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Angeli senza ali

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Quando la famiglia Zalesky viene divisa dalla deportazione nei campi di concentramento, i suoi membri sono distrutti dal dolore e ognuno lo vive in maniera diversa. Le esistenze del combattivo Rafal, del mite Jozef, di papà Adam e di mamma Sara vengono sconvolte dalla spietata ferocia e dalla disumana crudeltà dell’Olocausto. Tra Auschwitz, Monowitz e Ravensbrück le storie dei personaggi e gli avvenimenti reali si intersecano, offrendo scenari di solidarietà e amore, ma anche testimonianza della mostruosità del quotidiano nei campi di concentramento. Le vite di due fratelli diversi e due destini opposti si intrecciano fino a un finale commovente e pieno di significati.

Capitolo 1:
Juden Zutritt Verboten

Era un’alba buia e fredda, come tante nel ghetto di Lodz, una città posta al centro della Polonia a pochi chilometri dalla capitale, Varsavia. Era il secondo ghetto ebraico per grandezza tra quelli istituiti nel Paese dal Terzo Reich dopo quello, appunto, di Varsavia.

Era il dicembre del 1942, uno degli anni più drammatici della storia della Polonia, in particolare per gli ebrei che vi risiedevano.

Durante una solita alba, stretta nella fede e speranzosa di un futuro più giusto, la famiglia Zalesky recitava lo shaharit.

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Da ormai quattro anni Adam e Sara, insieme ai figli Jozef e Rafal, erano costretti a vivere in quel ghetto: con loro più di cinquecento famiglie stipate in uno spiazzo recintato da un’alta barriera di filo spinato antistante una sinagoga; ogni famiglia aveva con sé una quantità limitata di cibo, mobilio e vestiti. La gente viveva ammassata nelle baracche degli attrezzi, nei magazzini, nei solai, nei seminterrati, nelle cantine, nelle trombe delle scale e, qualcuno, nella sinagoga stessa. Ovunque c’erano letti.

In una situazione così eclatante, ai limiti di qualsiasi decenza umana, la famiglia Zalesky poteva ritenersi fortunata: a loro erano state assegnate due stanzette e una piccola cucina. Se si considera che spesso vivevano insieme anche sei, sette, otto famiglie, quella sistemazione era davvero di “lusso”.

Ogni ebreo, per essere immediatamente riconoscibile, doveva apporre sui vestiti un bracciale con una stella di David, la stella a sei punte che simboleggiava l’appartenenza al popolo ebraico, un esagramma che esaltava il Nara-Narayana, il perfetto equilibrio tra l’uomo e Dio.

La popolazione del ghetto fu progressivamente ridotta dalle disumane condizioni di vita e di lavoro. Centinaia di ebrei venivano malmenati, picchiati per le strade, nei luoghi di lavoro, addirittura uccisi, spesso senza validi motivi e senza che nessuno potesse protestare. Di tanto in tanto, veniva comunicato loro un nuovo divieto: divieto di accedere ai luoghi pubblici, inclusi i parchi e le piazze, divieto di posseder denaro al di sopra di una certa cifra, e molti altri.

Una delle vessazioni più frequenti era il taglio della barba e dei riccioli agli ebrei ortodossi, un atto che essi subivano come degradazione, venivano umiliati nella loro stessa fede, sconsacrati del nome di nazireo.

Quelle erano le leggi del ghetto. Quella era la triste vita all’interno del recinto. Umiliazioni, soprusi, perdita di qualsiasi libertà. Solo lavoro. Lavoro per le fabbriche tedesche. Dall’altro lato della recinzione c’era una schiera di soldati nazisti a sorvegliare quell’infame spettacolo. Chi transitava lungo il perimetro del recinto veniva schernito e deriso, stuzzicato con la canna del fucile e colpito con degli sputi.

Ogni comunità ebraica fu dichiarata illegale, le comunità locali vennero sciolte e fu ordinata la formazione di un consiglio ebraico con un presidente e ventiquattro membri. Il consiglio era incaricato di gestire la vita del ghetto e mantenere i rapporti con i tedeschi: aveva il compito di comunicare gli ordini impartiti dai nazisti e doveva provvedere all’assegnazione dei ticket per il pane e dei posti di lavoro in base alle esigenze dei singoli ghetti. A volte, i consigli ebraici decidevano di collaborare con i loro nemici nell’illusione che l’obbedienza e la fedele esecuzione degli ordini ricevuti spingesse i tedeschi a un comportamento più umano. Ma il reale obiettivo finale dei nazisti non era lo sfruttamento lavorativo degli ebrei, bensì il loro completo annientamento, prescindendo da ogni razionale calcolo di tipo economico.

A tal proposito, i dati sulla la mortalità all’interno dei ghetti erano disarmanti. Entravano quantità sempre più ridotte di cibo, provocando, di conseguenza, fame e denutrizione e il proliferare di malattie infettive, come ad esempio il tifo, che creavano epidemie mortali laddove persistevano gravi deficienze sanitarie e precarie condizioni igieniche.

Ciò che teneva uniti gli ebrei, ancorati a un filo di speranza nonostante quell’inferno, era la preghiera: il momento di maggior raccoglimento per gli internati del ghetto, quello durante il quale ci si sentiva veramente fratelli, era la recita dello shaharit, la preghiera del mattino, che riuniva la maggior parte dei fedeli nella sinagoga. Altri preferivano rimanere nelle loro “abitazioni” ma la preghiera era, per tutti, un qualcosa di imprescindibile. Quelle persone erano state cacciate dalle loro stesse case, umiliate e ammassate come bestiame in un sudicio recinto, sorvegliati come animali in uno zoo. Eppure, grazie alla loro fede erano riusciti ad accettarlo e a continuare a credere: la loro preghiera rendeva sopportabile e superabile l’incubo che stavano vivendo.

2022-01-18

Aggiornamento

Grazie al vostro sostegno ho raggiunto l'obiettivo prefissato ad inizio campagna! Il vostro gesto ha fatto si che si realizzasse un mio piccolo sogno! GRAZIE! GRAZIE! GRAZIE!
2021-12-14

Aggiornamento

Grazie di cuore a tutti coloro i quali mi stanno sostenendo in questa campagna. In pochi giorni abbiamo raggiunto un'ottima percentuale di preordini e la cosa mi inorgoglisce oltre che riempirmi di gioia. Siete grandi!

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Ho letto qualche stralcio in anteprima: argomento delicato trattato con rispetto e prudenza attraverso gli occhi di due ragazzi che reagiscono in maniera del tutto differente alla deportazione nel campo di auschwitz. Forte e commovente al tempo stesso. Aspetto con ansia l’uscita per leggerlo tutto.

  2. (proprietario verificato)

    In attesa di leggerlo non vedo l’ora…… L’autore merita. Lo consiglio

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Davide Aiello
Nasce a Napoli nel febbraio del 1981. Risiede nel capoluogo campano dove è il titolare di una libreria sita nel centro storico. Ha studiato storia contemporanea, approfondendo in particolar modo il periodo dell’Olocausto e arricchendosi con letture non solo prettamente storiche ma anche di ideologia revisionista e negazionista. È autore di diversi libri di narrativa per la scuola di primo e secondo grado e coltiva l’hobby del teatro scrivendo e rappresentando commedie inedite e a puro scopo benefico.
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