Da ormai quattro anni Adam e Sara, insieme ai figli Jozef e Rafal, erano costretti a vivere in quel ghetto: con loro più di cinquecento famiglie stipate in uno spiazzo recintato da un’alta barriera di filo spinato antistante una sinagoga; ogni famiglia aveva con sé una quantità limitata di cibo, mobilio e vestiti. La gente viveva ammassata nelle baracche degli attrezzi, nei magazzini, nei solai, nei seminterrati, nelle cantine, nelle trombe delle scale e, qualcuno, nella sinagoga stessa. Ovunque c’erano letti.
In una situazione così eclatante, ai limiti di qualsiasi decenza umana, la famiglia Zalesky poteva ritenersi fortunata: a loro erano state assegnate due stanzette e una piccola cucina. Se si considera che spesso vivevano insieme anche sei, sette, otto famiglie, quella sistemazione era davvero di “lusso”.
Ogni ebreo, per essere immediatamente riconoscibile, doveva apporre sui vestiti un bracciale con una stella di David, la stella a sei punte che simboleggiava l’appartenenza al popolo ebraico, un esagramma che esaltava il Nara-Narayana, il perfetto equilibrio tra l’uomo e Dio.
La popolazione del ghetto fu progressivamente ridotta dalle disumane condizioni di vita e di lavoro. Centinaia di ebrei venivano malmenati, picchiati per le strade, nei luoghi di lavoro, addirittura uccisi, spesso senza validi motivi e senza che nessuno potesse protestare. Di tanto in tanto, veniva comunicato loro un nuovo divieto: divieto di accedere ai luoghi pubblici, inclusi i parchi e le piazze, divieto di posseder denaro al di sopra di una certa cifra, e molti altri.
Una delle vessazioni più frequenti era il taglio della barba e dei riccioli agli ebrei ortodossi, un atto che essi subivano come degradazione, venivano umiliati nella loro stessa fede, sconsacrati del nome di nazireo.
Quelle erano le leggi del ghetto. Quella era la triste vita all’interno del recinto. Umiliazioni, soprusi, perdita di qualsiasi libertà. Solo lavoro. Lavoro per le fabbriche tedesche. Dall’altro lato della recinzione c’era una schiera di soldati nazisti a sorvegliare quell’infame spettacolo. Chi transitava lungo il perimetro del recinto veniva schernito e deriso, stuzzicato con la canna del fucile e colpito con degli sputi.
Ogni comunità ebraica fu dichiarata illegale, le comunità locali vennero sciolte e fu ordinata la formazione di un consiglio ebraico con un presidente e ventiquattro membri. Il consiglio era incaricato di gestire la vita del ghetto e mantenere i rapporti con i tedeschi: aveva il compito di comunicare gli ordini impartiti dai nazisti e doveva provvedere all’assegnazione dei ticket per il pane e dei posti di lavoro in base alle esigenze dei singoli ghetti. A volte, i consigli ebraici decidevano di collaborare con i loro nemici nell’illusione che l’obbedienza e la fedele esecuzione degli ordini ricevuti spingesse i tedeschi a un comportamento più umano. Ma il reale obiettivo finale dei nazisti non era lo sfruttamento lavorativo degli ebrei, bensì il loro completo annientamento, prescindendo da ogni razionale calcolo di tipo economico.
A tal proposito, i dati sulla la mortalità all’interno dei ghetti erano disarmanti. Entravano quantità sempre più ridotte di cibo, provocando, di conseguenza, fame e denutrizione e il proliferare di malattie infettive, come ad esempio il tifo, che creavano epidemie mortali laddove persistevano gravi deficienze sanitarie e precarie condizioni igieniche.
Ciò che teneva uniti gli ebrei, ancorati a un filo di speranza nonostante quell’inferno, era la preghiera: il momento di maggior raccoglimento per gli internati del ghetto, quello durante il quale ci si sentiva veramente fratelli, era la recita dello shaharit, la preghiera del mattino, che riuniva la maggior parte dei fedeli nella sinagoga. Altri preferivano rimanere nelle loro “abitazioni” ma la preghiera era, per tutti, un qualcosa di imprescindibile. Quelle persone erano state cacciate dalle loro stesse case, umiliate e ammassate come bestiame in un sudicio recinto, sorvegliati come animali in uno zoo. Eppure, grazie alla loro fede erano riusciti ad accettarlo e a continuare a credere: la loro preghiera rendeva sopportabile e superabile l’incubo che stavano vivendo.
GIOVANNI Di Martino (proprietario verificato)
Ho letto qualche stralcio in anteprima: argomento delicato trattato con rispetto e prudenza attraverso gli occhi di due ragazzi che reagiscono in maniera del tutto differente alla deportazione nel campo di auschwitz. Forte e commovente al tempo stesso. Aspetto con ansia l’uscita per leggerlo tutto.
Ernesto Sanseviero (proprietario verificato)
In attesa di leggerlo non vedo l’ora…… L’autore merita. Lo consiglio