Erano ore che camminavano. La luce delle quattro torce che aiutava i loro passi proiettava sinistre ombre sulle pareti di roccia circostanti, rendendo ancor più tetra la figura incappucciata che seguiva il piccolo corteo. Gli occhi di quella figura emanavano un’intelligenza e una determinazione assente in quegli dei compagni; sulle spalle portava una grossa sacca di cuoio, che gettò a terra davanti ad un portone nero, la destinazione che finalmente avevano raggiunto. Posò la mano su quella superficie fredda e, lentamente, l’accarezzò con un sorriso: quanto tempo, quante energie spese per arrivare a quel momento. Ordinò di alzare le torce e li vide: i sette sigilli di metallo, incastonati nel montante di pietra del portone: ora era giunto il momento di mettersi all’opera. Aprì la sacca, tirò fuori prima un grosso libro, poi boccette e polverine, che cominciò a mescolare, aiutandosi con un mestolo di legno, all’interno di una ciotola dorata. Quando ebbe finito, alzò la testa e fece un cenno: tre dei suoi uomini capirono al volo il comando; ignorando le grida e le suppliche, afferrarono il quarto compagno e lo sbatterono a terra, immobilizzandolo. Dopo aver posato la ciotola davanti al volto del povero sventurato, l’uomo incappucciato, senza tentennamenti, lo afferrò per i capelli e gli tagliò la gola.
Mentre il sangue sgorgava copioso e scivolava dentro la ciotola, afferrò il mestolo e cominciò a mescolare energicamente, unendo quel caldo liquido vischioso alla mistura che vi aveva preparato. Dopo aver preso un pennello di crine, aprì il libro e lo scrutò per un lungo istante, poi rivolse la sua attenzione al sigillo metallico alla sua destra. I tre compagni lo guardavano incuriositi, mentre disegnava degli strani simboli su quelli che a loro parevano dei semplici e lisci blocchi di metallo, su cui però quella mistura lasciava uno sfrigolante solco rosso. Quando tutti e sette i blocchi furono ricoperti di simboli, l’uomo incappucciato cominciò ad intonare un inquietante litania, chiudendo gli occhi. Sotto lo sguardo attonito dei tre compagni, i blocchi cominciarono a scricchiolare, poi a spezzarsi mentre, ad uno ad uno, si trasformavano in pietra grigia. Seguirono alcuni istanti di assoluto silenzio, poi, un acuto stridore, e il portone si aprì. Nel silenzio, cominciò ad udirsi una forte corrente, un vento impetuoso che proveniva dalle profondità di quella scura fortezza, trascinando con sé una fitta nuvola di polvere nera che avvolse le quattro figure, sferzando senza pietà i loro volti. Poi, come i tentacoli di una piovra, quella nebbia si avvolse ai corpi dei tre compagni urlanti e li trascinò nelle recondità dell’edificio, lasciando l’uomo incappucciato nel silenzio della notte. Sorrise, quando vide che i lumi verdi sulle pareti di quel corridoio scuro si accendevano uno dopo l’altro.
“Bentornato, signore!” esclamò con soddisfazione mentre chinava la testa.
Andrew amava il lavoro di taglialegna. Fin da piccolo, si alzava all’alba per seguire suo nonno e suo padre nei boschi, solo per guardarli svolgere il loro lavoro. Aveva continuato la tradizione di famiglia, ma lui non si limitava ad abbattere gli alberi solo per farne legna da ardere, spesso infatti, sceglieva dei tronchi e ne ricavava mobili accuratamente intarsiati per la moglie. Quella mattina si trovava di fronte ad un frondoso castagno, con cui avrebbe costruito una deliziosa madia che la moglie da tanto desiderava. Mentre affilava la sua fedele ascia, pensava che aveva fatto bene a farsi preparare il pranzo: quel castagno lo avrebbe impegnato tutto il giorno. Già sentiva i colpi d’ascia dei suoi colleghi poco distanti da lui già intenti nel lavoro e nelle chiacchiere, ma lui preferiva lavorare da solo, rimanendo però sempre a portata d’orecchio. Stava per sferrare il primo colpo, quando sentì risuonare la campana d’allarme del suo villaggio, e il braccio si bloccò a mezz’aria. Prontamente i suoi colleghi lo raggiunsero. Essendo gli uomini più robusti del villaggio, costituivano la prima linea di difesa in caso di attacco; gli abitanti rimasti in paese avrebbero sicuramente resistito fino al loro arrivo, ma era sempre meglio affrettarsi. Mentre correva stringendo forte la sua ascia, Andrew sperò che sua moglie e le sue due figlie fossero al sicuro.
L’uomo incappucciato camminava avanti e indietro, guardando soddisfatto quel drappello di soldati che, diligentemente, si preparava all’attacco. Un centinaio erano più che sufficienti per prendere quel villaggio e, soprattutto, per trovare il ragazzo che il padrone stava cercando; una volta trovato, il piano del suo signore si sarebbe compiuto molto prima del previsto. Se poi quei soldati non fossero bastati, c’erano sempre i cinque morat che avrebbero risolto la situazione….. quelle stupide e puzzolenti bestie! Non avevano paura di niente, tranne dello scorrere dell’acqua, ma erano imbattibili. Meno male che il padrone era riuscito a nasconderne qualcuno nelle profondità della fortezza prima di venirvi imprigionato, e che gli era bastato risvegliarli per averli di nuovo in suo potere. Quando vide che ormai i preparativi erano ultimati, ordinò perentorio:
“Andate! E portatemi ciò che vi ho chiesto!”.
I soldati risposero con un tonante “Oh!” e, con lo sguardo fisso, si misero in marcia.
Mentre Andrew staccava di netto il braccio ad un suo nemico, cercava di focalizzare la situazione, perché qualcosa non quadrava. Il villaggio era stato attaccato da soldati ben equipaggiati, con una lucida armatura verde e spade ben affilate, probabilmente al soldo di un signorotto che cercava di ampliare i suoi confini, ma la loro preparazione non era all’altezza del loro equipaggiamento. Solo alcuni di loro mostravano chiari segni di addestramento militare, ed infatti avevano mietuto diverse vittime fra i suoi compaesani, ma la maggior parte sembrava composta di giovani lanciati allo sbaraglio. Ma ciò che ad Andrew pareva strano, era il fatto che quegli uomini sembravano non provare emozioni. Combattevano senza ira, senza passione, sembrava che non ci fosse niente dietro quegli occhi assenti, nemmeno il dolore; Andrew stesso aveva abbattuto un nemico che continuava a menare la spada nonostante i suoi intestini gli penzolassero tra le gambe. Meno capiva, più cresceva l’ansia per la sua famiglia. Con un cenno agli amici, si liberò di un altro assalitore e scattò a nascondersi dietro una casa. Dopo essersi assicurato che nessuno lo seguisse, riprese fiato e cominciò a correre cercando di restare al riparo. La sua casa sorgeva poco fuori dal paese, e avrebbe potuto facilmente raggiungerla senza essere visto costeggiando l’abitato; dopo essersi assicurato che andasse tutto bene, sarebbe tornato al fianco dei suoi amici per permettere anche a loro di andare a rassicurare le proprie famiglie. Entrò in silenzio dal giardino nel retro nonostante gli sembrasse che lì fosse tutto a posto; la sua casa era dietro la collina, non era visibile dal paese e, da lì, il rumore della battaglia arrivava debole, ma voleva comunque essere cauto. Si diresse verso l’ingresso di casa, quando sentì un ruggito provenire proprio da lì, e il suo cuore si bloccò: era sempre vissuto in mezzo a quella foresta, ma non aveva mai sentito un animale produrre quel verso. Alzò l’ascia davanti al petto e costrinse le gambe tremanti a riprendere a camminare, mentre temeva per la sorte della sua famiglia. La vista gli si offuscò, le lacrime che sentiva salire agli occhi gli impedivano di vedere bene quando svoltò l’angolo e si ritrovò davanti alla sua casa, ma le sue orecchie sentirono chiaramente di nuovo quel ruggito a pochi metri da lui. L’ultima cosa che vide prima di morire, furono gli occhi privi di vita della moglie e delle figlie stese sul selciato di casa sua.
1
“Guya!”
Balzò a sedere sul letto. Non aveva davvero il sonno leggero, ma le parve che qualcuno avesse sussurrato il suo nome. La camera buia era rischiarata da una luce argentea che filtrava dalle fessure della porta.
“Guya!”
Mise giù i piedi dal letto senza sentire sulla pelle nuda il contatto con il freddo delle pietre e corse a spalancare la porta. Una sola torcia illuminava debolmente il corridoio, mentre la luce argentea ora faceva capolino da una svolta all’altro capo del corridoio.
“Guya!”
Ancora quel sussurro… si incamminò prima timorosa, poi sempre più sicura nel seguire quella luce nel silenzio ovattato del sogno.
Capì di trovarsi all’esterno quando sentì il vento scompigliarle i capelli, portando con sé gli aspri profumi del mare, ma intorno a lei ogni cosa era immersa nel buio, tranne il bagliore argentato che, accendendo i pulviscoli come scaglie iridescenti, sembrava formare una strada che portava al cielo. Come ipnotizzata cominciò a percorrere quel sentiero, sicura che l’avrebbe portata là dove doveva andare.
D’improvviso non sentì più niente sotto i piedi e cominciò a cadere, mentre i capelli le schiaffeggiavano il viso e le mani arrancavano in cerca di un appiglio, sentiva lo stomaco che si contorceva in preda al panico.
Stavolta si trovava davvero nel suo letto e, per confermarselo si dette un bel pizzicotto, gemendo soddisfatta per il dolore mentre cercava di calmare i battiti del suo cuore.
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