«Quando venne l’Angelo, tutti esultarono» La voce della donna era limpida e solenne «credendolo un inviato degli Dei Luminosi. Gli portarono doni e gli offrirono le proprie figlie affinché le rendesse feconde. Dall’unione dell’Angelo con le figlie degli uomini nacquero i doppi, bambini identici tra loro generati dallo stesso grembo. L’Angelo guardava e sorrideva. Allora tutti esultarono e sacrificarono gli animali e i frutti della terra per rendere grazie agli Dei. Ma quando i doppi crebbero, divennero più forti dei figli degli uomini e l’Angelo, che fino ad allora aveva guardato e sorriso, li chiamò nel suo palazzo. ‘Figli miei’ disse loro ‘questo mondo vi appartiene. Io vi ho generati affinché lo comandaste, quindi prendete ciò che è vostro.’ I doppi allora mossero guerra agli uomini perché l’Angelo non era stato mandato dagli Dei Luminosi, ma era loro nemico e ne desiderava la distruzione. I Signori di tutto ciò che esiste, allora, inviarono i propri campioni che combatterono contro i doppi per dieci anni. I doppi furono vinti e sacrificati agli Dei.»
A quel punto della lettura la donna era solita fare una pausa e posare il libro che teneva in mano.
«Vedi cara, qualcuno è sfuggito al castigo e per questo sei nata tu. Gli Dei perdoneranno il tuo abominio, se ci dirai dov’è il tuo doppio.»
CAPITOLO 2
JADRANKA
Rocca Pietragrigia, 8 Primo Autunno 927
Jadranka smontò da cavallo, furiosa, poco prima che il resto della squadra oltrepassasse il grande portone del castello di Rocca Pietragrigia facendo il proprio ingresso nel cortile.
Da lontano la caposquadra le gridò qualcosa, ma la sua voce tagliente fu smorzata dalla distanza e dallo scalpiccio degli zoccoli. Era una fredda giornata di inizio autunno e il massiccio animale emetteva grosse nuvole di vapore dalle froge dilatate. Jadranka lasciò Mazza Ferrata in mezzo al piazzale, come usavano fare i nomadi, e, allontanandosi a grandi passi, cercò di evitare il Generale, un uomo sulla cinquantina dai folti baffi grigi che comandava la tribù di cui facevano parte lei e i suoi compagni. Terendra, ancora a cavallo, la raggiunse in un attimo e le si parò davanti, bloccandole la strada. Jadranka la guardò con sdegno.
«Non azzardarti mai più a disubbidire a un mio preciso ordine, Jadranka!» Ringhiò la caposquadra.
«Hai rischiato di ammazzarci tutti!» L’accusò di rimando la sorella. «Ci hai mandati allo sbaraglio in una tomba infestata e ne siamo usciti per miracolo! E per cosa?»
«Tu devi fare quello che dico io, ricordati che non hai tu il comando!»
«Ma ti senti? Sono morti due dei nostri e altri due si reggono a malapena in sella. Non ci hai preparati, ci hai mandati al macello e pretendi di non essere messa in discussione!»
«Non da te, sorella, e comunque non in questo modo!»
«Tu dovresti essere rimossa dal comando, non sei capace di guidarci!»
Terendra fece impennare il cavallo, costringendo Jadranka a indietreggiare. Tutti osservavano costernati il litigio, più violento del solito. Jadranka scartò di lato e, non appena vide il cavallo posare le zampe sul selciato, spiccò un balzo e afferrò la sorella per il pettorale di cuoio, trascinandola a terra. Udì la folla radunarsi e rumoreggiare eccitata.
La caposquadra si rialzò, Jadranka si passò una mano sui capelli biondi legati sulla sommità del capo in trecce che le conferivano l’aria feroce che tanto amava. Sapeva di non avere nulla da temere da quello scontro: lei sovrastava la maggior parte dei presenti di una testa buona e aveva il fisico muscoloso e tornito di chi è abituato a sopportare grandi sforzi. Sua sorella era la seconda guerriera del clan: sebbene fosse la maggiore tra le due era più bassa e sottile di lei, nonché meno abile nel combattimento corpo a corpo.
«Chiedimi subito scusa!» Intimò Terendra, tremando dalla rabbia. Per tutta risposta, Jadranka la guardò fissa e sfiorò con una carezza l’ascia a due lame appesa alla cintura. Infine fischiò e in pochi istanti la sua giumenta le fu accanto, così Jadranka afferrò l’arma che era rimasta agganciata alla sella. Era un bastone liscio e lungo, con rinforzi in ferro alle estremità e posti a intervalli regolari su tutta la lunghezza. Non aveva decorazioni né cesellature, ma stupiva comunque per la sua semplice perfezione. Gli uomini lo chiamavano Misericordia.
Terendra si tolse il mantello di pelle d’orso e lo gettò sulla groppa del suo cavallo, poi sguainò la spada lucente e si preparò a resistere all’assalto. La folla attorno a loro ammutolì, trattenendo il respiro.
CAPITOLO 3
IL GIULLARE MUTO
Gravstadt
Aveva provato la miseria quand’era bambino, gracile e solo. All’epoca la sua unica fortuna era il fisico giovane e flessuoso, che gli permetteva di racimolare qualche moneta facendo divertire i passanti con i suoi numeri di acrobazia e contorsionismo. Non sempre però la piazza del mercato di Gravstadt era generosa e capitava spesso che il denaro delle mance non bastasse nemmeno per mangiare. All’epoca non aveva né una casa né una famiglia e farsi accettare nelle bande di strada in cui si erano organizzati gli altri ragazzini era impossibile a causa del suo mutismo. Non era d’aiuto nemmeno la sua pelle scura, più scura di quanto non fosse quella della gente del luogo, scura come quella di alcune prostitute e di pochi viaggiatori che se ne andavano non appena capivano che per loro lì non c’era posto. Così, per sopravvivere, giorno dopo giorno, aveva spinto il suo corpo a raggiungere livelli di elasticità sempre maggiori, imparando a ignorare la fame, il freddo e le percosse ricevute dagli altri mendicanti, dai piccoli commercianti e dalle comari: nessuno voleva avere attorno l’ennesimo piccolo pezzente dagli occhi incavati. Aveva imparato a vivere nascosto negli angoli bui e maleodoranti per uscirne solo quand’era il momento di esibirsi e poi tornarci subito dopo, strisciando per non dare nell’occhio.
Da quei tempi erano passati molti anni e dalle piazze era giunto sino alla grande sala dei banchetti del Barone Lamorak Bloyne. Quello spaventoso senso di precarietà, però, non lo abbandonava: sapeva che bastava poco per cadere nuovamente nel baratro della disgrazia. La famiglia Bloyne governava con alterigia sulle floride terre del Beskysted, con la convinzione di meritare la posizione grazie alla discendenza dagli antichi eroi che avevano combattuto nella Guerra del falso Dio. Il tempo era passato, il sangue si era diluito e con quello anche le virtù che avevano reso la famiglia Bloyne uno dei casati più nobili e potenti del Bruntland. Ora i portatori di quel glorioso nome esigevano cieca obbedienza e, quando non riuscivano a ottenerla col denaro, utilizzavano metodi meno eleganti ma incredibilmente efficaci. Per entrare nelle loro grazie era sufficiente un solo istante fortunato, mentre per rimanerci era necessario un grande sforzo che a poco a poco logorava chiunque.
CAPITOLO 4
IL VIAGGIO
Vestgrensen centrale, 16 Primo Autunno 927
La falce luminosa della luna crescente splendeva nel cielo come il filo di una lama incantata, incurante della canzone che si levava dal sottobosco brumoso.
Non dirlo, amico,
non dire che ti manca,
è andata al camposanto
non la vedrai mai più!
Le rose le hai portato
Per dir che la perdoni
Per dir che era tua
Non ti voleva più!
Non dirlo, amico,
non dire che l’amavi,
è andata al camposanto
ce l’hai mandata tu!
La vanga ho portato
Ti scavo questa fossa
Umida e accogliente
Così ci dormi tu!
Non piangere, amico,
ma questa è colpa tua,
ero io il suo amore
e adesso muori tu!
La pala affondava nella terra fradicia al ritmo allegro del motivetto. Ervin ansimava e sbuffava interrompendo il proprio canto tra un verso e l’atro. Infine si fermò e fissò Maak, che lo osservava divertito. Ervin cercò di asciugarsi la fronte con la manica, accorgendosi poi di essersi impiastricciato di melma. Nel tentativo di toglierla, si strofinò con il bordo della giubba, ma l’unico effetto che ottenne fu quello di spalmarsi lo sporco più o meno ovunque sul viso. Maak trattenne appena una risata.
«Sia maledetto quel piromane di Iskar! Ma perché scavo solo io?» Chiese al fratello.
«Devo controllare il nostro amico.» Rispose Maak beffardo.
«Sei il solito pigro. Allora canta tu, adesso. Sono stufo di cantare io!»
«Perché?»
«Faccio tutto io, qui! Faccio sempre tutto io…»
Maak ridacchiò e si sistemò sulla grossa radice di un albero secolare che affiorava dal terreno.
«Quale vuoi?»
«Quella della vecchia che mostra le cosce.»
«Quale?»
Ervin sospirò ma tentò di celare il fastidio con un tono indifferente.
«Quella che fa… “la lavandaia al fiume lavava/ e sbatti e risciacqua/ nel fiume cadeva e le cosce mostrava”»
«Non fa così. Sei il solito cretino, non ricordi mai le parole!»
Maak si rimise a sedere e si schiarì la gola. Al contrario di quella di Ervin, roca e ineducata, la sua voce era melodiosa e riscuoteva sempre un certo successo. Cosciente della propria dote, centellinava le esibizioni in modo da apparire ancora più prezioso. Si portò i capelli bianchi e corposi dietro le orecchie con un gesto abitudinario e sorridendo compiaciuto iniziò a intonare:
«Nel caldo d’estate
Le giovani sudavano
Le vesti si toglievano
E nel fiume s’immergevano
La lavandaia al fiume lavava
Le giovani guardava
E vecchia e inacidita
Così le apostrofava:
‘Sciocche sgualdrine,
mettete in mostra troppo,
il re giudicherà
e nessuno vi vorrà!’
E mentre urlava
Nessuno l’ascoltava
E sbatti e risciacqua
La vecchia scivolava
E mentre distesa
Nell’acqua se ne stava
Il re di là passava
E le cosce le guardava.
E nuota e nuota
Un pesce guizzava
Sfiorandole le cosce
E la vecchia già sognava!»
A metà della canzone Ervin si era unito canticchiando sommessamente e ridendo tra sé e sé. Alla fine, si trovarono entrambi a ridacchiare come bambini intenti a compiere qualche azione proibita.
Quando giudicarono la fossa sufficientemente profonda, Maak si alzò dal suo comodo sedile e aiutò il fratello a posizionarvi il cadavere sul fondo. Lo guardarono perplessi per qualche istante:
«Gli tagliamo la testa?» Chiese Ervin, come al solito.
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