ANTEPRIMA NON EDITATA
Capitolo 1
Il sole iniziava a calare sulla baia e tutto era immerso in una luce aranciata. Dall’alto la città di Tull occupava una larga lingua di terra che penetrava nel mare per poi richiudersi verso la costa. In cima a questo ricciolo, sul più alto del promontorio, era dislocato il quartiere più importante e istituzionale del paese: i grandi palazzi dei mercanti più ricchi, dei cambiavalute, le austere abitazioni dei generali in pensione e in cima la Fortezza. Il cuore del potere delle terre di Ames risiedeva nelle sassose mura su questa lingua di terra.
La Fortezza: un gigante di pietra coricato in riva al mare, torri alte vigilavano sia sul mare che sull’entroterra.
Se nlle strade di Tull era tutto un brulicare di gente invece nella sala principale della Fortezza non c’era nessuno, solo gli stendardi rosso e oro che pendevano dal soffitto e le lunghe vetrate rivolte verso la baia, le quali inondavano di luce il salone principale.
Il silenzio era rotto dalle urla che provenivano da un corridoio a lato. Lungo lo stretto passaggio porte e quadri si alternavano da entrambi i lati e, ogni tanto, un lungo candelabro illuminava il pavimento e le pareti. Alla fine del lungo camminamento una porta di legno era aperta su una stanza senza finestre se non per un piccolo lucernario posto in alto vicino al soffitto a volta. Tutt’attorno vi erano mensole, ripiani e oggetti più disparati che sostavano tra polvere e ragnatele. Dal centro della volta calava un grande cerchio di tessuto blu sopra cui erano ricamate in fili d’oro le maggiori costellazioni celesti e i più importanti pianeti.
Nel centro della stanza c’era un tavolo di legno e accanto ad esso due figure si fronteggiavano. Uno era piccolo, calvo, rotondo e ben vestito. La barba fluente e curata scendeva su un panciotto di stoffa pregiata con bottoni dorati corredato da pantaloni damascati e stivali in pelle di vitello. L’altro era alto, asciutto e furioso. Il volto deformato dalla rabbia e dalle urla, gli occhi neri e sbarrati, i capelli grigi, il naso adunco. Una cicatrice gli attraversava il viso dall’orecchio sinistro fino al mento. In quel momento dalla gola prorompeva una voce forte, secca e micidiale. -Non è possibile! non lo permetterò ancora! – L’ometto provò a rispondere ma non gliene fù dato il tempo – Oh taci! Da mesi ti pago profumatamente per trovarlo e tu te ne sei stato a zonzo a bere e a mangiare – Si avvicinò al piccoletto sollevandolo per il bavero da terra con la sola mano sinistra. I piedi del poveretto scalciavano a oltre mezzo metro da terra. – Dammi un motivo per non toglierti di mezzo; DAMMI UN MOTIVOOOO – Debolmente il piccolo uomo pelato rispose- S-Signore, ho una traccia; da verificare, certo, ma ho una traccia- La mano si aprì e l’uomo cadde per terra – Dimmi, ORA!
L’uomo alzò il viso e, dal pavimento su cui era steso, guardò negli occhi il suo interlocutore – Gorst .
***
Sui monti Azzurri la notte rischiarava e le nuvole lasciavano il posto a un bel cielo terso. Le cime delle montagne venivano illuminate dal sole che sorgeva e, benché il giorno fosse appena nato, nel villaggio a valle la vita di tutti i giorni era già iniziata. Le case, raccolte nella conca tra le pendici dei monti e il fiume, si riassumevano in una manciata di costruzioni di legno con tetti di ardesia con comignoli dai cui saliva un fumo profumato di resina. Carretti e garzoni iniziavano a popolare le strade e, in qualche cortile, i galli lanciavano i primi canti. In un angolo, al limite sud del paese. una casa giaceva isolata.
Aveva un cortile ampio, recintato da una serie di paletti di legno rabberciati in qualche maniera. Intorno, giacevano pezzi di ruote di carro, pezzi di legno, ferri arrugginiti, un’armatura per cavalli ammaccata e arrugginita. Il tutto era condito da una abbondante selva di erbacce. La costruzione era composta da una rimessa alta con un grande comignolo centrale e una parte come abitazione; piccola e semplice. Sopra la rimessa, un grosso ferro di cavallo,adatto ad un cavallo gigante, dondolava stanco.
Un rumore continuo e metallico proveniva da dentro e un fumo denso, nero, usciva dal camino. Nella fucina il fabbro batteva una sbarra di ferro rovente con un grande martello. Era alto, muscoloso e possente, i capelli corvini erano scostati dalla fronte con un laccio di tela rossa tutta sporca annodato attorno alle tempie. Indossava una casacca logora che un tempo era stata color nocciola, braghe verdognole e un lungo grembiale di cuoio. Gli occhi era piccoli, infossati dietro le folte sopracciglia. Erano scuri, riflettevano il bagliore del ferro che veniva colpito sull’incudine. Non perdevano un movimento, un accenno, un riflesso da ciò che stava forgiando. Sotto i colpi del grande martello il ferro si piegava, si allungava e veniva come addomesticato del fabbro. Grazie al lavoro sull’incudine da una sbarra scaturivano attizzatoi, vanghe, accette, ferri per cavalli.
Quando il ferro poi si raffreddava veniva posto nella fornace a carbone . Questa era un grande cerchio di pietre con in centro un braciere pieno di carboni e, al di sopra, una specie di imbuto ne raccoglieva i fumi per mandarli al camino.
-Bode forza con quel mantice!- urlò il fabbro-
Il mantice era un grosso sacco di pelli di pecora collegate a due leve di legno. Un ragazzo, aprendo e chiudendo le leve del mantice, faceva da soffione e spingeva l’aria tra i carboni rendendo la fornace incandescente come le fiamme di un drago. In questo caso il giovane non era uno scricciolo ma era ben piantato. Serio serio azionava il mantice finché il fabbro non ritirava la sbarra, poi, restava a studiarne i movimenti, a volte passava gli strumenti, le pinze, i martelli di varie forme, per poi tornare al mantice appena ce ne fosse di bisogno.
-Bisogna finire queste zappe entro il mezzogiorno, dacci dentro!- disse l’uomo – Và bene papà!- rispose il ragazzo impegnandosi a forzare l’aria con il mantice. Le gocce di sudore gli colavano dal viso mentre con le robuste braccia spingeva sul mantice.
Era quasi mezzogiorno quando dal cortile si sentì il rumore di zoccoli. Nell’officina entrò un uomo, un lungo mantello marrone scuro gli copriva le spalle fino ai piedi, calzava lunghi stivale neri e infangati.- Buongiorno Bastian, sono pronte le zappe? – chiese – Ho quasi finito l’ultima, dammi un pò di tempo, siedi lì e aspetta. Il cavaliere si sedette su un panchetto vicino al portone , appena dentro. Il fabbro prese la zappa dalla fucina, era rossa rovente, luminosa. Tenendola ferma con la pinza sull’incudine iniziò a martellarla con dei colpi decisi e calibrati dando la giusta curvatura al pezzo.
Intanto il ragazzo non staccava gli occhi dal padre – Ehi ragazzo! come ti chiami? – fece il cavaliere- Boderick ma tutti mi chiamano Bode – rispose – Sei il figlio di Bastian vero? è in gamba il tuo papà sai? – Lo so! – disse il ragazzo – Giusto, ben detto. Fà gli stessi oggetti degli altri ma le sue cose, chissà perché, durano di più. Ti volevo chiedere… – La zappa è pronta Maggott, prendi le tue cose e lascia i soldi sulla panca – lo interruppe torvo il fabbro. – Che allegria! stavo parlando con il ragazzo – Bode non ha tempo per le chiacchiere, deve riordinare qui intorno, forza Bode non farmelo ripetere.-
Bode si distolse dal parlare con il cavaliere e iniziò a raccogliere tutti gli attrezzi posati intorno all’incudine.
Maggott fece un gesto e, senza dirsi niente, i due uscirono dalla fucina e si misero a parlare vicino ad una siepe di rovi, nell’angolo della rimessa. Bode continuava con il suo lavoro ma con la coda dell’occhio cercava di osservare la scena. Il cavaliere gli dava le spalle e non poteva intuire cosa stesse dicendo, il padre era molto serio, ascoltava e non parlava. Tuttavia l’espressione era sempre più cupa. Poi vide il fabbro ricevere un piccolo sacchetto di pelle di quelli per il denaro. Maggott invece prese il cavallo, fissò le zappe a lato della sella è partì.
***
La piccola cucina di Bastian era illuminata da due piccole finestre a lato della porta principale che nessuno usava perché tutti entravano e uscivano dal portone della fucina. Nel centro della stanza c’era la tavola di legno, apparecchiata con un paio di piatti di terracotta e due boccali di legno. La signora Brigg arrivò in cucina passando anche lei dalla fucina – Il pranzo è a scaldare sui carboni di là- disse- tra poco sarà abbastanza caldo per mangiarlo. Oggi: stufato di patata e broccoli. –
Grazie Virginia- gli rispose Bastian – come stai oggi? ti vedo bene – Non c’è male; era per caso Maggott quello che stava venendo via da qui a cavallo poco fà? – Sì – rispose Bastian – è passato per delle zappe e per qualcos’altro – La signora Brigg non disse niente ma doveva aver letto qualcosa nello sguardo di Bastian. Le mani secche e rugose afferrarono il grembiule stringendolo quasi a volerne spezzare la stoffa. Con i suoi occhi intensi guardava Bastian in silenzio.
-Và tutto bene Virginia, risolverò – rispose il fabbro – Come l’altra volta? – le disse seria la vecchietta.
-BUM!-Bastian sbatté pugni sul tavolo, piatti e bicchieri saltellarono sulla tavola. La signora Brigg lanciò uno sguardo torvo a Bastian, girò le spalle e uscì dalla cucina in tutta fretta. Il suono delle sue ciabatte si affievolì man mano che lasciava la casa.
***
Bastian preferì terminare il pranzo in silenzio. Mangiarono la zuppa e tornarono in officina a preparare delle roncole per la prossima stagione del grano.
La sera arrivò come previsto e i due si ritrovarono a tavola per finire lo stufato. Restarono in silenzio, come la maggior parte delle sere. Terminato di rigovernare la tavola Boderick domandò – Volevo chiederti del signor Maggott; lo conosci da tanto? – Perché? -rispose Bastian – Niente, è solo una sensazione, da come vi parlate sembrate amici da tanto tempo?
L’uomo rimase in silenzio qualche minuto – Ti sbagli, lo conosco appena. Ora vai a prendere dell’acqua al pozzo; poi potrai andare a letto.
Boderick non se lo fece ripetere, sapeva che quando il padre chiedeva con quel tono era inutile discutere. A volte gli sembrava di essere più un servo che un figlio.
Fuori era ormai buio, tutto era silenzioso e solo si sentivano gli alberi frusciare dal vento. L’aria era fredda e umida; Boderick alzò la testa e annusò forte l’odore di un temporale in arrivo.
Si avviò. Il pozzo era poco lontano da casa e la strada sapeva percorrerla anche al buio. Poco prima di arrivare sentì dei rumori provenire dall’officina. Una luce, debole ma chiaramente visibile, si poteva vedere tra le fessure del portone chiuso. Qualcuno stava rovistando nella fucina.
Mentre il secchio volava nel pozzo Boderick restò a pensare a due cose che lo preoccupavano: cosa facesse il padre nell’officina a quell’ora e se il temporale avrebbe deviato sulle montagne Verdi oppure no. Odiava i temporali. O meglio, aveva paura dei temporali.
Travasò l’acqua nel catino e tornò a casa. Nella fucina era già tutto buio e Bastian era in cucina seduto davanti a un bicchiere di vino. Lo sguardo serio, le mascelle tese. Si era tolto il nastro che gli legava i lunghi capelli alla fronte e che ora pendevano ai lati del viso. Alla luce delle candele gli occhi erano due punti piccolissimi ma luminosi, brillanti. – ‘notte papà- disse Bode posando il catino sul tavolo – ‘notte Bode – rispose lui.
Sul letto, disteso a pancia in sù, la mano di Boderick andò automaticamente alla nicchia nel muro. Lì c’erano i suoi tesori,: due piccoli lavori in ferro che il padre gli aveva lasciato fare, un coltello e un cigno. Il coltello era a lama fissa, l’aveva ricavato da uno scarto di materiale di Bastian. La lama era lunga meno di una decina di centimetri e l’impugnatura fatta con un preciso intreccio di stringhe di cuoio ricavate da una vecchia bisaccia rotta. Era orgoglioso del risultato; quell’oggetto gli era caro perché fu il primo lavoro fatto interamente da Boderick con Bastian in una giornata in cui il fabbro era particolarmente disponibile. Il cigno era invece una cosa quasi segreta, Boderick lo aveva realizzato durante l’assenza del padre. Era un piccolo animaletto di riccioli di ferro, molto elaborato se consideriamo che era il lavoro di un apprendista, tuttavia il piccolo cigno era molto carino.
Poi c’era il portafortuna, gliela aveva dato la signora Brigg. Era una zampetta marrone di lepre e secondo lei lo avrebbe protetto dai pericoli; tuttavia aveva i suoi dubbi sull’efficacia di quel talismano.
La mano andò poi a cercare la medaglietta di rame. Era infilata in una corda sottile, un intreccio di erbe profumate e cuoio. Era di rame rossastro, circolare, sottile e misurava forse tre, quattro centimetri di diametro. A sbalzo era inciso un giglio. Quello era il tesoro più grande di Boderick, era ciò a cui teneva idi più al mondo, più di suo padre. Era sua madre. O almeno ciò che gli rimaneva di lei.
Inspiegabilmente Boderick si ritrovò a pensare alla signora Brigg. Nella sua vita era la cosa più vicina a una parvenza di madre. Era lei a curarlo quando si ammalava, era stata sempre lei a raccontargli storie da piccolo ed era sempre lei, con l’aiuto di Bastian, che gli aveva insegnato a leggere e a scrivere. Boderick le era incredibilmente affezionato.
Improvvisamente un lampo di luce balenò dalla finestra vicino alla porta e poco dopo un forte tuono scosse la casa. Boderick si irrigidì immediatamente, le mani strinsero le coperte fino a far impallidire le nocche. Gli occhi si chiusero e il respiro gli si blocco nel petto. Un altro tuono – BUM – Il forte rullare del cuore gli riempì le orecchie. Anche al buio gli pareva che la stanza iniziasse a tremare e a girare su sè stessa.
Era sempre così;la paura lo assaliva come un dolore, come una mano mostruosa che lo schiacciava a terra. Anche solo le piccole paure erano per lui una sorte di enorme barriera.
-BUM! _ un altro tuono ; Boderick strattono le coperte fin sopra la testa e rimase così finché non si addormentò.
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