“Questa è per te, Scarlett. È la mia lama preferita, l’ho usata molte volte ma solo quando l’occasione era davvero importante. È ancora affilata come la prima volta. L’incisione l’ho fatta realizzare da un orafo, uno dei migliori, ma la finitura non ha poi così tanta importanza, è il messaggio quello a cui tenevo veramente. Ti voglio bene, piccola mia”. Ascoltò quelle parole nella sua mente attraverso la voce del padre, un ricordo indelebile. Gli occhi di Scarlett si fecero lucidi, e la cantina sembrò liquefarsi, allagandosi di tristezza. Tirò su la manica e diede un bacio al tatuaggio a forma di cuore che aveva sul braccio, un puntaspilli rosso e ricco di dettagli che aveva il compito di ricordarle il passato e il dolore che l’amore può infliggere.
Il silenzio là sotto era quasi perfetto, ma il suo acufene era capace di farle dimenticare la vera essenza del vuoto assoluto, della solitudine. Pensò che anche se l’avessero abbandonata nel punto più recondito dell’universo, avrebbe comunque sentito quel dannato fischio attraversarle il cervello.
Forse si trovava già nel posto più recondito dell’universo.
Si asciugò le lacrime, prese i lembi del panno e vi avvolse rapidamente il rasoio, richiuse il tutto in una scatola di mogano che infilò nel cassetto, all’interno di un mobile ben rifinito ma ormai devastato dall’insaziabile appetito delle tarme.
Si voltò, salì le scale in legno e dopo aver spento la luce, uscì dalla cantina. Il tanfo di muffa venne sostituito da un piacevole miscuglio di erba e di fiori. Nuvole grigie cominciavano ad addensarsi in un manto scuro e gonfio di rabbia. Si fermò a guardarle e vide un fulmine violaceo cadere al suolo in lontananza, disegnando un taglio profondo nel paesaggio. Le chiome dei cipressi oscillavano ascoltando il ritmo del vento, l’erba si ridisegnava spettinata dalle folate, che scompigliarono anche i suoi lunghi capelli biondo cenere.
Si accese una sigaretta e il fumo si alzò in volo. Amava starsene lì, nel giardino di casa, una piccola villa ben curata, costruita dal padre prima che lei nascesse. Le pareti esterne erano di roccia grezza, ma la cosa che preferiva era la scalinata che portava al primo piano. L’arco che la sosteneva era avvolto dall’edera, che con il passare del tempo si era appropriata del durissimo sasso appigliandovisi con tenaci tentacoli. Esisteva un legame particolare, unico, fra Scarlett e quella casa; un legame viscerale che le faceva pensare di essere sempre stata lì a camminare fra le stanze, a passeggiare nei corridoi, a osservare il paesaggio scostando le tende.
Alzò lo sguardo e vide che le finestre erano chiuse, eccetto quella della mansarda, all’ultimo piano, che era soltanto accostata.
Mentre fumava facendo tiri avidi, pensò a come l’ultimo anno fosse volato in fretta, da quando la sua lama speciale, quella utilizzata esclusivamente per uccidere, aveva assaggiato per l’ultima volta il sapore del sangue. Mentre i pensieri si facevano strada fra i ricordi, la prima goccia di pioggia cadde e la colpì in fronte, scivolando e sfiorandole l’occhio destro, come una lacrima d’acqua dolce.
Era arrivato il momento di rientrare. Schiacciò la sigaretta fra le dita costringendo la punta di tabacco incandescente a scivolare via dalla cartina e precipitare. Gettò il resto del mozzicone nel posacenere sul tavolino di ferro accanto a lei, e proprio mentre stava per chiudersi la porta alle spalle, un altro fulmine squarciò l’aria e un tuono esplose in un boato che mise in fuga uno stormo di cornacchie che, staccandosi tutte insieme dal ramo di una quercia, presero a gracchiare furibonde.
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