Di rimando, anche gli abitanti osservavano spesso Villa Oconnor, con aria sospettosa, notando insoliti movimenti che non facevano sicuramente presagire nulla di normale. Da svariate settimane, diverse persone sembravano divertirsi a fare avanti e indietro, entrando e uscendo dalla casa: Amanda Simmon, la fioraia, il signor Kaf, direttore del Museo di Storia Naturale, Romilda Gweller e il signor Marvin, che lavoravano alla Locanda posta in cima alla collina, Sparrow Crocker, il postino umamorfo dal piumaggio turchese, e Cameron Willett, corpulento camionista addetto alla guida di furgoni per il trasporto alimentare. Una accozzaglia di persone che non sembravano avere alcun legame tra loro, e che invece si intravedevano molto spesso salire gli scalini dell’ingresso, accanto al pavone del sindaco Oconnor che si prendeva beatamente il sole appollaiato sulla veranda. Nessuno osava volgere domande ad Annabel Oconnor, anche perché, se le avessero chiesto cosa stava succedendo a casa sua, solo un ingenuo si sarebbe aspettato una risposta sincera. Per fortuna, i Dormutiani si divertivano solo a curiosare, senza indagare troppo a fondo e limitandosi a scambiare ipotesi e finte spiegazioni quando si incontravano in fila al supermercato, o seduti sulle panchine ombreggiate del parco.
Se avessero osservato la Villa con più attenzione si sarebbero accorti che, oltre al continuo viavai che affollava l’entrata, a una delle finestre del primo piano c’era sempre il solito ragazzino affacciato, con i gomiti appoggiati al davanzale. Anche quel pomeriggio, Alan Grammelll si trovava dietro alla finestra, il visto lentigginoso a pochi centimetri dal vetro. Osservava il cielo autunnale, gravido di nuvoloni grigi, mentre si proiettava con l’immaginazione nei prati verdi che poteva scorgere oltre al cancello argentato, e pensando a quanto fosse ingiusto che né lui né i suoi amici potessero lasciare la villa nemmeno per qualche ora. Dietro di lui, a pochi metri di distanza, Debora Grammelll se ne stava ritta in piedi, lo sguardo incollato su un largo tabellone di sughero appeso al muro, dove, fissati con puntine colorate, erano attaccati decine di fogli scritti a penna. Gli occhi color nocciola saettavano da una parte all’altra, scorgendo schemi, strisce di evidenziatori, frecce sinuose che curvavano sulla carta e collegavano tra loro parole distanti. Alan non osava parlarle, sapeva quanto odiasse l’interruzione delle sue profonde riflessioni e preferiva non avere le urla irritate della gemella che gli trapanavano i timpani, accusandolo di averla disturbata per la seconda volta nel giro di mezz’ora.
Eppure Debora venne interrotta, ma non da Alan. La figura di Amanda Simmon apparve nel corridoio, a ridosso della porta aperta, le braccia cariche di magliette e indumenti piegati. «Ragazzi…» disse, «allora… allora io vado. Sono solo questi i vestiti che devo portare a casa? Non ne avete altri che volete lasciarmi?» «No mamma» rispose Alan, distogliendo lo sguardo dalla vetrata. Debora rimase zitta, a scrutare i suoi diagrammi appesi al tabellone e bofonchiando sottovoce. «Debora, potresti considerarmi? Non solo passi giorni dietro a quei fogli, ma lo fai anche mentre tua madre ti sta parlando?» la riprese Amanda. Lei si voltò, gli ondulati capelli color miele ciondolarono lievemente dietro al collo, «No mamma» rispose secca, tornando poi a concentrarsi sulle scritte. Amanda si tolse lo zaino dalle spalle, lo appoggiò a terra e vi infilò gli indumenti, cercando di stropicciarli il meno possibile. «Spero solo che non mi fermi nessuno mentre sto tornando a casa…» brontolò, inserendo la chiusura a scatto e risollevando lo zaino dal pavimento. «Sempre la solita storia» lamentò Alan, «perché mai dovrebbero fermarti, mamma? E poi, anche se dovesse succedere, non ti perquisirebbero mai senza un valido motivo. E poi, anche se dovessero farlo, non hai nulla di incriminante addosso. Solo dei vestiti in uno zaino, di che ti preoccupi?». La signora Simmon sospirò, i suoi occhi cristallini si fecero ancora più piccoli, inglobati dalle palpebre che si abbassavano. «Ma sai come sono gli stratiàponi, Alan. Mi inizierebbero a chiedere dove sto andando, da dove provengo, di chi sono questi vestiti, perché li sto trasportando…». Alan rise «Mamma… sono tutte paranoie che ti stai facendo. Gli stratiàponi non avrebbero mai un comportamento simile. Tu vai tranquilla a casa come se niente fosse e vedrai che non passerai problemi»
«E se dovessi incontrare gli straiàponi per strad…»
«Oh mamma, ma che discorsi! Se dovessi incontrare gli stratiàponi per strada che dovresti fare, scusami? Metterti a correre in direzione opposta agitando le braccia al cielo e urlando? Devi semplicemente far finta di nulla e proseguire».
Amanda annuì convinta, caricandosi lo zaino sulla schiena, «Si… si giusto, ho fatto una domanda stupida. Il fatto è che… è che sono molto agitata, ragazzi… bisognerà trovare una soluzione, prima o poi…».
Debora distolse nuovamente l’attenzione dalla bacheca, «Di nuovo con questo discorso, mamma… non è così facile come sembra trovare una soluzione, ne abbiamo già parlato» replicò.
«Invidio questa vostra leggerezza nell’affrontare le cose…» affermò Amanda prendendo la direzione della porta, il parquet che scricchiolava sotto i suoi scarponcini.
«Io invidio il fatto che puoi uscire dalla villa» rimbeccò Alan.
La madre abbozzò un sorriso e, ferma accanto allo stipite, alzò un mano in segno di saluto, «Beh… vado allora… mi raccomando, fate attenzione. Ci vediamo ragazzi… vi voglio bene»
«Ciao mamma» salutarono i gemelli in coro, «e attenta gli stratiàponi» aggiunse Alan ironico, «scappa via da loro, prima che possano arrestarti per essere in possesso di un paio di mutande». Mentre parlava, affiancò Debora, che non esitò a biasimarlo critica: «Sta molto male per questa situazione lo sai…» sussurrò, mentre i passi di Amanda in corridoio si facevano sempre più lontani e flebili.
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