Erano le undici dell’ennesima mattinata calda di quel giugno. Roberto era già là, nella piazzetta in cui lo avevo lasciato il pomeriggio precedente, stavolta in compagnia. Scesi dall’auto e salutai suo padre con grande piacere, lui contraccambiò con l’infinita cordialità che aveva lasciato in eredità al suo primogenito insieme al Pandino bianco. Era molto più vecchio degli anni che aveva, le sofferenze gli si potevano chiaramente leggere sui lunghi solchi che gli tagliavano il viso. Mi parlava con il sorriso bonario di chi si è sempre fatto bastare poco per essere sereno. Quando arrivò il momento di andarcene si lanciò in raccomandazioni di routine, da padre semplice e premuroso.
Ripartimmo con dei sorrisi di cui non credo ci rendessimo conto. Roberto mi parve sereno come mai me lo sarei aspettato, trasmetteva la pace di chi sente di aver completato con successo una missione. Mi raccontò della malattia del padre, un problema al cuore che non aveva molte probabilità di risolversi, ma che forse gli lasciava ancora del tempo. Aveva scoperto che da un paio di anni conviveva con una donna, anche lei divorziata. Gli era parso volesse veramente bene a suo padre. Avevano cenato tutti e tre insieme e poi avevano guardato la partita. Roberto si era sforzato invano di ricordare quando era stata l’ultima volta. Mi feci contagiare dalla sua serenità così come il giorno prima avevo fatto mia la sua tensione. Me ne stavo ad ascoltarlo senza dar spazio ai miei pensieri, lasciando che tutto mi scivolasse placidamente addosso, perfino le code ai caselli.
Il mio primo ricordo del padre di Roberto era legato a un lontano pomeriggio d’estate, che a distanza di anni continuava periodicamente a riaffiorare nelle giornate in cui la pioggia bussava alle finestre, trovando la malinconia ad aprirle. Era l’estate del 1990, quella delle Notti Magiche.
Come ogni pomeriggio, quando gli altri abbandonarono il parchetto sfiancati da ore ed ore di calcio sotto un sole cocente, io e Roberto ci intrufolammo in quel campetto che avevamo scoperto all’interno di un campeggio. Chissà perché non trovavamo mai nessuno a giocarci! Iniziammo a disputare le nostre sfide fatte di tiri da una porta all’altra fino allo sfinimento, senza neanche accorgerci che intanto il sole era stato ingoiato da un banco di nuvoloni neri carichi d’acqua. Le prime gocce ci sorpresero mentre un gruppetto di coloratissimi tifosi olandesi rientrava in campeggio. La loro nazionale era già stata eliminata, ma non avevano ancora finito di girare l’Italia con le loro maglie orange e le parrucche coi dread di Ruud Gullit.
Ignorammo la prima leggera pioggerellina e continuammo a impersonare Vialli, Schillaci, Zenga, Baggio o chi per loro. Il pallone lo avevamo ricavato gonfiando un Super Santos dentro il cuoio di un vecchio pallone bucato. Un tiro di Roberto lo spedì contro il muretto alle spalle della mia porta e udimmo un boato fragoroso che ci spiazzò, corollario di uno squarcio nel cielo. La pioggia si fece violenta e ci spinse a trovare riparo sotto una piccolissima tettoia che ci permetteva a malapena di non inzupparci i capelli. Ragionammo qualche minuto su come saremmo riusciti a tornare a casa senza bagnarci dalla testa ai piedi, non riuscendo più a scrutare un angolo di cielo. Roberto smise presto di farsi domande. Col pallone tra i piedi corse di nuovo in campo, raccontando con la voce di Bruno Pizzul che neanche la pioggia poteva fermarlo. Io esitai. Era sempre la stessa storia, lui a fare ciò che il cuore gli suggeriva di fare, io fermo a pensare troppo, bloccato dall’idea di non dover mai fare arrabbiare qualcuno, che si trattasse di mia madre, di un insegnante, dell’allenatore o di una catechista.
Quella volta ci pensai poco anch’io, però, poi mi buttai sotto il diluvio con lui. L’acquazzone ci incollò al corpo maglietta e pantaloncini, quasi ci impediva di tenere gli occhi aperti. Le punte dei nostri capelli gocciolavano, lasciando scivolare l’acqua lungo il naso, gli zigomi e il mento, finché non facemmo più caso né alla pioggia né al mare in tempesta che sembrava pronto a venirci a spazzare via. Continuammo a calciare, con le nostre scarpe che avevano il colore del terriccio bagnato che ci aveva ormai infangato anche gambe e braccia. Le pozze sul campo erano sempre più profonde, alcune arrivavano a sfiorarci le caviglie, mentre il pallone, un tiro dopo l’altro, diventava un macigno troppo pesante da spostare. Stramazzammo a terra col fiatone e il cuore che ci rimbalzava in gola. Ci guardammo con una risata ebete sul volto, senza pensare ancora alle mazzate che ci attendevano al rientro a casa.
Ci incamminammo sotto il diluvio, iniziando a ragionare su come schivare gli schiaffoni. Dopo qualche decina di metri, nel più totale deserto di un lungomare ormai trasformatosi nel letto di un fiume, si materializzò la nostra arca di Noè: il Pandino bianco del papà di Roberto. Si fermò gridandoci di saltare su, mentre intanto lui scendeva e si dirigeva verso il bagagliaio. Ci lanciò un paio di asciugamani rimbrottandoci senza veemenza. Eravamo conciati così male che avremmo avuto bisogno di una centrifuga in lavatrice.
«Tua madre stavolta ti ammazza!»
Prima di riportarci a casa ci aiutò a rimediare per quanto possibile a quel disastro, abbastanza da limitare i danni a un paio di sberle sul coppino.
Mi tornò in mente quell’episodio, mentre Roberto mi svelava che la compagna del padre aveva una figlia di quattordici anni. Gli era perfino dispiaciuto non poterla conoscere perché aveva trascorso il weekend dai nonni paterni. Eravamo ormai a un paio di ore da casa quando gli raccontai della proposta di Claudio.
«Quindi hai trovato lavoro!?» mi disse con un entusiasmo che io non avevo.
«Non lo so…»
Gli parlai dei dubbi e delle perplessità che mi giravano per la testa.
«Questi dubbi hanno a che fare anche con la ricomparsa di Danila per caso?»
Lo guardai con biasimo, schernendolo con un sorrisino.
«Macché! Non iniziare anche tu come Massimo con questa storia!»
«Mah! Sarà…»
Cambiai penosamente discorso.
«Stamattina sono andato a comprare la maglia di Materazzi per Christian.»
«Dell’Inter o della nazionale?»
«Quella del mondiale. Mercoledì è il suo compleanno.»
«Sarà felicissimo! Quanti anni fa?»
«Nove.»
«Già nove?! Mamma mia! Stiamo veramente diventando vecchi noi.»
Il nostro viaggio volgeva al termine ascoltando alla radio le difficoltà dell’Inghilterra per superare l’Ecuador. Entrammo in città in silenzio, stremati da due giorni intensissimi che non era ancora il momento di iniziare a rielaborare.
«Ma che ne dici di andare a fare un tuffo?» gli proposi.
«Non ho il costume, dovrei passare da casa.»
«Neanche io. Non sarebbe il primo bagno in mutande della nostra vita.»
«Ma non abbiamo più diciott’anni.»
«Neanche cinquanta. Forza!»
***
Mi risvegliai stordito quando il sole era già alto e aveva finito di mirarmi la fronte coi suoi raggi. Le otto ore di sonno avevano diluito adrenalina e stanchezza, ma non avevano portato consiglio. La TV mi fece immergere subito in clima mondiale e dimenticare tutto il resto. Era il giorno di Italia-Australia, ottavi di finale. Finalmente c’era l’elettricità del “win or go home”. Nesta non era riuscito a recuperare, quasi certamente non ce l’avrebbe fatta neanche per i quarti di finale, al suo posto Materazzi. Per il resto si sapeva poco della formazione. Scoprii che Lippi in conferenza stampa aveva chiarito con durezza viareggina che non aveva voglia di dare vantaggi agli avversari svelando qualcosa, tanto meno a una vecchia volpe come Guus Hiddink. Le voci erano di un ritorno alle due punte più Totti, anche se qualcuno iniziava ad ipotizzare che il numero dieci potesse non partire dall’inizio. Lo trovai improbabile, pensavo potesse essere la partita giusta per cominciare a lasciare il segno.
Feci il consueto giro in bici per la città, si percepiva già l’eccitante atmosfera dell’attesa, quella di cui mi ero irrimediabilmente innamorato tanti anni prima. La partita era alle cinque del pomeriggio, ciò significava chiusura anticipata per il panificio di Orazio, trombette festanti nei bar e nei lidi balneari fin dalle ore della siesta e gente che programmava da giorni come fuggire un paio di ore prima dal lavoro, oppure come attrezzarsi per non perdersi la partita anche senza svignarsela. Si erano trovati alle prese con quel dilemma anche Roberto e Massimo. Il primo aveva deciso che avrebbe chiuso la biblioteca un’ora prima del dovuto, che tanto figurati se qualcuno si sarebbe presentato mentre c’erano gli Azzurri in campo; il secondo valutò che non lo pagavano abbastanza per perdersi un ottavo di finale dell’Italia ai mondiali, così avrebbe trovato una scusa qualsiasi per lavorare soltanto mezza giornata.
Mi domandai se Danila sarebbe stata ancora dei nostri. Dopo la partita contro la Repubblica Ceca non l’avevo più vista, mi sorpresi a preoccuparmi che potesse essere partita senza neanche salutarmi. Mandai un messaggio a Sabrina per informarmi e lei mi inviò il numero di Danila, così la contattai per invitarla a venire nel pomeriggio.
Pranzai dai miei. Mi ritrovai istintivamente più propenso ad assecondare le chiacchiere di circostanza di mio padre, come se rivedere il papà di Roberto mi avesse fatto pensare che non avevo saputo apprezzare fino in fondo quanto ero stato fortunato.
«Perché non vieni a guardarla con noi la partita? Tanto devi accompagnare comunque i bambini» gli proposi.
«No, no. Preferisco guardarmela qui. Troppa confusione per i miei gusti.»
Quello lo avevo preso da lui. Aggiunse che li avrebbe accompagnati presto, perché anche a lui piaceva godersi tutto il pre-partita, seguendo le disamine tattiche degli esperti, le speranze delle immancabili interviste ai tifosi e la ricognizione sul campo dei giocatori ancora in tuta. Quando ero più piccolo cercavo di immaginare cosa passasse per la mente dei calciatori nel momento in cui, prima ancora di cambiarsi, mettevano piede sull’erba che avrebbero poi calpestato con i tacchetti. Lo stadio non ancora pieno, i tricolori con i nomi delle nostre città già appesi alle balaustre, la speranza di far proseguire quella festa dipinta sui volti dei tifosi, la voglia di esaudire i propri e gli altrui sogni. Mi immedesimavo in quei ragazzi al punto da dovermi scuotere per far passare la pelle d’oca.
I bambini arrivarono proprio mentre la TV annunciava che Totti sarebbe andato in panchina, al suo posto esordiva dal primo minuto in quel mondiale Alex Del Piero. Angelo ne rimase deluso quasi quanto lo sembrava il calciatore della Roma, costantemente inquadrato dalle telecamere mentre i suoi compagni si riscaldavano. Christian, di contro, era contento di vedere finalmente titolare Materazzi. Arrivarono presto anche gli altri: prima Danila, Sabrina e Massimo, poi Jessica e Francesco, infine Roberto, ancora in orario di lavoro. Eravamo al gran completo.
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