanto da non rispondere più ai messaggi. Di conseguenza, da persona di buon cuore quale sono, mi liberavo per l’occasione e la andavo a trovare. Non per vedere Carola o il mio migliore amico (durante l’anno avevamo più volte occasione di incontrarci), ma per vedere espressamente lei. 

Ci raggiunse in Lombardia nel dicembre del 2015 e la visita fu stupenda: mi riempì il cuore di gioia, nonostante fossero passati pochi mesi si era già instaurato un rapporto profondo. Per l’occasione scattammo una foto di gruppo, anche se la si vede solo leggermente, è pur sempre un altro ricordo prezioso. Quando Flavia ci veniva a trovare, il viaggio in treno da Brescia a Milano lo affrontavo sempre con un po’ di emozione, non vedevo l’ora di vederla, era come se fosse un evento tanto atteso e lei fosse l’attrazione principale. 

Il momento dell’incontro fu magico! Mi sembrò di essere in un film, lei che mi correva in contro e io che la aspettavo piegato con le braccia aperte, e poi mi saltava in braccio. Che brividi, che emozioni. Un abbraccio caloroso che aspettavo da tanto, troppo tempo. Mentirei se dicessi di non aver mai provato nessun tipo di attrazione per lei: era una ragazza stupenda, dentro e fuori. Ad ogni modo, per motivi esterni per me incontrollabili, l’amore nei suoi confronti è sempre stato fraterno.

Ho sempre visto Flavia come una sorella minore, da difendere e proteggere sempre, da tutto e tutti, non volevo si facesse mai male, pensavo non lo meritasse. Nonostante l’ostacolo della distanza si facesse spesso sentire, cercavo in tutti i modi di donarle il meglio di me. 

Durante l’anno il nostro era un rapporto burrascoso, fatto di continui litigi e di immediati chiarimenti. Di una cosa però ero sicuro: non potevo fare a meno di lei. Flavia era il mio pane quotidiano, era la prima persona a cui pensavo quando mi accadeva qualcosa, positiva o negativa che fosse. 

Le telefonate ci aiutavano a soffrire meno della distanza, mi servivano a staccare la spina, a rivivere un momento magico anche solo per mezz’ora. Perché poi amavo la sua voce, il modo in cui mi parlava, il suo accento romano. Inflessioni e cadenze che ero abituato a sentire solo d’estate. 

Nel febbraio 2016 Flavia e Federico decisero di provare una seconda volta a stare assieme come una bella coppia felice; erano molto innamorati! Passato il primo anno la nostra amicizia era ancora più forte. 

All’arrivo dell’estate di quell’anno, intorno ai primi d’agosto, il gruppo di amici del villaggio Alimini 1 finalmente si riunì, Flavia compresa. Anzi, Flavia arrivò qualche giorno in anticipo, così che potessimo stare assieme una decina di giorni. Il mio cuore impazzì. 

Non eravamo simbiotici, avevo più gruppi di amici nel villaggio e volevo stare con più persone per non offendere e ferire nessuno – ma la persona con cui mi sentivo più a mio agio era sempre stata Flavia, infatti era con lei che volevo passare la maggior parte del tempo. 

Ricordo che in quell’estate il nostro rapporto si consolidò ancora di più. Di persona è tutto più semplice, soprattutto ad Alimini 1. 

Solitamente la mia permanenza in Salento era di circa tre settimane: arrivavo a fine luglio e me ne andavo due giorni prima di Ferragosto. Non che mi interessasse, non sono mai stato un grande festaiolo. Quell’estate però era tutto diverso. Flavia e Barbara – la sua migliore amica – avevano provato in tutti i modi a convincermi a rimanere qualche giorno in più e festeggiare insieme. E ce l’avevano fatta, alla fine mi ero convinto: cercai un alloggio dove rimanere per qualche giorno, provai ad allungare la mia permanenza nel villaggio, ma sfortunatamente i prezzi del trasporto e degli alloggi erano proibitivi e non mi andava di chiedere ai miei genitori tanti soldi solo per rimanere un paio di giorni in più. Flavia era arrabbiatissima, tanto da non volermi più parlare, ma le avevo promesso che ci saremmo visti molto presto a Milano. 

Era uno degli ultimi giorni di permanenza al villaggio, stavo giocando a racchettoni in spiaggia con Andrea – un carissimo amico di Milano – quando all’improvviso sentii un forte dolore alla schiena, come se qualcuno mi avesse tirato uno schiaffo: era Flavia. Mi lasciò il chiaro segno della sua “cinquina” sulla schiena. 

Mi girai di scatto e le dissi: «Ma sei impazzita?». 

«Fermati a Ferragosto, daiii» rispose. 

Le sorrisi e le presi la mano: avevo capito che ci teneva tantissimo. La sua “cinquina” si era trasformata in un abbraccio. Non aveva forse compreso che io ci tenevo più di lei, ma era impossibile per me rimanere. 

Un’altra estate giunse al termine e anche la magia di quelle settimane svanì, così come la relazione tra Flavia e Federico, ma questa volta in maniera definitiva. Come dicevo da tempo, però, ritenevo fosse la cosa migliore, anche se lei ne soffrì molto.

Nell’ottobre dello stesso anno Flavia decise di tornare a Milano, nonostante ci fossimo visti appena due mesi prima. Quell’anno salì in Lombardia molte volte, spesso insieme a Barbara, principalmente per le sue amiche. Nonostante non venisse direttamente per me – non mi stancherò mai di ripetermelo: mi avvisava sempre con largo anticipo e mi toglieva la parola nel caso in cui non l’avessi raggiunta per un saluto. Quindi sì, una buona dose di importanza la avevo anch’io. 

Il nostro abbraccio a Milano aveva tutt’altro sapore, un sapore speciale perché non ci vedevamo tutti i giorni come nel villaggio, ma sapevamo di doverci godere quell’unica giornata. Era un abbraccio caldissimo e fortissimo. Il nostro rapporto rimase sempre ferreo, anche se crescendo, purtroppo, con i molti impegni di entrambi, sentirci tutti i giorni come un tempo diventò molto più difficile. 

Quando ci sentivamo ne approfittavamo per raccontarci più cose possibili: parlavamo della scuola e delle nostre “cotte” adolescenziali, iniziando anche a fare programmi per l’estate che sarebbe arrivata. Ma una passione ci legava ancora di più: il basket. Lei ci giocava da sempre ed era la sua vita. Ed era anche la mia. Trovare qualcuno che avesse così a cuore la pallacanestro come me, per di più una ragazza, era una cosa sorprendente e affascinante allo stesso tempo. 

Ah! Quante volte cercai di organizzare una sfida tra di noi, ma non ci fu mai l’occasione. Nel villaggio Alimini 1 non c’era un campetto da basket e l’unica cosa che potevamo fare era arrangiarci a modo nostro: una palla da pallavolo, un cestino della spazzatura nella pineta del villaggio e nient’altro. Io, lei e due tiri a “canestro”. Con la scusa del basket tentavo di invitarla a casa mia. Con l’occasione di uno dei suoi numerosi viaggi a Milano, ne avremmo potuto approfittare per una sfida nella vicina Brescia: un attesissimo uno contro uno nel giardino della mia vecchia casa. Questo desiderio non siamo mai riusciti a realizzarlo, sfortunatamente, nonostante ce lo fossimo promessi molte volte. 

Così come io non sono mai riuscito ad andare a Roma a trovarla. L’ultima volta che sono stato nella capitale era nel maggio 2015, purtroppo ancora non  avevo conosciuto Flavia.

Il basket era la sua vita e il 51 era il suo numero. Le nostre chiacchierate erano sempre più frequenti, parlavamo di tutto: del più e del meno, di quello che ci accadeva durante la giornata e ci usavamo come valvola di sfogo, un pungiball sul quale picchiare forte e allo stesso tempo una spalla sulla quale piangere. Quando ci confrontavamo sul basket, mi parlava spesso dei suoi allenamenti, del suo allenatore e delle sue compagne. Era spesso arrabbiata con il suo coach, non ci andava per niente d’accordo ed era anche molto contrariata e stanca di dover affrontare un’ora di macchina per andare ad allenarsi. Per un periodo aveva anche pensato di mollare la pallacanestro: non ce la faceva più, non provava più le stesse emozioni e allenarsi era quasi diventato motivo di stress. Io cercavo di dissuaderla, sapevo che il basket rappresentava la sua più grande passione, così le consigliai di cambiare squadra o di parlare con l’allenatore. Ma Flavia era molto cocciuta. Mi disse che non c’erano molte squadre femminili e, soprattutto, non al livello al quale lei voleva giocare. Era veramente una forza della natura, lo riconosco, e per questo non accettavo il fatto che avesse intenzione di lasciare! Spesso mi inviava dei selfie prima dell’allenamento, quando era ancora in macchina: treccia ben fatta, pettinata a dovere e divisa indossata. Nelle nostre telefonate mi confidava di sentirsi “una sfigata”, ma io controbattevo immediatamente, aveva torto. A mio parere tutto con il tempo si sarebbe sistemato. 

Estate 2017. Era passato un altro anno, era di nuovo estate ed era di nuovo arrivato il momento di vederci. Come accaduto per le estati precedenti, purtroppo, anche per quel periodo non ci frequentammo molto: le persone da incontrare in così pochi giorni erano aumentate e, per come sono di natura, cercavo di ritagliare momenti con ognuna di esse. Quell’anno, poi, si era aggiunta una novità: una ragazza alla quale ero interessato e con la quale passavo molto volentieri il tempo. 

Capitava anche che incontrassi Flavia per caso in giro tra il villaggio e la spiaggia; in quelle occasioni non resistevo, mi fermavo e finivo per rimanere ore a chiacchierare con lei.

Ho un ricordo nitido di quell’estate e dei nostri incontri casuali: camminavo lungo il bar Bikini, dirigendomi verso un prato che era presente sul retro, quando per caso vidi Flavia e le andai incontro. Ci sedemmo insieme a un altro paio di persone sui tavoli all’inizio del prato. Eravamo uno di fronte all’altra. Appena arrivati lei aveva già allungato le gambe, poggiandole su quella che sarebbe stata la mia sedia. Una volta seduto mi offrii di farle appoggiare i piedi sulle mie gambe, ma come risposta ricevetti un: «No, sto bene così», con le gambe rannicchiate sulla sua sedia e i piedi poggiati vicini al sedere. Parlammo per un po’, era tardi, saranno state le 18:00, erano appena terminati i balli latino-americani e la giornata in spiaggia stava per finire. 

Durante quell’estate purtroppo Flavia ne combinò di tutti i colori. Il suo amore per Federico non accennava a svanire, come era ovvio, e tentava di riavvicinarlo in varie occasioni. Lui, però, aveva conosciuto una ragazza a Milano, con la quale aveva intenzioni serie. Questa situazione si rivelò particolarmente frustrante per Flavia, che iniziò a bere quasi ogni sera per non pensare alla sua situazione amorosa. Così facendo finiva inconsapevolmente per infastidire Federico, avvicinandosi a lui e tentando anche di baciarlo.

La nottata di Ferragosto fu forse la più complessa: tutti i gruppi del villaggio avevano organizzato grandi falò in spiaggia come da tradizione e l’alcool scorreva a volontà. Io ero già rientrato a Brescia, ma Federico mi raccontò l’accaduto il giorno immediatamente successivo. Quella notte Flavia si era ubriacata e aveva deciso di scomparire per molte ore.

Nessuno aveva sue notizie. Tutti i ragazzi del villaggio si erano mobilitati per andarla a cercare, avevano deciso di controllare anche se fosse in spiaggia, senza risultati. Fortunatamente poco prima dell’alba Lucio, il fratello di Barbara, l’aveva ritrovata: era un po’ provata dalla serata trascorsa. Barbara aveva deciso di portarla a casa con lei e di prendersene cura. Non abbiamo mai più parlato dell’accaduto, ma dentro di me so che stava affrontando momenti di grande sofferenza. 

Nei mesi successivi i nostri contatti diventarono sempre più scarsi a causa dei fitti impegni di entrambi, ma senza mai interrompersi. Tornò nuovamente a Milano e anche in quell’occasione riuscimmo a incontrarci; era la prima volta che con noi non c’era Federico. Non ricordo la data precisa, ma quel giorno è stato l’ultimo in cui vidi Flavia.

Ricordo che ero spesso arrabbiato con lei, perché le risposte ai miei messaggi erano sempre più rare. Non replicò ai quattro o cinque messaggi che le avevo inviato e a questi si aggiunsero le telefonate perse nel vuoto. All’improvviso la spiegazione, quella che non avrei mai voluto sentire, un tuffo al cuore mai provato prima.

Era l’8 marzo del 2018. Quel giorno, quel terribile giorno, mi trovavo in gita scolastica a Nizza con i miei compagni dell’ultimo anno di liceo. Mi trovavo in hotel con alcuni amici a bere vino e ad ascoltare musica, come in una gita qualsiasi. All’improvviso il mio telefono iniziò a vibrare: migliaia di messaggi consecutivi di Flavia. Mi scrisse che stava attraversando il periodo peggiore della sua vita, che i medici le avevano diagnosticato un tumore alle ossa. Non sentii più la musica e tutto intorno a me si fermò. Una volta realizzato, tentai immediatamente di chiamarla, ma non ottenni alcuna risposta. Si trovava in ospedale e aveva accanto a sé sua madre: non poteva parlare. Rimandammo le spiegazioni a qualche giorno più tardi. 

L’avevo sentita abbattuta, ma comunque fiduciosa e combattiva. Le avevano dato delle possibilità e stava lottando come un leone. Ero strabiliato dalla sua forza e dalla sua tenacia. Aveva appena sedici anni. Una potenza incredibile. Avevo sentito al telefono anche Barbara, la sua migliore amica, anche lei fiduciosa che tutto si sarebbe potuto risolvere per il meglio. Io forse ero l’unico che ci credeva poco, forse per il mio essere pessimista. Il mio presentimento trovò conferma una volta affrontato il tema con i miei genitori: mi dissero che il tumore alle ossa è generalmente aggressivo e che difficilmente ce l’avrebbe fatta. Ero a pezzi. Non avevo mai ricevuto una notizia del genere, non sapevo bene come reagire e come comportarmi. Ero impotente e la tristezza rimase per tutto l’anno. Era l’anno della maturità e non avevo possibilità di muovermi. Ero estremamente abbattuto, ma quando la sentivo tentavo di apparire forte e fiducioso, anche se purtroppo ero il primo a non crederci. E questa cosa mi faceva impazzire.

Iniziata l’estate del 2018 lei sembrava stare meglio, c’era anche l’opportunità che potesse tornare ad Alimini per qualche giorno. Scoppiai di gioia, una gioia che purtroppo non durò a lungo: ebbe una ricaduta e fu costretta a rimanere a Roma. Pubblicava fotografie su Instagram, come se nulla fosse e la amavo ancor di più per questo, voleva vivere una vita normale e nessuno aveva il diritto di vietarglielo. Nonostante i suoi sforzi, se si prestava maggiore attenzione alle fotografie, si poteva notare quanto fosse provata e magra, e che al posto dei suoi splendidi capelli biondi c’era una parrucca. Me lo aveva anche confidato, era così dispiaciuta di aver perso tutti i suoi bellissimi e lunghi capelli; la mia risposta era la stessa: «I capelli non sono un problema. Vedrai che torneranno come prima!». 

La sua situazione peggiorava di giorno in giorno. Non si reggeva più in piedi, si muoveva solo con l’aiuto della sedia a rotelle e aveva iniziato a non vedere più da un occhio. Avevo capito. Il momento stava arrivando, ma non volevo crederci. Non rispondeva più ai messaggi. 

Le scrissi per gli auguri il 26 dicembre del 2018, sperando che mi rispondesse. Così fece il giorno dopo, ringraziandomi con due cuori azzurri e un: «Ti voglio bene». Avevo il desiderio di sentirla al telefono e mi promise: «In questi giorni ti chiamo, giuro». Non è mai successo e quello è stato l’ultimo messaggio che ricevetti da parte sua.

Nel 2019 cercai di contattarla inviandole qualche messaggio, ma non rispose mai. Fino a quando, il 27 marzo 2019, durante un colloquio con la mia psicologa, il telefono squillò all’improvviso, era Federico. Non riuscii a rispondere, così mi lasciò un messaggio su WhatsApp: «Richiamami. È urgente». 

Appena terminata la visita, richiamarlo fu la prima cosa che feci e appresi in questo modo la terribile notizia. Ricordo che il cuore sembrava essermi finito in gola. Tornai immediatamente indietro dalla dottoressa per dirle: «Flavia è morta». Non piansi. Tentai di trattenere le lacrime fino all’arrivo a casa, entrai senza salutare nessuno, e corsi verso la camera di mia mamma. Appena mi sedetti sul letto in sua compagnia, esplosi in un pianto. 

È stato il colpo più grande della mia vita, non parlavo, non mangiavo. Era periodo di esami in università, e due giorni dopo aver ricevuto la terribile notizia avrei dovuto affrontare un esame. Ma non mi interessava più. Il mio unico pensiero era Flavia, volevo andare al suo funerale. Purtroppo, l’impegno in università ha avuto la meglio, non riuscii a darle il mio ultimo saluto. La stessa sera in cui ho appreso della sua morte, scrissi alla madre per farle le mie condoglianze; la sua risposta la tengo ancora come un tesoro: Non preoccuparti, Federico. Basta il pensiero. Flavia ti nominava spesso. Un abbraccio. Quell’ultima parte mi fece ritrovare la serenità. Significava che non aveva smesso di pensarmi. Parlava con gli altri di me, dell’importanza che ricoprivo nella sua vita e questa cosa mi riempiva di gioia. Immagino avesse smesso di rispondermi per non farmi soffrire, apprezzo molto il suo pensiero. 

Dalla sera della sua scomparsa non ho mai smesso di pensare a lei. Volevo che si conoscesse chi era Flavia per tutte le persone che le volevano bene. Pensai a un paio di idee folli, pazze, proprio come è mia natura. Come prima cosa avevo la ferma intenzione di imprimere la sua anima sulla mia pelle, un tatuaggio in suo onore per non dimenticare mai. La seconda idea era forse ancora più folle: far sapere a tutti che persona speciale fosse Flavia scrivendo la sceneggiatura di un film sulla sua vita, le sue amicizie, i suoi amori, la sua famiglia, le sue passioni. Ero consapevole che sarebbe stato difficilissimo, ma sentivo la necessità di scrivere su di lei e per lei. Volevo dare la possibilità anche ai miei sentimenti di non rimanere inespressi. Non passò nemmeno un mese quando, il 20 aprile, impressi sulla mia pelle il mio dono per lei: un angelo con la palla da basket tra le mani e il numero 51 sulla canotta . 

Era periodo di Pasqua e mi venne a trovare un mio caro amico olandese, Joris Bouman. Era ospite a casa mia, si trattava di un ragazzo con il quale avevo fatto uno scambio culturale in seconda liceo e con il quale ero sempre rimasto in contatto. È stato Joris ad accompagnarmi in negozio e non perse l’occasione di farsi tatuare anche lui: una rosa sul piede. Espressi il desiderio di avere accanto a me anche una seconda persona a me cara, Valentina. Non nascondo che ero spaventato, ma Valentina era al mio fianco a tenermi la mano.

In quegli stessi giorni iniziai anche a scrivere il mio film: sentivo come se per me fosse cominciata una nuova fase. Dovevo essere ispirato e avere tempo a disposizione. Sì, perché tra gli impegni di studio, il giornale con cui collaboravo e lo svago, il tempo per cimentarmi nella scrittura era assai limitato; nonostante fosse una delle mie priorità, almeno mentalmente, non lo era invece fisicamente. 

Avevo l’intenzione di dedicarmi completamente, anche per 24 ore al giorno a scrivere di e su Flavia. Provai a conciliare i miei impegni e appena riuscii non persi l’occasione di buttare giù qualche idea. Giorno per giorno, riga dopo riga, la sceneggiatura iniziava a prendere forma. 

Dopo l’estate, pensai che forse sarebbe stato meglio scrivere un libro per raccontare una vita così speciale e poi, magari, chissà sarebbe arrivato anche un film, ne sarei stato onorato, Flavia ne sarebbe stata onorata. 

Avevo tantissime idee per questo libro, volevo che rispecchiasse appieno la realtà, avevo intenzione di raggiungere la città natale del mio angelo, Roma, per conoscere più da vicino la sua vita. Poi, però, un viaggio improvviso mi impedì di raggiungere la capitale, così mi trovai a un punto morto: il libro proseguiva a rilento nonostante cercassi di fare del mio meglio. A ottobre dello stesso anno avevo scritto solo venti pagine, ma stavo lavorando con il cuore e senza alcuna esperienza pregressa.  

Dal giorno della sua morte avevo sempre tentato di mantenere un contatto con lei: una parola prima di andare a dormire, una semplice “buonanotte”. Era come il rifiuto dell’accettazione della sua morte, questo però alimentava la mia necessità di scrivere di lei. Iniziai ad avere dei rituali solo “nostri”, per non dimenticarla: prima di andare a dormire era immancabile un bacio sul tatuaggio che ho impresso sulla mia pelle in suo onore. Mi abituai anche a dare spiegazioni circa il disegno sulla mia pelle alle persone che, incuriosite, ne chiedevano il significato. Probabilmente, gran parte della curiosità scaturiva dal mio poco amore per i tatuaggi.

Per spiegare ai miei conoscenti la decisione di tatuarmi, decisi di pubblicare una fotografia su Instagram e scrivere: 

Sono sempre stato contro i tatuaggi, non mi sono mai piaciuti, ma poi è arrivata la svolta, me l’hai data tu. Tutt’ora non mi piacciono e non li vedo sul mio corpo. Però vedo te, volevo averti sempre con me. So che sei accanto a me, ogni sera prima di addormentarmi parliamo insieme. Volevo avere un segno di te sulla mia pelle, sulla mia anima e ce l’ho fatta. Un angelo perché tu sei il mio angelo custode. Una palla da basket perché tu ci giocavi, è la mia vita ed è la cosa che ci accomunava maggiormente. Il numero 51 sulla canotta perché, be’, era ed è il TUO numero. Mi manchi Flavia.

La mia vita si alternava tra esami universitari e l’esame per ottenere la patente di guida, impegni ai quali si aggiunse un viaggio oltre oceano. Deciso a sfruttare una rinata determinazione, pensai finalmente di tornare a Roma per qualche giorno, per conoscere Flavia un po’ più a fondo e con occhi diversi. Avevo l’intenzione di ascoltare diverse testimonianze e leggere negli occhi delle persone che mi avrebbero raccontato di lei. L’avevo sempre considerata come una sorella minore, è vero, ma mi resi conto di non conoscerla bene come desideravo. 

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Federico Bertoni
ha 22 anni ed è nato e cresciuto nella città che ama più di tutte: Brescia. Si è laureato in Scienze della comunicazione all’Università di Parma e ha collaborato con il quotidiano Bresciaoggi e con il Giornale di Brescia. Recentemente Federico è entrato a far parte di una startup della quale è a capo e nel 2022 si è appassionato al settore del commercio, dedicandosi all’esportazione di Gin. È da sempre appassionato di scrittura e sport, in special modo la pallacanestro. "Adesso il cielo brilla di più" è il suo romanzo d’esordio.
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