Questa storia nasce dall’osservazione di tutte le pecore nere che ci attraversano la vita. Tutti coloro che sono diversi e cercano e trovano nuove strade, nuovi luoghi, nuovi modi. Potrebbe essere una favola e come tutte le favole potrebbe essere una storia umana molto reale. Racconta la ricchezza della diversità, la possibilità di superare i limiti e rompere gli schemi abituali grazie alla curiosità, alla voglia di imparare e non rassegnarsi ad essere solo ciò che le etichette ci impongono di essere.
A ricoprire questo ruolo si presta la protagonista: Chiara, una pecora nera in un gregge interamente bianco. Chiara vive tutta la frustrazione del suo essere diversa e si trova ad essere una inascoltata profeta dell’imminente disgrazia del suo gregge di appartenenza. Fa tentativi e cerca soluzioni senza mai arrendersi e diviene l’esempio per le nuove generazioni che osservandola, cambiano il pensiero che cambia l’azione che cambia il finale scontato delle storie.
Perché ho scritto questo libro?
Perché io sono una pecora nera, come te, come tanti, tantissimi altri. siamo testardi, coraggiosi, a volte un po’ incoscienti. Siamo curiosi e non ci piacciono i dogmi, le abitudini. Noi cerchiamo, esploriamo, inciampiamo e cadiamo ma non rinunciamo mai. Chiara la pecora nera è questo, è tenere viva la speranza perché è la speranza che alimenta la vita e non il contrario. Ho scritto chiara la pecora nera perché tutti noi abbiamo bisogno di continuare a sognare che sia possibile un mondo migliore
ANTEPRIMA NON EDITATA
3 Usi e costumi
Quando il pascolo era abbondante il gregge si fermava finché non aveva finito tutta l’erba disponibile. A volte quest’operazione richiedeva diverse ore. Chiara mal sopportava spostarsi lentamente col gregge e non poter evadere da quell’ammasso di lana che, visto da lontano, poteva sembrare un solo, enorme, individuo bianco con una minuscola testa nera al centro del corpo. Lei avrebbe voluto scoprire nuovi paesaggi e vedere da vicino i ruscelli che cantavano tra i sassi. Sentiva qualcosa nel cuore quando aveva la fortuna di poter osservare l’acqua che correva gorgogliante verso valle, i piccoli vortici, le gocce che spruzzavano all’intorno quando sbatteva sui grossi massi; e le foglioline sulla sua superficie che correvano e volteggiavano senza opporre alcuna resistenza. A volte aveva tentato di allontanarsi ma era stata subito costretta a rientrare da Igor al quale offriva, ogni volta, l’occasione di scaricare la sua frustrazione su di lei.
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Durante il movimento Nestore apriva la strada ma quando il gregge era intento nel suo brucare stazionario i cani si disponevano in maniera più o meno strategica senza dimenticare l’aspetto gerarchico. Nestore, molto compreso nel suo ruolo, si cercava sempre il posto più alto, più che altro per reminiscenze di gioventù visto che ormai non vedeva nè annusava nulla che si trovasse a più di tre metri dal suo naso. Tutto quello che sapeva sul mestiere del cane da pastore, Nestore, l’aveva imparato ammirando l’operato di suo nonno Napoleone (la famiglia di Nestore faceva quel lavoro da oltre sette generazioni) nonno per il quale Nestore aveva avuto una sorta di adorazione finché era stato in vita, era stato lui ad insegnargli il mestiere.
Al contrario Tobia, di poco più vecchio di Nestore, seguiva il gregge durante la marcia e dormiva posizionandosi accanto a Pietro. Non per diritto ma per una consolidata abitudine, anche perché, alla fine, gli somigliava molto. Tobia amava sdraiarsi all’ombra di grossi alberi dove sognava anche quando aveva gli occhi aperti e lasciava ai più giovani e vigorosi il compito di pattugliare l’area. Guido e Igor si dividevano sui due lati rimanenti di un immaginario quadrato, ma mentre Guido si distraeva spesso trotterellando a coda alta e scodinzolando (cosa che Nestore gli aveva fatto notare più volte essere un’usanza disdicevole per un vero cane da pastore) Igor se ne stava sdraiato con la testa appoggiata sulle zampe anteriori ed aveva imparato ad assumere un espressione falsamente mite per coprire le sue più oscure intenzioni. Passava tutto il tempo con gli occhi puntati su Nestore. Lo studiava in cerca del suo punto debole. Tuttavia era quello con i sensi maggiormente allertati. In genere era lui ad accorgersi per primo se qualche elemento del gregge si allontanava ed ovviamente era lui ad intervenire. Anche perchè questo esercizio del potere gli permetteva di scaricare un po’ di tensione. Le pecore lo temevano ed appena s’accorgevano di essere state prese di mira s’affrettavano a tornare a confondersi nel gregge. Quando stavano vicine, che non si distingueva dove finiva il pelo di una e cominciava quello dell’altra si sentivano sicure, non più in pericolo, come se perdessero l’identità individuale per acquistarne una di gruppo molto più rassicurante. L’individualismo nel gregge significava morte. Il motto era finché sarai come una goccia nel fiume sarai al sicuro. Infine c’era Pietro, il pastore. Pietro non si curava delle cose che riguardavano il gregge, si era completamente affidato ai suoi compagni a quattro zampe. Lui si limitava a seguirli. E spesso sognava una fattoria tutta sua guardando l’orizzonte con un filo d’erba in bocca. Pietro era stato avviato a forza da suo padre a quel mestiere. Lui era un sognatore. Amava scrivere poesie e brevi riflessioni su un piccolo tacquino con la copertina di cuoio che aveva sempre con sé. Non le aveva mai fatte leggere a nessuno. Era il suo angolo privato, il baule nella soffitta che non aveva mai avuto, dove riponeva tutti i pensieri ed i ricordi che meritavano di essere conservati. Gli capitava spesso di perdersi nei mondi immaginari creati dalla sua fantasia. Non a caso il suo cane era Tobia. Erano undici anni che viveva con lui. Ora Pietro aveva ventitrè anni e non poteva dimenticare di quando, da bambino, all’inizio dell’estate, accompagnando il padre a portare il gregge al pascolo, si metteva a correre tra l’erba alta delle colline con Tobia che lo seguiva e poi si buttava a terra e simulava una lotta rotolandosi avvinghiato a lui che cercava di leccargli la faccia in segno di gradimento. Dopodiché rimaneva così, immobile, a guardare le nuvole che passavano nel cielo ed avevano la forma a volte delle navi dei pirati come nei disegni del libro L’isola del tesoro, l’unico libro che aveva posseduto da bambino (e che aveva letto tante volte) e poi cambiavano forma e sembravano auto da corsa e coccodrilli e mille altre cose. Pietro amava stare così, accanto al suo peloso cane, finché suo padre con un fischio inconfondibile lo richiamava indietro. Indietro alla realtà, alla terra, al suo dovere.
Ormai la strada della vita di Pietro era tracciata: d’inverno nella valle al riparo dalle nevi e d’estate sui monti dove l’erba cresce per tutta la stagione. Questo era il suo destino, un giorno dopo l’altro finché suo figlio non sarebbe stato grande abbastanza per farlo al posto suo.
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