Era completamente solo. La strada che conduceva al bosco gli passava davanti, danzando come un’ubriaca prima di infilarsi tra gli alberi alle sue spalle. Quella stessa strada nella direzione opposta si allargava per permettere alle automobili di arrivare fino a quel punto panoramico. Il suo fuoristrada stava parcheggiato di fianco alla roccia sul quale l’uomo era seduto. Aveva scalato facilmente quella stradina fino ad arrivare in cima alla collina, partendo da parecchi metri più in basso dove poteva vedere quella striscia di asfalto rovinato rientrare tra le case.
La sigaretta si era esaurita troppo velocemente, non aveva avuto il tempo di godersela fino in fondo. Peccato, gli sarebbe mancata quella sensazione. La calpestò, spegnendo ai piedi della roccia, poi la raccolse e andò a depositare nel posacenere improvvisato che teneva in macchina.
Ora che il suo lavoro era terminato poteva godersi il silenzio. Avrebbe avuto qualche ora di riposo. Due, massimo tre, e poi sarebbe dovuto tornare a terminare. Si voltò verso la porta di legno rovinata che rappresentava quel posto dimenticato da dio. Non aveva chiuso a chiave, non avrebbe avuto senso. Lì nessuno sarebbe entrato e anche se avesse aperto la porta, non avrebbe trovato nulla.
Di riflesso prese il pacchetto vuoto dalla tasca, aprendolo e lanciandolo sul sedile del passeggero. Se non l’avesse ancora fatto, Dio avrebbe abbandonato quel luogo da lì a poche ore.
Oliver
Oliver si svegliò.
Non aprì subito gli occhi. Era troppo stanco e voleva godersi ancora qualche minuto il suo caldo letto. Però qualcosa non andava. Quella mattina il suo letto era freddo e rigido. Spalancò gli occhi.
Quella non era camera sua.
Si alzò così velocemente da farsi venire un capogiro, come se il mal di testa di cui non si era ancora reso conto non fosse già abbastanza. Cadde immediatamente per terra, a causa dell’emicrania che voleva essere riconosciuta e con la faccia ad un paio di centimetri dalle piastrelle rettangolari, pulite e marroni, cercò di riprendersi.
Si sollevò sulle braccia sforzandosi di ricordare cosa avesse fatto poco prima di arrivare li. Che poi esattamente “lì” dov’era? Non sembrava conoscere quel posto e l’ultima cosa che riusciva a ricordare era che si stava mettendo a letto per dormire. Nel suo letto.
Il tutto non aveva senso e, man mano che osservava la stanza che aveva intorno, ne perdeva sempre di più. Perché, se come iniziava a sospettare, era stato rapito, allora perché il suo rapitore gli aveva lasciato una pistola?
Wellington
Wellington si svegliò.
Aprì gli occhi e li richiuse subito. La luce era accecante. La seconda volta ci provò più lentamente, sbattendo le palpebre per abituarsi a quell’illuminazione così intensa e, aiutandosi facendo ombra con la mano sinistra, si accorse di trovarsi in un posto che non riconosceva affatto.
L’ultima cosa che si ricordava era la sua mano che apriva la porta d’ingresso del commissariato per entrare in servizio quella mattina. Poi il buio.
Gli occhi si erano finalmente adattati alla luce fornita dalla serie di neon sul soffitto che illuminavano a giorno la stanza priva di finestre. Ad un metro da lui c’era una porta mentre dei giganti quadri che raffiguravano forme astratte di colori riempivano le pareti gialle. Li aveva già visti da qualche parte anche se in quel momento non riusciva a ricordare dove. Forse in qualche abitazione in cui era passato di sfuggita, ma era difficile da dire. Un tavolo con una gamba storta occupava lo spazio di fianco alla porta di fronte a lui.
Chi lo aveva portato lì? Di sicuro non era entrato in quel posto di sua spontanea volontà.
Quella stanza sarebbe potuta pure essere piacevole se non fosse stato per l’assenza di finestre e di rumori. Si voltò e ritirò tutti quei pensieri in una frazione di secondo. La parete che stava guardando era completamente grigia, spoglia ma intatta e moderna come tutto il resto, anche se non era quello il motivo per cui era preoccupato. Una sagoma immobile si trovava stesa a terra a braccia aperte, proprio dietro di lui. Un ragazzo, a quanto poteva vedere, sdraiato a faccia in giù con la camicia aperta, un paio di jeans scuri e delle scarpe rovinate. Era chiaramente privo di coscienza.
Si avvicinò cautamente a quella persona che non sembrava avere visto prima. Pareva che fosse vivo ma non si azzardava a toccarlo. Wellington era sempre pronto agli scontri e anche in quell’occasione la sua guardia restava alta, rimanendo all’erta controllando ogni piccolo movimento che proveniva dall’altro.
A parte l’aria che gonfiava e sgonfiava i polmoni, tutto era immobile.
Oltre i piedi di quella persona c’era un’altra porta chiusa, identica a quella che aveva visto quando era tornato in se. Quelle due uscite lo costringevano a pensare a cosa sarebbe successo se fossero state chiuse a chiave imprigionandolo lì dentro contro la sua volontà insieme a quello sconosciuto.
Arthur
Arthur si svegliò.
Cercò di stendere le braccia ma aveva le mani legate. Il panico salì e lo risvegliò completamente, impedendogli di muoversi. Da quella posizione scomoda riusciva a malapena a vedere quello che aveva di fronte a sé alzando la testa e provocandosi un notevole dolore al collo.
Però non voleva muoversi troppo perché aveva individuato la persona che lo aveva legato. Era girato di spalle, rivolto verso la porta e con l’indice faceva passare il bordo esterno dello stipite.
Appoggiò la fronte per terra qualche secondo per far diminuire il dolore, poi avrebbe dovuto riprendere. Doveva inventarsi qualcosa.
Senza far rumore scosse la testa a destra e a sinistra per far sciogliere i muscoli e riprese. Quell’uomo aveva una corporatura più massiccia della sua, quindi sopraffarlo non poteva essere un’opzione.
“Come se non avessi le mani legate dietro la schiena” pensò.
Portava i capelli rasati corti, un taglio militare, che faceva sembrare le sue spalle ancora più larghe. La maglietta grigia aderiva perfettamente al suo corpo muscoloso.
Di nuovo, posò la fronte a terra nella stessa posizione nella quale si era ridestato ma non doveva emettere nessun suono. Non voleva essere scoperto per mantenere il minimo vantaggio che poteva dargli l’effetto sorpresa. Voltò verso destra la testa, questa volta tenendola attaccata al terreno come un vecchio pellerossa in ascolto di cavalli in lontananza, mentre uno sbuffo lo avvertiva che il suo rapitore si era stufato di ispezionare la porta e si allontanava, ma Arthur aveva già gli occhi chiusi.
“Un momento, ” pensò mentre si fingeva ancora privo di sensi, “se è lui che mi ha rapito, come mai è chiuso qui dentro anche lui?” Subito dopo gli venne un altro pensiero: se non era lui che lo aveva rapito, voleva dire che anche lui era nella sua stessa situazione e in quel momento stava cercando una via d’uscita. E, sempre che non fosse lui il rapitore, come mai non lo aveva slegato?
“Perché non mi conosce” si rispose. “neanche io nella stessa situazione mi fiderei di uno sconosciuto.”
L’altro gli passò accanto e raggiunse la parte opposta della stanza.
Arthur si rese conto in quel momento in cui si sentiva più indifeso che mai che avrebbe ucciso, se fosse stato necessario, per riavere indietro la sua libertà.
Adam
Adam si svegliò.
Non era a casa sua. Quello sopra la sua testa non era il soffitto che conosceva bene e che vedeva ogni mattina al risveglio. Si tirò su a sedere, con la testa gli esplodeva. Doveva aver bevuto troppo l’altra sera. No, impossibile. Ma dove era finito? Si ricordava che stava abbordando questa ragazza al bancone del pub. Stava ordinando due cocktail e poi non riusciva a ricordare più niente.
Da dove si trovava riusciva a vedere un particolare che gli era balzato subito all’occhio: la stanza era chiusa a chiave. Dalla piccola fessura tra la porta e lo stipite spuntava un’ombra che univa una parte all’altra. Lì di fianco si trovava un piccolo schermo che segnava l’orario. Erano le 8 in punto.
Un breve sguardo alla stanza rivelò che quella era l’unica uscita.
Capito questo, Adam scoppiò in una fragorosa risata.
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