Ne ho iniziati molti, per un motivo o per un altro, ci mettevo me stesso, tutto me stesso. Costringendomi a rivivere la mia vita, i miei pensieri.
A fatica li scrivevo e con più fatica mi rileggevo.
Capii che ciò di cui ero certo, in realtà, mi stava ammalando. Le parole sono vive, e lo posso dimostrare; ovvio, prese singolarmente sono solo suoni a cui abbiamo attribuito un significato. Eppure, pensiamo a parole, forse per abitudine o imposizione culturale. Questo è per via dei ricordi, sono loro a tenere insieme il cervello e a farci sentire vivi, come vive fanno sentire le parole.
Rinunciai all’idea di diventare scrittore, divenni altro. Un lavoratore come tanti altri e con alcuni di loro, condividevo la sensazione d’inadeguatezza.
Chissà cosa penserebbe il me bambino della mia professione attuale o della mia vita. Di tutte le cose che sognavo e idealizzavo. L’unica concretizzata è una scala a chioccia dentro casa.
Provai a mandare qualcosa.
Mi feci scoraggiare da tutta una serie di dinamiche contorte, palesi, ma fugaci alla vista. Basta pensare ad opinione e a pubblico come una gigantesca ampolla in mano ad un bimbo, tu sei il liquido all’interno, e nelle mani del bambino non conta nulla chi sei, ma cosa sei.
Provai a mandare altro.
Alla gente piacciono i sentimenti e i poeti, ma non la poesia.
Provai ancora ma non volevo cambiare.
Alla gente piacciono l’amore e l’odio, così lontani e irraggiungibili nel pratico quanto concreti nella teoria. Come se si potesse dire di aver amato allo stesso modo di qualcun altro. Ridicolo.
Provai a sperimentare, senza cambiare.
Alla gente piace sognare in grande, vogliono ideali fermi, gli stessi che non sarebbero in grado di impugnare per sé stessi.
Provai e provai di nuovo.
Alla casa editrice piace ciò che piace alla gente, storie trite e ritrite con qualcosa di nuovo. Geniale.
Ci sarebbero altre, tante giustificazioni, ma non interessano a nessuno e a me non interessava cambiare.
Personalmente il mio mondo crollò quando mi dissero: “hai talento, sei un poeta, ma le poesie non vendono.” Quello non fu il primo rifiuto, nonostante tutto ero felice. Qualcuno del mestiere mi aveva definito poeta! Quel poeta morì nell’istante successivo. Realizzai di essere sbagliato per questo mondo, per questo tempo e per questa vita. Tutto ciò che era cura divenne veleno. Il caso volle che nello stesso periodo la mia vita privata andò in pezzi e un’influencer improbabile, pubblicò un libro altrettanto improbabile. Divenne best-seller.
Morì anche la mia persona, più di quanto non lo fossi dentro. Mi ponevo domande stupide, ovvie per qualcuno sul ciglio di un precipizio chiamato depressione. Non so se ci scivolai dentro o se il continuare a scrivere veleno equivalesse a buttarcisi dentro. Ed è lunga la caduta, l’abbandono di ogni certezza, di tutto ciò che sia positivo. Lentamente ti chiudi in un bozzolo, muti in una crisalide, e l’unica via di fuga alla mente era schiudersi e precipitare sul fondo. Lì sei al punto zero e si sprecano le metafore sulle farfalle. Però, la verità, al culmine della depressione, è che non vedi molte alternative, anzi, non vedendo nulla da perdere, sono solo due: l’autodistruzione o la rivalsa. La fine e l’inizio. In entrambi i casi, la fine è l’inizio.
No, non mi ammazzai e no, non ebbi una rivalsa con le case editrici, né con la vita. Nel mio caso la sola reazione fu verso me stesso, verso quell’io profondo, addormentato e assopito nelle viscere.
Non sapevo più se fosse giorno, notte, lunedì, autunno o chi fosse il presidente americano.
Ero solo io, lui e con tutti intorno, sbiaditi come lo sfondo. Col tempo ci trovammo a confronto, iniziammo a bere intrugli d’alcool, inchiostro e parole. Un bicchiere tira l’altro e sbronzi, sul fondale più buio, iniziammo ad arredarlo a parole con storie di mondi lontani, o vicini, o sovrapposti. Racconti di persone e dei loro baratri, dei loro segreti e delle loro storie. Sul fondale trovai un amico, un compagno, un simbionte. In ogni momento della giornata noi eravamo lì. In quella stanzina buia del cervello a scrivere insieme storie, per dimenticare la vita e ricrearla nell’immaginazione. Nelle parole da cui rubare un po’ di vitalità.
In quella stanza fatta del nulla e di buio, come lo spazio, senza né stelle e pianeti.
Così, a tu per tu con quell’io nefasto, gli raccontai una storia.
Massimo Speranza
Sono curiosissimo di leggerlo, già solo da alcuni spezzoni
questo libro è riuscito a catturare la mia attenzione!
Monica Giuffrida
Ho comprato il libro per me e per un’amica appena è stato lanciato, non vedo l’ora di averlo tra le mani e poterlo sfogliare!