Francesco, Melissa, Marco e Giovanni sono quattro amici più o meno coetanei che si conoscono dai tempi dell’infanzia; sono inseparabili, trascorrono le vacanze insieme, fanno escursioni insolite, trascinati dallo spirito intraprendente di Marco e sono certi di non avere segreti tra loro.
In una delle tante gite, scoprono un’app di esplorazioni che promette di vivere esperienze uniche, Anomàlia, che Giò ha sul telefonino e decidono di provarla, contro la volontà restia di Francesco. Dalla sua voce narrante scopriamo che tale decisione li trascinerà attraverso una catena di eventi anomali, dove ognuno farà i conti non solo col proprio vissuto ma anche con quello dei suoi compagni di viaggio e che per uscirne dovranno imparare a guardarsi dentro con sincerità e a scoprire negli altri nuove e impensabili sfaccettature. L’amicizia, il dialogo, la collaborazione e l’intuito diventano l’ancora di salvezza, la chiave che li porterà fuori dai molti mondi in cui sono finiti.
Perché ho scritto questo libro?
Ho scritto questo libro per portare a riflettere sulla sicurezza con cui pensiamo di conoscere la vita di chi ci sta intorno. Quello che ognuno di noi crede di sapere a volte è solo una parvenza della verità e esporsi sinceramente all’altro e nello stesso tempo accettarlo per quello che è realmente, è un atto di coraggio che non tutti sono in grado o vogliono fare. Ma a volte è necessario “entrare nella propria tenda” per vedere cosa ci rivela e capire se siamo in grado di affrontarlo.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Stavo decisamente tremando. Erano appena le otto e mezza di una mattina di inizio luglio e guardavo i miei piedi dall’alto dei centosettantacinque centimetri circa, che intercorrono tra loro e i miei occhi, e sembravano piantati saldamente sulla superficie irregolare di calcestruzzo, mentre oltre, più giù, potevo scorgere il movimento fermo delle acque della pozza nera, nel punto più profondo del lago. Non so come avevano fatto Marco, Giovanni e Melissa a convincermi, eppure mi trovavo in questo ponte sospeso, con le caviglie legate come un salame a decidere quando buttarmi di sotto.
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In realtà, non c’era niente di regolamentare, né di lecito né tantomeno di sicuro: la piattaforma consisteva nella base di un pilone tra le arcate di un ponte costruito nel periodo post terremoto per collegare due parti dello stesso paese e la corda era un elastico di fortuna che Giovanni, da apprendista ingegnere, aveva calcolato potesse reggere il nostro peso, il mio soprattutto, considerato che ero il più alto della compagnia. Marco si era già buttato ed era risalito, dopo un buon quarto d’ora, tutto gocciolante, definendo la pazzia come “l’ultima frontiera del divertimento”, mentre per me era definibile come una grandissima stronzata, forse la prima vera e seria dei miei ventisei anni. In ogni caso, siccome non potevo mostrare la paura che mi stava scuotendo, continuavo a parlare e a tergiversare con qualsiasi scusa plausibile che potesse allontanare il momento del salto. All’improvviso,
grazie alla spinta da parte di uno dei miei amici, sentii la mia schiena inarcarsi verso il vuoto e le braccia, tese lateralmente, agitarsi con movimenti circolari nel tentativo patetico e fallito di rimettermi in equilibrio. Ormai stavo precipitando verso il basso. Un brivido mi attraversò il corpo, sentivo la pancia in subbuglio, i muscoli tutti in tensione come pronti e rassegnati all’imminente impatto. Poi uno strappo forte e improvviso mi tirò su e iniziai a dondolare nel vuoto con la faccia tutta bagnata, finché decisi di sganciarmi dalla fune e precipitare definitivamente dentro l’acqua. Aveva ragione Marco, era stata una gran figata ed era pazzesco il fatto che io lo stessi ammettendo. Risalii infreddolito. Si stava girando un vento gelido e densi e scuri nuvoloni coprivano il sole.
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