Mancava una settimana. Ignorare, pretendere che fosse tutto normale, vivere come se davvero avesse un domani. Ma man mano che si avvicinava la scadenza, la finzione diventava sempre più difficile.
Livia sospirò, sforzandosi di pensare al presente e di godere degli ultimi giorni che le erano concessi. Doveva solo impegnarsi un po’ di più. Era talmente brava a fingere, che riusciva davvero a ingannare se stessa.
“Mi sta da Dio.” mormorò, guardandosi nello specchio del camerino di prova.
Il bellissimo vestito firmato le cadeva alla perfezione. Come un guanto di seta fasciava il suo corpo sinuoso. Alzò i lunghi capelli corvini per vedere l’ampia scollatura che lasciava la schiena nuda fino alla curva dei glutei. Si morse il labbro. Eccola lì, quella strana macchia che le deturpava la pelle. Era sulla spalla sinistra, appena percettibile, si faticava a notarla, ma Livia sapeva che c’era e ne provava fastidio, soprattutto perché non se ne spiegava la ragione. A volte le pareva di scorgerci i contorni di una figura, come un tatuaggio che era stato abraso e rimosso. Ma lei non aveva mai avuto un tatuaggio, almeno, non che ricordasse. Quello che invece ricordava erano le frustate. Ormai era guarita, la schiena non ne portava traccia. Dentro però, lei conservava le cicatrici di ogni colpo che le era stato inferto. Era difficile dimenticare il reticolo di sangue inciso sulla pelle. Anche adesso ce l’aveva davanti agli occhi, vivido e reale come se fosse accaduto il giorno prima. Invece era passato un anno. Non aveva urlato. Non un gemito era uscito dalla sua bocca. Aveva stretto i denti mordendosi la lingua per non dare al mostro ulteriore soddisfazione. Livia soffocò i ricordi, inspirò a fondo un paio di volte e poi uscì dal camerino per darsi in pasto al seguito che l’aspettava. Un fischio l’accolse, provocandole un senso di disgusto. Kurt esprimeva la sua approvazione in maniera volgare, in linea con suo stile. Kristal invece, le lanciò appena un’occhiata. Sua sorella aveva sempre un’aria annoiata, da persona che ha visto e vissuto ogni genere di esperienza e nonostante la sua giovane età, poteva anche essere vero!
“Decente “commentò sbadigliando, per poi ripiombare nella sua apatia.
Livia era davvero tentata da quell’abito. Continuava a guardarsi nello specchio, cercando una ragione che la dissuadesse dal comprarlo. In realtà non aveva bisogno di scuse. C’era un motivo ben preciso, per cui non doveva uscire dal negozio con quel vestito. Fu Kurt a rammentarglielo. Sfoggiando la sua espressione da viscido pervertito, le scivolò accanto e con nonchalance le afferrò i glutei. Livia reagì come una furia. Scansò in malo modo il suo cosìddetto “fratello”, ingoiando a fatica una sequela di insulti per evitare di dare spettacolo. C’era proprio qualcosa che non andava. Più Livia guardava i suoi fratelli e più si chiedeva che diavolo avesse in comune con loro. In realtà, lei si chiedeva che diavolo avesse in comune con il resto dell’umanità… e gli altri.
”Magnifico” commentò la commessa, riportandola con la mente al dilemma vestito. Livia sorrise a mezza bocca.”Prenderò l’altro“ sentenziò, indicando una tunica nera con le maniche a sbuffo. Era sobria, elegante e noiosa. Livia distolse lo sguardo per evitare ripensamenti. Era il primo vestito che aveva provato, sapendo da subito che lo avrebbe comprato. Gli altri capi li aveva indossati per gioco.”Il sacco nero”, come l’aveva definito Kristal, l’avrebbe messa al riparo dalle attenzioni sgradite, e non pensava solo a Kurt… Gettò un’occhiata al sordido ragno. Per tutto il tempo, non aveva fatto altro che girare intorno alla commessa tessendo la sua tela. Kurt seguiva un copione collaudato fatto di moine, complimenti e modi impeccabili da perfetto gentiluomo. Livia represse una smorfia. Il viso pulito da bravo ragazzo e il costoso abbigliamento firmato aiutavano la messa in scena, ma il colpo da vero maestro arrivava quando mostrava il portafoglio gonfio, con la scusa di un biglietto da visita casualmente riposto assieme alla sfilza di carte di credito e il libretto degli assegni. Livia sentì lo stomaco rivoltarsi mentre assisteva all’ultimo atto della farsa: baciamano accompagnato dalla frase di commiato sussurrata con un tono mellifluo: “Aspetterò con ansia la tua telefonata“.
Era questa la parte più divertente della caccia per Kurt, l’idea che la preda di sua volontà si immolasse a lui, il predatore.
”Ti aspettiamo fuori” disse a Livia con aria compiaciuta “fa in fretta“.
Livia si rivestì in un battito di ciglia e calzò per bene i suoi inseparabili guanti.
“Mi può aiutare con la lampo?” chiese alla commessa che aspettava fuori dal camerino.
Appena la mano si insinuò per spostare la tenda, Livia l’afferrò salda, trascinando la donna di peso dentro al salottino di prova. La bloccò contro il muro, tappandole la bocca per evitare che gridasse. Livia leggeva sconcerto negli occhi della donna. Percepiva su di lei l’odore inconfondibile della paura. Provò un brivido di piacere attraversarle le vene mentre l’eccitazione cresceva. Ma si riscosse subito, tornando in sé.
Ormai usava il suo strano potere in maniera automatica e in tutta onestà, preferiva non domandarsi perché diavolo riuscisse a farlo. Livia non voleva sapere. Era solo una delle sue tante stranezze.
La ragazza restò immobile con lo sguardo fisso nel vuoto. La sua vita era sospesa. La sua vita dipendeva da Livia. Ucciditi; uccidi i clienti in negozio; torna a casa e stermina la tua famiglia; Livia poteva ordinarle qualunque cosa e la donna avrebbe eseguito senza protestare o battere ciglio. Questa consapevolezza le dava un senso di onnipotenza che la inebriava. Per restare con i piedi per terra e non strafare, Livia si era imposta una regola, che il più delle volte riusciva anche a rispettare: non fare agli altri ciò che non vorresti facessero a te. E anche questa era un’altra stranezza, perché ci voleva un discreto impegno per farle peggio di quanto non le avessero già fatto… Sentì il gelo lungo la spina dorsale e una morsa dolorosa attanagliare le viscere. Livia scacciò le ombre e triplicò gli sforzi per rovinare il gioco a Kurt.
“Guardati dai principi azzurri“ bisbigliò nell’orecchio della donna. “Molti sono orchi travestiti. Evita Kurt come la peste”.
Polverizzò il biglietto da visita e si preparò a concludere il lavoro.“Svegliati “le
ordinò.
La commessa si riscosse all’istante, con un’aria vagamente confusa. Guardò la carta di credito che aveva in mano, accigliandosi.
”Ho una certa fretta “cinguettò Livia con aria angelica.
Aveva un leggero cerchio alla testa, come da prassi. Scrollò le spalle e si guardò allo specchio. Vedeva sfuocato. Anche qui, tutto normale. Livia represse una smorfia, mentre sconfortata, tentava di mettere in riga i ricci ribelli della sua folta capigliatura.
La macchina rombava su per la collina. Kurt si divertiva a prendere le curve a tutta velocità facendo sbandare la macchina e seminando il panico nella corsia opposta. Kristal annoiata, come al suo solito, mandava tra uno sbadiglio e l’altro sms con il telefonino. Livia, la cui angoscia aumentava con l’avvicinarsi di casa, cercava con ossessione di rispondere a una domanda: perché non riusciva ad essere una perfetta imbecille come i suoi fratelli? A volte li invidiava.
La macchina inchiodò. La guardia all’entrata azionò il cancello automatico e Kurt riprese la sua folle corsa.
”Fammi scendere “sbottò Livia. “Voglio camminare fino a casa.”
“E’ quasi ora di cena “protestò Kurt.”Se fai tardi, lo farai incazzare. “ ” Sarò puntuale. “
“E’ quello che dici sempre, ma arrivi ogni volta per il rotto della cuffia.” “Che non vuol dire arrivare in ritardo “.
“Perdio! Falla scendere o non la finirà di piagnucolare “gridò Kristal, intervenendo nel battibecco.
Con uno stridio di freni e una nuvola acre di copertoni bruciati, Kurt pose fine alla discussione fermando la macchina. Livia fece appena in tempo ad uscire dalla portiera che l’auto ripartì sgommando. La seguì con lo sguardo finché sparì dietro una curva, e soltanto allora riuscì a rilassarsi. Anche se in maniera diversa, Kurt e Kristal le davano sui nervi.
Passo dopo passo, con grande fatica, Livia iniziò la passeggiata verso quella che avrebbe definito in ogni modo, eccetto casa. Eppure, vista da occhi esterni erano presenti tutti gli elementi per scrivere una favola: c’era una villa antica piena di fascino e storia, con grandi saloni da ballo e alti soffitti affrescati; un parco incantato che si perdeva a vista d’occhio; servitori a frotte pronti ad esaudire ogni suo capriccio. Livia avrebbe preferito essere povera in canna e vivere in una catapecchia. Magari…una casa diroccata con il tetto rosso…
Controllò il sole e affrettò il passo. La villa ormai era in vista e man mano che si avvicinava, il nodo che le stringeva la gola diventava sempre più stretto. Livia passò con un senso di oppressione attraverso il giardino all’italiana. Salì la scalinata monumentale mentre il disagio le assediava lo stomaco. Fissò pietrificata il portone intagliato. Allungò la mano verso il campanello, senza però trovare la forza per suonarlo. Voleva scappare. Desiderava fuggire e mandare tutti al diavolo. Liberarsi finalmente della paura e di quel senso di precarietà che si portava addosso, da quando aveva memoria. Ma non c’era un posto abbastanza lontano dove potesse sentirsi al sicuro.
La porta si spalancò di colpo.
”Bentornata a casa, signorina “ il saluto del maggiordomo pose fine ai suoi indugi. Livia inspirò a fondo e si lasciò inghiottire dalla casa.
Come se fosse una questione di vita o di morte, (e forse lo era per davvero) si lavò e si vestì a tempo di record e uscì di corsa dalla stanza, facendo di volata le scale. “Lui” non era ancora sceso. Il maggiordomo che aspettava fuori dalla sala da pranzo le dava la certezza. Livia tirò un sospiro di sollievo. Aveva rischiato di far tardi, di nuovo, e non voleva neanche pensare alle conseguenze. Cercò di calmarsi, mentre a grandi passi percorreva la tetra stanza per raggiungere il suo posto a tavola. Restò in piedi come tutti gli altri. Il cuore di Livia accelerò quando lo vide entrare. “Lui” avanzava con un passo marziale, sicuro e fiero, inghiottendo quella poca luce che ancora resisteva all’oscurità. Un servo gli spostò la poltrona a capo tavola, facendolo accomodare. Con un movimento imperioso della mano, “Lui” diede l’ordine e come scimmie ammaestrate tutti sedettero, dando inizio al solito rituale della famiglia felice riunita a tavola.
Alla sua destra sedeva sua moglie Olga, bianca cadaverica e con un’aria arcigna. Livia la chiamava la regina dei ghiacci, non solo per l’aspetto fisico, ma anche per il “calore” che emanava. Kurt, primogenito maschio e degno erede, occupava il posto alla sua sinistra. Il sordido ragno sfoggiava un’espressione tracotante, da perfetto psicopatico, e visto i geni e i comportamenti che già adottava, una brillante carriera da serial killer era in pratica spianata. Poi c’era Kristal, la secondogenita, eternamente annoiata. E dulcis in fundo arrivava Livia, l’imbucata. Nessuno glielo aveva mai fatto pesare, (la maggior parte del tempo veniva felicemente ignorata) ma lei era una figlia illegittima di madre ignota o quanto meno, ignota alla diretta interessata. Livia lanciò un’occhiata furtiva all’essere che sedeva a capo tavola e poi tornò a fissare l’impeccabile mise en pace davanti a sé. Che Olga non fosse sua madre era un dato di fatto, ma quante erano le possibilità che suo padre non fosse davvero suo padre? Non c’era alcuna somiglianza; niente che li accomunasse; diversi come il giorno e la notte. Questo la faceva ben sperare. Livia si crogiolava nella speranza di essere una trovatella, un’orfana, un’adottata. Si crogiolava nella speranza di non avere alcun legame con la gente con cui condivideva la casa. Il pensiero era rassicurante. Un servo le posò davanti un calice di cristallo interrompendo il filo logico dei suoi pensieri. L’aroma che si diffondeva dal bicchiere le stuzzicò il naso. Livia si scoprì affamata, tanto affamata.
“Lui” diede l’ordine. Tutti si alzarono in piedi e con i bicchieri sollevati intonarono il brindisi:
“Alla famiglia e al clan “.
Ogni sera lo stesso identico rito da quando aveva memoria e ogni sera, Livia aggiungeva in silenzio il suo tocco personale:
– Al diavolo la famiglia, al diavolo il clan, e fanculo a tutti i vampiri –
Bevve d’un fiato il sangue del suo bicchiere, augurandosi che l’indomani fosse la volta buona.
Cap. 2 Ultimo giorno di vita
Sangue. Ce l’aveva in bocca, ne era imbrattata. Fissò il corpo disteso sul pavimento. Non aveva voglia di accertarsi se fosse vivo o morto. Era stata maldestra, affrettata, stupida. Già le pareva di sentire i rimproveri aspri di sua madre. Il pensiero del suo malcontento mise anche lei di pessimo umore, rovinando un momento che avrebbe dovuto essere… Un urlo agghiacciante la riportò di colpo con i piedi per terra. La piccola stanza cominciava ad essere affollata: lei, il “forse cadavere” e il chiassoso ospite inatteso. Il suo grido rimbalzava sui muri, le forava i timpani, aumentando il malumore. L’arrivo repentino di sua madre richiamata dal frastuono, fece il resto. Le scoccò un’occhiata gelida che la fece sentire piccola e colpevole, più di quanto non si sentisse già. A sua madre era bastata un’occhiata per capire la situazione. Passò subito ai ripari. Si mosse con una grazia e una fluidità magnetica. Un istante prima le era accanto e un istante dopo, una testa rotolava sul pavimento e quel grido irritante cessò di colpo. Due vampiri, un corpo decapitato e un “forse cadavere”; la piccola stanza era decisamente affollata.
La testa le era rotolata ai piedi. Fissò gli occhi sbarrati pieni di orrore. Poi lo sguardo si posò sulla bocca spalancata. Le labbra incredule, ancora piene di vita, trattenevano un urlo lasciato in sospeso… Sangue. La stanza ne era piena, l’aria ne era intrisa, si poteva respirare…
Livia si svegliò di soprassalto. Da subito, si sentì aggredita da un malumore che non sapeva spiegare. Aveva sognato…forse. Si sforzò di ricordare l’ennesimo delirio della sua mente, ma gettò quasi subito la spugna. Ormai ci aveva fatto il callo. Di tanto in tanto, la sua mente si divertiva a rigurgitare frammenti che faticava a definire: ricordi? Elaborazione del suo controverso subconscio? Scherzi da prete? Sogni o ricordi che fossero, arrivavano, le sconvolgevano la vita e poi se ne tornavano beatamente nell’oblio, lasciandola a fare i conti con i postumi confusi di una sbornia, con l’aggravante di non aver toccato un goccio d’alcool. Livia digrignò i denti irritata. Se il buon giorno si vede dal mattino, si prospettava una giornata di merda!
L’orologio segnava le due. Il suo probabile ultimo giorno di vita era cominciato. Bloccò i pensieri e ricadde pesantemente sul cuscino, con il fermo proposito di riprendere a dormire e esorcizzare i cattivi presagi. Le occorreva solo una sana dormita e magari dei sogni felici. Fece una smorfia, dandosi della disfattista.
Lasciò la mente libera di vagare…
Sfogliava le pagine di un libro… di cui non ricordava il titolo e che non ricordava di aver letto… Eppure conosceva quelle storie a memoria. Ogni personaggio le era familiare. Durante le lunghe giornate di solitudine, aveva fantasticato di castelli inespugnabili e divorato le avventure di cavalieri e di streghe…Forse…
-Tisbe? Chi diavolo è Tisbe?-
Qualcosa le diceva che stava per scoprirlo.
– Tisbe.- Quel nome le vorticava in testa, accompagnando il sonno come una ninna nanna…
Il panico rendeva difficile pensare. Il fiato era corto per lo sforzo prolungato e l’aria bruciava in gola ad ogni respiro. Non avrebbe resistito ancora a lungo. Ricacciò le
lacrime e respinse con forza la rassegnazione che la paralizzava. Forse poteva ancora evitare la disfatta; forse non tutto era perduto. Doveva assolutamente ripiegare, usando le ultime forze per fuggire il più lontano possibile. Ma Ayami non le dava tregua, continuava a martellarla incessante, un colpo dopo l’altro, senza lasciarle respiro e senza lasciarle via di scampo. Un bagliore improvviso e accecante la costrinse a serrare gli occhi. Percepì l’impatto. L’aria divenne immobile, innaturale. All’iniziò sentì solo un formicolio sulla pelle, poi d’un tratto si alzò una vampata violenta e il corpo cominciò a bruciare. L’odore nauseante della sua carne divorata dal fuoco le riempì il naso, i polmoni, la bocca. Tentò di urlare, ma il calore intenso prosciugava ogni suono… Cominciò a sprofondare. I piedi, le caviglie, i polpacci e sempre più giù, inghiottita dalla terra famelica. Provò ad opporsi, ad artigliarsi, ma mani invisibili si aggrappavano al suo corpo impedendole di risalire, trascinandola sempre più a fondo… La stava seppellendo viva.
Il cuore batteva all’impazzata, martellava nel petto fuori controllo e rimbombava assordante. Urlò, implorò, maledisse, finché un senso di oppressione le strinse la gola, fino a farla tacere…
Mancava l’aria…
Non riusciva più a respirare… Stava soffocando…
Non riusciva più a respirare…
Tisbe si svegliò di soprassalto annaspando disperata in cerca d’aria. Le ci volle qualche secondo per realizzare dov’era. Chiuse gli occhi cercando di calmarsi. Non ne poteva più. Notte dopo notte, implacabile riviveva la stessa scena. I ricordi di quel maledetto giorno tornavano sotto forma di incubo a tormentarla. Forse anche questo era parte della punizione, un altro modo per torturarla, come nutrire l’ingenua speranza di avere prima o poi un finale diverso: aprire gli occhi e ritrovarsi finalmente a casa, nel proprio letto, con la vita di sempre, come se nulla fosse mai accaduto. Invece puntuale arrivava l’alba di Kendria, annunciando un nuovo giorno. L’inizio dell’incubo, quello vero.
Ker sdraiato al suo fianco si voltò per guardarla. Dolcemente le sfiorò il viso. La sua perfetta e bianca dentatura incorniciata dalle labbra rosso sangue, spiccava sinistra persino nel sorriso affabile. Tisbe rabbrividì.
“Lo stesso sogno? “le chiese Ker.
La donna annuì, voltandogli le spalle.
” Tisbe la vampira” così la chiamava Ayami. L’aveva detto che prima o poi l‘avrebbe spedita tra i suoi simili, e aveva decisamente mantenuto la parola. Cinque anni della sua vita le era costata la sconfitta. Cinque anni confinata nella terra dei succhia sangue. Ma l’incubo era quasi finito!
Rabbrividì quando i piedi scalzi sfiorarono il pavimento di pietra. Tisbe fu tentata di infilarsi di nuovo sotto la coperta di pelliccia, al riparo. Invece restò seduta, del tutto inerte, lasciando che l’aria gelida le sferzasse la pelle.
“ All’inferno, le fiamme della dannazione ti grigliano come un porco infilzato su uno spiedo” le ripeteva la sua rassicurante nanny. Si sbagliava, adesso poteva dirlo con certezza. All’inferno non ci sono fiamme, all’inferno si gela. A Kendria c’erano solo
due stagioni, il freddo con la neve e il freddo senza neve. Dio, come le mancava il sole di Elios!
Nel buio, Tisbe individuò la sagoma del camino, una bocca vorace spalancata di fronte alla grande alcova. Fissò intensamente la catasta di legno sistemata nel focolare e mormorò un incantesimo. Una fiammata si alzò e il fuoco prese a crepitare, rischiarando l’ampia stanza piena di eccesso e cattivo gusto. Ovunque c’erano mensole e tavoli sorretti da gargoyle feroci scolpiti nel legno. Volti malevoli che la fissavano, resi vivi ed inquietanti dal guizzare delle fiamme. Dall’oscurità riemersero anche i resti dilaniati dei suoi poveri vestiti, disseminati come cadaveri su tutto il pavimento. Tisbe bestemmiò tra i denti e si affrettò a cercare qualcosa per coprire il corpo nudo. Voleva tornare nella sua stanza senza morire congelata durante il tragitto. Individuò il suo scialle adagiato “incolume” su una poltrona e si alzò per recuperarlo. Non riuscì a fare un solo passo. Si sentì artigliare il braccio e con uno strattone trascinare di nuovo a letto… Cinque anni di incubo, cinque anni di inferno, che ogni tanto a loro modo offrivano anche qualche lato positivo. Tisbe chiuse gli occhi e si lasciò sfuggire un gemito. Soggiogata, implorò che i canini affilati di Ker le affondassero nel collo…
Livia si risvegliò. Gettò un’occhiata alla sveglia. Segnava le tre e mezzo. Sfogò la frustrazione dando qualche colpo al cuscino, con la scusa di sistemarlo al meglio.
– Fanculo ai sogni felici!- E tornò di nuovo a dormire…
Un castello… incuneato su una montagna come un cancro…
Volk sputò per terra disgustato “Perché non ti sbarazzi di quella cosa schifosa?” sbottò.
Con lo sguardo seguiva il flessuoso corpo della strega ammirandone la bellezza e il portamento elegante. Era facile capire perché il signore dei Ragnal avesse perso la testa per lei. Ma la creatura che la seguiva era tutt’altra cosa. Cercava di star dietro alla lunga falcata di sua madre, affannandosi per non farsi distanziare troppo. Inciampava continuamente nell’orlo del vestito, ma ogni volta con tenacia si rialzava e ricominciava l’inseguimento.
” Un abominio! Scoparti la strega te lo concedo, ma tenerne il frutto è sacrilegio “ringhiò Volk.
Ker gettò appena un’occhiata indifferente alla bambina e tornò a guardare con occhi rapaci la sua strega mentre passeggiava sugli spalti. Quella sgualdrina aveva di nuovo ignorato i suoi ordini e questo lo mandava su tutte le furie. Lo sbraitare di Volk era appena un fastidioso brusio di sottofondo, che aveva tutta l’intenzione di ignorare. Farsi trascinare in una discussione non rientrava tra le sue priorità, anche perché non c’era niente da discutere. L’argomento non lo interessava e il bersaglio di tanta animosità, ancor meno. Il suo ostinato silenzio sarebbe bastato a scoraggiare chiunque, ma conoscendo suo fratello, sapeva che avrebbe continuato a rompere, costringendolo a ribadire ancora una volta e in maniera chiara, che della sua opinione se ne sbatteva ampiamente.
Volk restò in paziente attesa di una risposta, poi alzò teatralmente le mani in segno di
resa .
“Questa è la dimostrazione di cosa accade ad un maschio, quando una femmina lo tiene stretto per le palle“ I guanti di cuoio scricchiolarono, mentre serrava i pugni per rafforzare il concetto.
Ker lo fulminò con lo sguardo. Un lungo cavernoso ringhio gli uscì dalla gola. Era un avvertimento a non andare oltre. Aveva concesso a Volk di parlare con franchezza, ma c’era un limite a tutto.
“Gloria al demone padre! Finalmente ho la tua attenzione. Tanto per la cronaca, ti riportavo solo le voci che circolano “disse Volk.
“Ci godi un po’ troppo nel fare “solo” il messaggero”
“Te l’ho detto come la penso…e anche i membri del consiglio non sono affatto contenti della tua decisione“
“Saperlo mi spezza il cuore “
“È un abominio! Tenerla in vita offende ogni divinità “
“Il tuo fervore religioso è commovente. È nato prima di sbatterti la figlia del prete, o la folgorazione è arrivata mentre eri tra le sue cosce?”
“Sai che ho ragione. La sua esistenza è contraria ad ogni legge. “ “ IO, sono l’unica legge che conta “ ringhiò Ker.
“Nessuno lo mette in dubbio“ all’ultimo istante, Volk ingoiò saggiamente il “ma” che stava per aggiungere. Ker non gradiva congiunzioni avversative quando si parlava della sua autorità.
“… Oltre al mostro, alcuni si sbarazzerebbero volentieri anche della strega” aggiunse con cautela. Tisbe era un altro argomento che rendeva il suo signore alquanto suscettibile.
“Sbarazzarsi della strega? Questa mi piacerebbe proprio vederla! Se non lo ritenessi impossibile, direi che i miei guerrieri hanno paura di lei.”
“Credono che ti abbia stregato “
Ker sorrise divertito” E tu cosa pensi?”
“Puttanate! Ma non capiscono e sinceramente, io neanche “
“Cosa c’è da capire? Tisbe me lo fa indurire. Ti sfido a trovare un solo maschio a cui non faccia lo stesso effetto. Siamo tutti stregati? “
Sul volto di Volk comparve un ghigno, ma poi l’espressione si fece di nuovo seria. “Davvero non capisco. Se non è la strega ad obbligarti…”
“Obbligarmi?” Il tono minaccioso di Ker invitava a scegliere le parole con più attenzione.
“Se non è la strega a… condizionarti, perché contamini il sangue dei Ragnal permettendo all’abominio di vivere? “
Lo sguardo di Ker scivolò di nuovo sulla “cosa” che zampettava dietro la sua favorita.
-Stomaco forte, una mente aperta e tanta pazienza- ricordò a sé stesso, soffocando una smorfia di disgusto. Finora nessuno, a parte Volk, aveva avuto il coraggio o la stupidità per contestare apertamente la sua decisione. Impazzito, stregato, annebbiato dalla fica di sua moglie, Ker ne aveva sentite di stronzate sussurrate nell’aria. I suoi guerrieri avevano le lingue più consumate delle prostitute di Naina e a volte,
pensavano solo con l’uccello.
“Perché ti ostini a tenere in vita il mostro? Stuzzica la tua perversione?”
…E poi c’era Volk. Irriverente, irritante, ma anche indispensabile come il sangue che scorre nelle vene. Alcune volte e questa era una di quelle, Ker avrebbe volentieri fatto ingoiare al fratello il suo sarcasmo, insieme ad un discreto numero di denti, canini inclusi.
“Perché non te ne sbarazzi?”
Volk lo faceva di proposito, Ker ne era convinto. Con un minimo di sforzo, la risposta all’ossessiva domanda suo fratello poteva trovarsela da solo, ma traeva un evidente soddisfazione nel mettere a dura prova la sua pazienza. Volk era pigro quando si trattava di pensare, non lo era altrettanto, quando voleva fare lo stronzo. Tanto valeva stroncarlo subito.
“La bambina è una strega in erba” disse Ker con un tono glaciale “solo per questo respira ancora” …
Qualcuno si muoveva furtivo nella sua stanza. Livia aprì gli occhi, ritornando di colpo alla realtà. Kristal stava saccheggiando il suo armadio. In previsione della felice dipartita di Livia, si era portata avanti il lavoro. Senza dire buongiorno o grazie, entrava e usciva dalla stanza con le braccia cariche di vestiti. La storia andava avanti da una settimana ormai. Livia sospirò. Se il buongiorno si vede dal mattino…
Livia guardò avida la signora anziana accendere la candela e segnarsi con la croce. Con un senso di curiosità scientifica, la imitò. Non era una credente. A lei i dogmi, le reliquie e le scritture rimanevano indigeste, per non parlare delle parole perdono, compassione e porgere l’altra guancia che cozzavano con la sua natura di vampiro. Ma tutto faceva parte della finzione e inseguendo una normalità che continuava sfuggirle, prendeva in prestito quella degli altri. Così cercò con lo sguardo il Cristo crocifisso che incombeva minaccioso dall’abside e interpretando il silenzio come un tacito lasciapassare (da che mondo è mondo chi tace acconsente), accese un’altra candela e si segnò di nuovo, simulando una maggiore convinzione. Si sentì osservata. Di nuovo quella presenza. Erano giorni che qualcuno la seguiva. Non facendo niente di interessante, Livia aveva dato per scontato la morte per noia del seccatore. Ma dopo tre giorni, l’inseguitore indolente ancora non ne voleva sapere di schiattare, e neanche sembrava intenzionato a desistere. Magari con un aiutino?
Livia si guardò attorno. Il seccatore non era nella navata inferiore. Alzò lo sguardo verso le balconate barocche, giusto in tempo per vedere con la coda dell’occhio qualcuno che si ritraeva.
-Riflessi veloci, ma non abbastanza.- Livia inspirò a fondo estendendo i sensi. L’odore preponderante era quello di candela e incenso. Riusciva a coprire la puzza ammorbante dei pochi umani intenti a pregare. Anche la sua ombra era umana, su questo non c’erano dubbi. Una nota acidula però, classificava l’inseguitore come un cacciatore. Perché la stava seguendo?
La tregua tra le razze reggeva. Tutte le parti si impegnavano con più o meno entusiasmo a farla rispettare. Ma un odio secolare non si vince nel lasso di qualche anno. Gli scontri e le spedizioni punitive erano praticamente all’ordine del giorno.
Poi, di tanto in tanto, ogni fazione sfornava un vendicatore solitario, a cui la tregua proprio non andava giù. Così le cronache si riempivano di vampiri bruciati o decapitati, Drake crocifissi e pelosi scuoiati vivi. Era il caso di preoccuparsi?
Livia si alzò e come un fulmine raggiunse la sacrestia. Le logge superiori erano interdette al pubblico. Il portale antico che celava la scalinata era stato forzato senza tanti scrupoli. Livia storse il naso e si fiondò su per le scale, sempre più ansiosa di conoscere la sua ombra.
Uscì sulla balconata e restò interdetta. In un angolo, con le spalle al muro, un ragazzino la fronteggiava impugnando un paletto di legno appuntito.
– E se fosse una trappola? E se lui fosse solo un’esca?- Livia si tese, mentre con un imperdonabile ritardo, si faceva sorgere il dubbio che forse aveva commesso un’imprudenza.
“Hai intenzione di infilzarmi?” Chiese guardandosi attorno sospettosa. “Dipende. Hai intenzione di dissanguarmi? “ Ribatté il moccioso. “Non mi nutro di poppanti “ rispose Livia piccata.
“Sono un cacciatore di vampiri “ ruggì l’umano pieno di orgoglio. Livia inarcò scettica le sopracciglia.
“Sono tre giorni che mi segui. Ti rendi conto ”Drake”, che se fossi un vampiro suscettibile avresti la gola squarciata? “
“Provaci “ la incalzò il ragazzino, mostrando minaccioso il pugnale che teneva nascosto dietro la schiena. Livia fissò gelida l’umano mentre nella sua testolina studiava il modo migliore per accettare l’invito. Pensò di cominciare mettendo a segno un bel gancio al mento, per stordirlo, seguito da un pugno alla bocca dello stomaco. Passo tre, sfilargli lo spiedino di mano e piantarglielo dove non batte il sole. Ma una seconda occhiata al patetico sacco d’ossa le fece cambiare idea, perché decisamente, l’impresa non valeva lo sforzo.
“Perché mi segui?” Chiese brusca. “Sei a caccia di cristiani? “
Livia aggrottò le sopracciglia senza rispondere. “Cos’è, oggi non li trovi appetitosi? “
E la domanda sorge spontanea: ma perché a certa gente piace così tanto rompere l’anima al prossimo? Livia notava la sua sconcertante capacità nell’attirare pervertiti, rompipalle e ficcanaso, nonostante facesse di tutto per farsi i fatti propri. Ne attirava di ogni specie. Questo apparteneva al genere “patetico insistente”, quelli che di primo acchito ti scoccia incomodarti per dar loro una lezione, ma che rompono a tal punto da farti superare persino la pigrizia. Niente le vietava di andarsene, infatti accarezzò il pensiero, ma poi, contro ogni aspettativa prevalse la curiosità e Livia restò ad osservare.
Al grido di : “La verità è scritta nel sacro libro”, l’umano tirò fuori da una tasca un libricino nero e da quel momento, fu del tutto incapace di avere pensieri propri. Quello che gli usciva dalla bocca cominciava con: “ Il sacro libro dice questo..” ; “Il sacro libro afferma quest’altro..”
Agli occhi immuni di Livia “il sacro coso” era un semplice volume stampato, ne percepiva l’inchiostro dozzinale e la pelle economica della rilegatura. Eppure aveva
trasformato un ragazzino petulante in un soldato; un altro imbecille pronto ad immolarsi per la crociata contro i vampiri. In tutta onestà, non si poteva dire che non fosse una buona causa, ma provando un certo gusto per la guerra santa, forse i cacciatori avevano esagerato un tantino. Ormai erano in guerra con chiunque e qualunque cosa. E di nuovo, la domanda sorgeva spontanea: a chi giovava tutto quell’odio? Livia sapeva che se nelle situazioni più disastrose adocchi qualcuno che sorride (e puoi star certo che c’è sempre qualcuno), due sono le cose: o ha trovato il fesso a cui appioppare la colpa, o sta ingrassando il conto cifrato alle Bahamas.
“…E il fatto stesso che sei un vampiro è già di per sé un peccato “concluse il cacciatore.
Di tutta la tirata, tra la parola libro e l’ultima stronzata, Livia non aveva registrato una sillaba. Però, aveva come il vago sospetto di non aver perso granché!
“Voi siete il male. Il sacro libro lo dice chiaramente”
L’incontro stava perdendo il suo fascino. Anche la curiosità, che le aveva fatto da anestetico, cominciava a soccombere di fronte alla repulsione. Livia non amava i corrotti dalla religione. Detestava l’incrollabile sicurezza con cui decidevano ciò che è bene o male, chi merita di vivere e chi di morire, ammantando tutto come volontà di Dio. E non puoi discutere se Dio afferma: “L’unico vampiro buono è quello con un paletto nel cuore”. In effetti, alcuni succhia sangue se la meritavano davvero una fine simile. Anche senza un consenso divino, Livia avrebbe contribuito alla loro dipartita con grande entusiasmo.
“Senti, Drake, accetta un consiglio” sbottò. Aveva perso fin troppo tempo e le mani cominciavano a prudere.“Non andartene a caccia da solo. Fuori è pieno di vampiri che non aspettano altro… “.
“Non so cosa farmene dei tuoi consigli “ l’apostrofò il moccioso.
Livia contò fino a dieci. Questo le permise di incassare la risposta sgarbata con una alzata di spalle.
“Credo nel libero arbitrio “mormorò.
Si dice che niente avvenga mai per caso, così per la bellezza di dieci secondi, Livia si sforzò di capire il senso dell’incontro, ma poi archiviò il cacciatore sotto la voce “stronzo” e tornò nella navata inferiore. Dava all’idiota al massimo qualche giorno di vita, giusto il tempo di trovare un vampiro abbastanza arrabbiato (cosa per niente difficile) da assecondare la sua inclinazione al suicidio. Gettò un’occhiata al Cristo crocifisso, per conferma, e pure lui sembrò d’accordo.
Quando mancava un’ora e mezza al tramonto, Livia uscì dalla chiesa. Aveva tutto il tempo di tornare a casa e rendersi decente per la cena.
Sentì un brivido attraversarle le vene: sangue. Ne captava il dolce e inconfondibile aroma. Le stuzzicava il naso, risvegliando in lei l’istinto di predatore. Però, dove c’è sangue al 98% ci sono vampiri. Di prassi, sarebbe andata spedita alla macchina come se niente fosse. Non rubare la preda, è legge tra i vampiri. A questa regola del vivere civile, Livia aggiungeva il suo dogma personale: farsi sempre i cazzi propri. Ma aveva come un presentimento e la sua maledetta curiosità voleva sapere se avesse ragione. Cominciò a seguire la scia. L’odore diventava sempre più forte. Come un richiamo a cui non sapeva resistere, l’attirava a sé. Livia si ritrovò davanti alla
cancellata chiusa del cimitero. Scavalcare sarebbe stato semplice, ma c’era ancora troppa gente in giro per usare l’entrata principale. Decise di seguire il muro perimetrale che racchiudeva il camposanto, e quando la curiosità stava per farsene una ragione, una quercia secolare le tolse il pretesto per desistere. Con un balzo, Livia si aggrappò ad un ramo che sporgeva sulla strada, si issò a forza di braccia, scavalcò il muro evitando il filo spinato e planò leggera nella parte antica del cimitero.
Strano, non avvertiva oppressione. Le rare volte in cui si trovava a girovagare per i cimiteri ne fuggiva come inseguita da fantasmi. Non amava quel misto di dolore e tristezza che aleggiava nell’aria; non amava quella cappa cupa e greve, che riusciva a penetrarla più di quanto le piacesse ammettere, portando a galla memorie lontane… Forse. Livia scosse la testa. L’immagine era guizzata nella sua mente così veloce, che non ne restava niente, a parte confusione e smarrimento per un’affermazione che non sapeva più giustificare. Poi c’era quell’impercettibile malessere… Livia scosse di nuovo la testa e si guardò attorno: tombe prive del carico di cordoglio, perché esaurito ormai da tempo immemore; statue spezzate e teste di angeli che giacevano nascoste dall’erba alta; cappelle che faticavano a restare in piedi, tanto che bastava una folata di vento per raggiungere quelle che erano già crollate; lapidi così corrose da essere pezzi di pietra informe, mentre su altre a mala pena si leggeva l’epitaffio. Agli occhi di Livia, il sentore dei fiori in putrefazione che appestava l’aria, esprimeva la morte meglio delle sepolture. Una leggera brezza le riportò la traccia di sangue. In realtà non le occorreva. Risate e battute oscene la guidavano al baccanale fuori luogo in pieno svolgimento. Livia contò quattro vampiri.
” Avanti, voglio vedere come pisci sopra al tuo prezioso libro “disse uno loro. “Se potessimo pisciare, lo faremmo noi per te“ commentò un altro.
La battuta stupida riuscì a strappare a Livia un sorriso. Non si poteva certo dire che il Drake non se le andasse a cercare! Durante il loro breve ed irritante incontro, Livia si era trattenuta dal dirgli in maniera chiara, dove se lo poteva ficcare il suo bel libricino. Si irrigidì. I festaioli avevano fiutato la sua presenza. Non giudicandola un pericolo, le permettevano di avvicinarsi. Livia era indecisa. In fondo aveva saziato la curiosità, e la saggezza le suggeriva di girare i tacchi e di andarsene, ma contro ogni logica proseguì, unendosi alla festa.
Cedrik, nonché suo sgradevole compagno di scuola, l’accolse con un sorriso malefico. Ovviamente non poteva mancare il suo seguito, gli inseparabili Tizio, Caio e Sempronio che la salutarono con un cenno della testa. Livia ricambiò i saluti senza molto entusiasmo. Di nuovo, con imperdonabile ritardo, si accorgeva di voler essere altrove. L’ultimo giorno si dovrebbe passare con i propri cari o in mancanza, almeno in compagnia di persone piacevoli e non… così.
Gettò un’occhiata al Drake per una prima conta dei danni. L’umano grondava sangue, aveva una gamba rotta, le dita spezzate, un paio di costole incrinate e una brutta distorsione ad un braccio. Considerando che i quattro vampiri se lo passavano come una palla e a turno lo pestavano, il ragazzino stava meglio di quanto si aspettasse. “Sei venuta a divertirti anche tu?” Chiese Cedrik compiaciuto.
“E … qual è il divertimento?” chiese Livia perplessa.
“Se pestare il moccioso non ti diverte, possiamo trovare qualcos’altro da fare insieme
“ propose il vampiro ammiccante.
Livia sentì lo stomaco rivoltarsi e la voglia di essere altrove tornò più impellente che mai.
“Ancora non afferro il divertimento” commentò laconica. “In compenso, vedo quattro vampiri che se la prendono con un poppante indifeso. “
“ Il poppante non è così indifeso “ protestò Tizio, rovesciando un sacco di juta per terra.
Livia contò due spade, quattro pugnali, una balestra e una trentina di frecce dalla punta rinforzata. Il Drake si portava dietro un vero arsenale, ma gli era servito a poco. “Anatomicamente, voi quattro siete dotati di cervello, ma non significa per forza che sappiate usarlo. Infatti l’evidenza dimostra il contrario. “
“Se non vuoi giocare, vattene “ le intimò Cedrik.
“È dovere di ogni vampiro mantenere la purezza della razza. “ cominciò a recitare Livia, mentre giocherellava con il cellulare. “È dovere di ogni vampiro denunciare comportamenti anomali o violenti, soprattutto quelli che possano destabilizzare il concordato tra le razze. Lasciate il Drake e tornatevene a casa. Se vi denuncio ai purificatori, non la rivedrete tanto presto.”
” Non lo faresti “ringhiò Cedrik minaccioso.
“Te la senti di scommetterci? “ Lo sfidò Livia ghignando.
I quattro vampiri cominciarono a prendere posizione per accerchiarla. Evidentemente, Livia non era stata abbastanza convincente. Schiacciò il tasto della chiamata rapida, sperando che fosse davvero veloce.
“Life Revolution “ rispose prontamente una voce femminile.
“Vorrei denunciare dei comportamenti anomali “dichiarò Livia senza scomporsi.
I succubi guardarono il capo in cerca di ordini. Cedrik alzò le mani, allontanandosi dal Drake.
“Lo sai che non finisce qui “disse minaccioso.
“Voglio denunciare Cedrik Deville” scandì Livia all’operatrice in attesa. “Le faccio lo spelling? “
Il terrore nello sguardo di Cedrik procurò a Livia un sadico piacere.
I vampiri non restarono a sentire il resto della telefonata. In un battito di ciglia si dileguarono, abbandonando bruscamente la festa.
“Tutto a posto, Livia?” Chiese la voce dall’altro capo del telefono.
“A meraviglia. Grazie dell’aiuto Melinda.” Livia pose fine alla chiamata sfoggiando un sorriso soddisfatto.
“Hai chiamato sul serio i purificatori?” Chiese il Drake con aria sofferente. “Mi taglierei le vene, piuttosto. “
Il cacciatore sbottò a ridere, ma Livia parlava sul serio. L’intervento dei purificatori aveva sempre delle conseguenze imprevedibili, per non dire tragiche. Quando si ha sfortuna di cadere nelle loro mani, puoi solo pregare perché la morte arrivi il più in fretta possibile. Lei ne sapeva qualcosa…
“Mi chiamo Robin” farfugliò l’umano tra un lamento e l’altro, come se a lei potesse importare qualcosa.
” Livia” bofonchiò Livia controvoglia, presentandosi per semplice educazione.
“So come ti chiami. Frequentiamo la stessa scuola. Da due anni ci incrociamo ogni mattina per i corridoi “.
Livia cominciava ad avere il leggero sospetto d’aver salvato uno stalker. Dunque: abbandonarlo o non abbandonarlo? L’umano era conciato da far schifo, non si reggeva in piedi e con una gamba rotta non sarebbe arrivato da nessuna parte. I suoi gemiti di dolore erano un richiamo irresistibile per qualsiasi predatore in cerca di una vittima facile, e Robin lo era, ferito o meno che fosse. Ora, parlando in tutta onestà: gliene poteva fregare qualcosa? Decisamente, no! Livia girò i tacchi e senza salutare tolse il disturbo. Ma dopo pochi passi i piedi si rifiutarono di proseguire.
Compiere una buona azione e sperimentare la gioia dell’altruismo: era nella lista delle cose da fare “prima o poi “. L’aveva inserito per curiosità. Anche mentre se lo annotava come promemoria, le era parsa una cretinata e i fatti non smentivano la convinzione, ma con ogni probabilità, questa era l’ultima occasione per spuntare almeno una voce, da un lungo elenco di cose lasciate incompiute. Il fatto che avesse salvato l’umano da quattro vampiri, non contava come buona azione. Livia era intervenuta solo per fare un dispetto a Cedrik. Fingere andava bene. Tutta la sua vita si basava sulla finzione, ma barare, no.
“Ti porto in ospedale “ esordì acida.
“I Drake non vanno in ospedale!” ripose il ferito con orgoglio. “Sfido! Col sangue vampiro fate i miracoli!” sputò Livia caustica. “Infami bugie” urlò il Drake… e a momenti moriva per lo sforzo.
Livia si morse la lingua. Se le fosse schiattato l’assistito, poteva dire addio alla voce buona azione. Così soffocò il malumore (assieme ad un paio di bestemmie) e afferrò il ragazzo per la vita. Represse un conato di vomito. Il contatto con un altro essere, di qualsiasi razza, la faceva star male. Livia portava sempre i guanti, ciò nonostante, limitava al minimo indispensabile gli incontri ravvicinati. Fu assalita da un altro conato, mentre rimetteva delicatamente l’umano in piedi.
“Hai una casa? “ chiese spazientita. “Abito dall’altra parte della città “.
Che dire? Non era proprio destino! Livia lasciò la presa senza preavviso e Robin ripiombò a terra in malo modo.
“Che diavolo ti prende?” piagnucolò l’umano.
“Mi è passata la voglia di aiutarti.” Mancava un’ora al tramonto e tanto per cambiare, Livia sarebbe rincasata per il rotto della cuffia. Non aveva nessuna intenzione di fare tardi. Tra l’altro, ora poteva dirlo con certezza: aiutare gli altri non procura gioia, ma solo un’infinità di rotture. Senza contare le malattie! Livia guardò i suoi guanti sporchi, elencando dalla a alla z tutto quello che poteva beccarsi.
“Portami al mausoleo dei Goliath” farfugliò Robin, mentre si contorceva per i dolori. Livia sospirò rassegnata. Volente o nolente, sta buona azione le toccava compierla, così afferrò di nuovo l’umano per la vita e sfilò tra le tombe con urgenza.
Arrivata alla meta, adagiò Robin su una lapide cercando di essere più delicata possibile.
L’umano appariva fragile, sul punto di disgregarsi. La missione di cacciatore non si addiceva alla sua costituzione delicata, che tra l’altro, lo faceva apparire più piccolo
di quanto non lo fosse. La barba gialliccia, come i capelli che sembravano un pagliaio, non aiutava, anzi, crescendo a chiazze, quasi controvoglia, rafforzava la convinzione che lui poteva impiegare la sua vita in maniera migliore. Tremava e ogni movimento gli costava dolore, ma si era buttato nell’ardua impresa di recuperare qualcosa che aveva in tasca. Livia dal canto suo indugiava. Ancora una volta, la curiosità le faceva dimenticare l’urgenza che la perseguitava. Guardò sconcertata il monumento funerario dei Goliath, con i suoi trecento anni portati male. Crepe, intonaco mancante, stucchi rovinati ed erbe solitarie che spuntavano nei posti più improbabili; quella pomposa costruzione in rovina era tutto ciò che restava di un’ambiziosa famiglia estinta da almeno cento anni. Eppure, qualcosa le diceva che quell’aria di abbandono era solo apparenza, quasi voluta. Livia si sentì stranamente attratta, ma non riusciva a spiegarsi da cosa o perché. Il massiccio portale a due ante era spalancato, ma restava a fatica al suo posto, per via dei cardini arrugginiti che avevano in parte ceduto. Ormai, solo una cancellata di ferro battuto difendeva gli antichi abitanti contro gli intrusi. Attraverso le sue sbarre, si intravedevano le statue di due angeli con le ali spiegate che reggevano un altare di porfido rosso. Più Livia si accaniva a scovare i particolari e più notava quanto l’insieme fosse sfuggente, finto, alterato. Scosse la testa. I suoi occhi cominciavano a giocarle brutti scherzi. Le immagini tremolavano, a tratti perdevano nitidezza apparendo inconsistenti. Era stata una lunga giornata e la fame e l’ansia pesavano sui sensi stanchi. Livia strofinò le palpebre e guardò di nuovo. Restò impietrita. Non c’era più niente. Dov’erano finiti gli angeli? Dov’era il cancello? Dentro al portale spalancato scorreva una cascata di luce ipnotica. Non aveva alcun senso. Livia chiuse gli occhi, contò fino a dieci e guardò di nuovo, fiduciosa. Niente da fare, l’allucinazione persisteva con ostinazione. Si avvicinò, tolse il guanto e sfiorò con i polpastrelli la cortina luminosa. Era consistente. Era come toccare un getto d’acqua gelida. Un formicolio dalla punta delle dita si propagò alla mano, facendola rabbrividire. Decise di osare di più e senza pensarci immerse il braccio. Percepì delle gocce gelate che cadevano cadenzate sulla pelle. Corrugò la fronte e si ritrasse. Livia guardò stupita i fiocchi di neve che si scioglievano nel palmo della mano. Incredula, alzò lo sguardo verso il cielo terso. Era la fine di maggio, con temperature quasi estive, da un mese non cadeva una goccia di pioggia e la neve poi, era merce rara persino in inverno. La parola “conseguenze” le martellava in testa. Di solito Livia prendeva molto sul serio gli avvertimenti. Quella vocina, che adesso si sforzava di mettere a tacere, l’aveva aiutata a sopravvivere … Ma la curiosità era troppo forte. Livia mandò al diavolo la prudenza e si immerse nella cascata di luce.
I muri della cappella scomparvero, sgretolati di colpo. Un’aria gelida la investì, spazzando via il tanfo di marciume che persisteva nel naso. Non era più nel cimitero. Dall’alto di un pendio erboso, Livia ammirò incredula la città bianca incastonata come una perla nella valle sottostate. La bruma che si alzava dal terreno aumentava il senso di irreale. Stava sognando, non c’era altra spiegazione. I ricci appesantiti dalla pioggia mista a neve cominciavano a perdere la loro piega. I vestiti bagnati aderivano al corpo in maniera soffocante e ad ogni folata di vento, rabbrividiva. Forse stava sognando, ma l’illusione era così reale da ingannare superbamente i sensi. L’odore di
erba bagnata le stuzzicò il naso. Livia sentì il bisogno di togliersi le scarpe e correre sul prato. Non lo faceva da tempo immemorabile. Il pensiero la sorprese, perché lei non aveva mai corso a piedi scalzi sull’erba, almeno, non che ricordasse. L’atmosfera magica, sospesa nel tempo, faceva riemergere le memorie di una vita lontana, una vita cancellata. Livia aggrottò la fronte, ma prima che potesse formulare qualsiasi pensiero, si sentì afferrare alle spalle e tirare indietro con violenza. A forza fu costretta a passare di nuovo oltre la cortina, portando con sé la sgradevole sensazione di qualcosa lasciato incompiuto; l’avevano svegliata da un sogno, proprio sul più bello, lasciandola orfana del finale. Rovinò per terra investendo in pieno l’assalitore. “Cosa diavolo sei?” gridò Robin.
Livia si rialzò infuriata. Aveva la sadica voglia di prendere a calci il ragazzino e continuare, finché non avesse esalato l’ultimo respiro. Però, qualcosa non quadrava. L’umano era conciato da schifo, non si reggeva in piedi, eppure si era avventato su di lei senza pensarci due volte. Livia registrò, senza capire, l’espressione di puro terrore sul volto di Robin.
“Cosa diavolo sei?” continuava ad urlare fuori di sé.
“Sono un vampiro. Pensavo che la cosa fosse ovvia “ringhiò Livia.
“No. Nessun vampiro è in grado di vedere la porta, figuriamoci attraversarla. Quindi te lo domando ancora: cosa sei?”
Tana per Livia! La rabbia venne spazzata via in un istante. Livia sentì il sangue gelare nelle vene. Cosa sei? Questa sì, che era una bella domanda! In fondo bastava insistere con la sua versione, volendo poteva mentire, ma quella domanda inaspettata sparata a bruciapelo l’aveva messa in crisi. Livia si sentì smascherata e negare l’evidenza le sembrò inutile. Si voltò e scappò via come una ladra colta in flagrante.
Cap.3 Data di scadenza
Colpi violenti alla porta. Cercavano di buttarla giù. Ad ogni urto il legno scricchiolava e i cardini si piegavano. Stava per cedere. La voce continuava a parlare. Le diceva qualcosa di vitale importanza. Continuava a ripetere un monito. Ma lei non riusciva a capire… Quello che era stata la sua vita, tutto quello che aveva avuto un senso, le persone che conosceva, le persone di cui si fidava, ora, erano solo immagini di gente estranea, di ricordi non suoi. I volti cominciarono a perdere nitidezza, le voci divennero solo un sibilo, un rumore di sottofondo. Tutto rimbombava nella sua testa lontano e ovattato. Tutto sbiadiva e come la nebbia, spariva dispersa dal vento… Aprì gli occhi. Vedeva sfuocato. La luce le diede fastidio e accentuò il mal di testa che la stava tormentando. Il dolore era pulsante, una stilettata dietro l’altra, incessante, senza tregua, da impazzire… La visione divenne più chiara. Una specchiera barocca le restituì il riflesso di una ragazzina dai capelli neri. Gli occhi blu intenso erano spaventati e confusi. Era lei quella nello specchio? Qual era il suo nome? Si sforzò di ricordare, ma la fitta alla testa aumentò diventando intollerabile. Chi era? Perché non riusciva a ricordare? Tempo scaduto!
La porta collassò in una pioggia di schegge. Dei vampiri vestiti di nero sciamarono dentro, le furono addosso, la immobilizzarono con la faccia a terra, le forzarono le
mani dietro la schiena. Perché? Chi erano? Cosa volevano da lei? Cercò di gridare, invocare aiuto, ma il terrore la paralizzava. Cominciò a piangere, mentre tutto attorno il mondo le crollava addosso. Solo il monito continuava ad accompagnarla, rimbombando con ossessione nella testa …
Livia si svegliò di soprassalto. Si coprì il viso con le mani -Non sono io la bambina dell’incubo, non sono io la bambina dell’incubo, non sono io la bambina trascinata via. – Dovette ripeterselo come un mantra, all’infinito, prima di convincersene appieno e scacciare il rigurgito fastidioso. L’odore pungente di sangue le solleticò il naso, costringendola a focalizzare la mente sul presente. Stava piangendo. Il cuscino era rosso delle sue lacrime. E di nuovo –Fanculo ai sogni felici!-
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.