Non sapevo ancora che cosa mi aspettasse. Ero semplicemente fiera di aver trovato quel coraggio che tanto mi mancava. La sofferenza o ti abbatte o ti mette il turbo, non esiste la paura in essa. Vi è racchiusa o la morte o la vita. E io, in quel momento, avevo la vita in mano, anche se non me ne rendevo conto.
Ogni scelta è un passo, e ogni passo porta da qualche parte. Ed è così che sono arrivata a Barcellona.
Dopo essere rimasti fermi nel bel mezzo della Rambla, io e i ragazzi decidemmo d’imboccare a caso una delle mille vie di quella enorme città. Eravamo in cerca di un ostello. No, non avevamo prenotato nulla, volevamo essere liberi. Anche di trovare un posto in cui dormire all’ultimo minuto. Quello, però, non era da me. Sono sempre stata una viaggiatrice abbastanza organizzata, non mi piace ritrovarmi impreparata.
Solitamente, prenoto tutto mesi prima. Mi piace stare seduta sul divano di casa e intrufolarmi nel mondo virtuale, alla ricerca di ciò che andrò a visitare. Mi piace poter scegliere tra le diverse opzioni: la meta, il momento migliore, l’alloggio che più fa al caso mio.
Quella volta, tuttavia, non avevo bisogno di un posto prestabilito. Non era una vacanza. Non era solamente un viaggio. Era il viaggio. Il mio viaggio, per ritrovare i pezzi di me. Era quel passaggio necessario per fluire al livello successivo della mia esistenza.
Vi confesso che è stato bello non sapere dove avrei dormito quella notte, vivere il momento, lasciarmi guidare dalla vita, dal caso, dai miei compagni.
Barcellona non era mai stata la mia aspirazione, e non cambiai idea neanche quando ci arrivai. C’era aria di una città che non era la mia. Non mi rappresentava, sentivo che non mi voleva lì. O forse il problema ero io.
Probabilmente, tutto ciò che c’era dentro di me che non andava si rispecchiava al di fuori. Il male che credevo di vedere intorno a me proveniva dal mio interno. Solo molto tempo più tardi capì che anche se parti, tutto quello che sei te lo porti con te. Non lo lasci nella tua cameretta.
Ad ogni modo, quella città riuscì lo stesso a prendermi per mano e spezzare i miei pregiudizi, pur mentre restavo avvolta nelle ambigue vibrazioni del mio momento difficile. Mi consegnò le gambe, anche se molto fragili, per poter muovere i primi passi. Ad oggi la ringrazio. La ringrazierò sempre, perché, mio malgrado, lei mi aveva davvero accolta.
La stanza era enorme. Al terzo piano, credo. C’era un bellissimo salotto in comune tra le camere, affiancato da un minuscolo terrazzo su cui avevo subito buttato l’occhio.
Lanciando lo zaino a terra, mi sono diretta in bagno a lavare i vestiti nella vasca. Ma era solo il primo giorno! Stavo facendo una cosa priva di senso. Probabilmente nella mia testa c’era la convinzione che così avrei posticipato i lavaggi dei giorni seguenti. Volevo prevenire l’ipotetico problema di non poterli lavare dopo. Solo in seguito avrei capito che non era indispensabile lavare le proprie cose ogni cinque minuti. Nulla era più indispensabile. Ma non quella sera. Lì ero ancora ignara, e insaponavo tra le mille bolle.
Dopo una bella doccia, la prima cosa che volevamo fare era cibarci. Paella, un breve giro casuale tra le vie, un piccolo locale dietro l’angolo, una birra fresca, e tante aspettative nella mia testa.
Il momento più atteso di quella lunga giornata, però, è arrivato quando si sono chiuse le porte dell’ostello. È stato allora che, finalmente, sono andata ad aprire quelle del terrazzo.
Era così stretto e dannatamente grazioso! Come quei balconi che si vedono sugli edifici di ogni città storica.
Mi sono rannicchiata, e poi musica e sigarette. Indossavo canottiera e pantaloncini, la temperatura era divina. Sono entrata nel blog che avevo creato ventiquattr’ore prima e ho cominciato a scrivere. Quello spazio sul web sarebbe stato il mio diario, il mio sfogo, ma anche il mio rifugio. Nei due mesi successivi non avrei mai smesso di aggiornarlo. Volevo far arrivare le mie parole, le mie emozioni, a chiunque ne avesse più bisogno. Ma soprattutto a lei, per farle sapere come fosse andata la mia giornata, cosa mi passasse per la testa, se stessi bene. Volevo che sapesse ciò che sentivo. Volevo raccontare quello che vedevo, quello che vivevo, la mia evoluzione giorno dopo giorno. Ma, in particolare, desideravo narrare lo stupore che traboccava dai miei occhi per via di quello che avevo deciso di vivere. Tutto grazie alla mia sofferenza.
“Qui, nel mezzo di Barcellona, il vento mi ha portato sotto al naso profumi di Londra. Non so bene il motivo. Forse è la tanta gente, il caos, il traffico, i rumori, l’immensità, che me li fanno immaginare. Al contempo, per brevi frangenti, le viuzze mi hanno ricordato i borghi italiani. Ho ricordato le mie visite a Trastevere, a Firenze.
Sono rimasta esterrefatta quando, a pochi metri dall’alloggio, ho trovato un enorme colorificio. Ero estasiata! So che può sembrare banale, ma è come se si fosse trattato di un segnale, dato il mio legame col mondo artistico. Mi capite?
Mentre mi racconto e vi racconto, mi batte il cuore.
Forte.
Intenso.
Denso.
A lungo, avevo corso troppo e male. Finalmente, ho avuto il coraggio di fermarmi, prendermi il mio tempo, e capire che quando vai dritto a tutta velocità finisci per schiantarti contro un muro. Talvolta, il gioco della vita vale la candela semplicemente standotene fermo, immobile.
Qui, su questo terrazzo, abbraccio le mie ginocchia e sorrido, incantata. Non ho sonno, so che faticherò a dormire. Non so cosa mi aspetti, non so quali brividi proverò, quali risposte avrò. Ma sono qui e finalmente dirigo il gioco.”
Dopo le parole scritte, le sigarette mangiate, la musica mescolata al rumore della città, sono rientrata nella stanza. Con il naso all’insù, ho provato a chiudere gli occhi. È stato inutile. Mi giravo e rigiravo nel letto. All’improvviso, poi, la sveglia.
C’era un treno da prendere.
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