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Comu vena, si cunta!

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Licata. Milano. Due mondi agli antipodi, eppure entrambi macchiati dal sangue dei propri lavoratori agli albori della seconda metà del Novecento. La campagna siciliana offre i suoi frutti deliziosi, ma dietro colori sgargianti e mare cristallino cela le rivolte tra braccianti e signorotti senza pietà. Il capoluogo lombardo offre arte, efficienza e tanto lavoro, ma a un prezzo oneroso: una vita operaia alienante e lotte di classe sempre più violente. Mimmo, Peppe, Rosario, Carmelina, Vicè. Come tanti immigrati, anche questi giovani siciliani scopriranno sulla propria pelle che una vita dignitosa è il riscatto personale e sociale a cui ambire a tutti i costi, un obiettivo che tutti dovrebbero poter raggiungere, da qualunque posto si provenga… e in qualunque posto si decida di andare.

Nessun bene materiale
forse così ardentemente
desiderato dagli uomini
come la terra.
Sulla terra nasciamo
e viviamo, dalla terra
ricaviamo nutrimento
e materie prime,
nella terra seppelliamo
i nostri morti e saremo
noi stessi sepolti.
Essa è la faccia visibile
della patria
è il suo corpo, per difendere
il quale siamo pronti
a combattere e a morire.

Giovanni Lorenzoni 

A Silvia, il mio equilibrio.

A Valeria, il mio entusiasmo.

A Nicola, la mia giovinezza.

PRIMA PARTE 

LICATA, APRILE-MAGGIO 1949 

PROLOGO

I braccianti di Gela e i fittavoli di Palma di Montechiaro arrivarono lo stesso giorno. Era un mercoledì della fine del mese di aprile del 1949. La frutta e la verdura riempivano i campi dei signori del posto, i quali avevano un disperato bisogno di gente pronta a spezzarsi la schiena pe’ quattru picciuli.

Erano contadini, gente temprata dal lavoro e dalla fatica, che si lasciava prendere dal pessimismo solo quando discuteva del tempo e dei raccolti. C’era sempre troppo sole, o troppa pioggia, il lievitare dei prezzi di sementi e fertilizzanti o l’instabilità dei mercati.

Il prezzo della manodopera era sempre l’argomento del giorno.

Venivano pagati per ogni giornata di lavoro circa centotrenta lire. Secondo le voci che circolavano, i sindacati avrebbero chiesto ai proprietari terrieri almeno centocinquanta lire al giorno oltre all’applicazione dei nuovi decreti sull’agricoltura.

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Nel podere dei Bonfissuto, un gruppo di braccianti lavorava nel campo a ridosso della strada. Erano curvi, con la cesta della frutta e della verdura appoggiata a terra e le mani che si muovevano con destrezza e velocità.

Un camioncino Ford del 1939 arrivò e parcheggiò ai bordi della statale, vicino all’incrocio con la stradina di ghiaia. Dall’abitacolo del mezzo scesero due picciotti e con andatura sostenuta raggiunsero i lavoratori, i quali appena li videro si fermarono in attesa di istruzioni.

«Qu è u caporale ca?» fece un picciotto.

Uno straccione si fece avanti, piegato in due dalla fatica.

«Come ti chiami?» chiese il picciotto.

«Antonio Peluso ai suoi ordini, signore» rispose lo straccione.

«Bene, Antonio Peluso, comunica ai tuoi compagni che da domani nessuno ha più diritto d’accesso al podere per ordine di don Totò Bonfissuto. Sono stato chiaro? E che nessuno si azzardi a venire lo stesso, u capisti?» ringhiò il picciotto.

«Signore, qui tutti hanno famiglia. Se ci togliete anche questo lavoro, come facciamo a campare?» fece il caporale. «Io ho moglie e tre figli. Cosa dico questa sera quando torno? Signore, la prego…» continuò.

Dietro di lui i braccianti, avendo sentito tutto il discorso, iniziarono a rumoreggiare e qualcuno iniziò anche ad alzare la voce. «Giusto, Antò, fatti valere e fai valere i nostri diritti di lavoratori» fece qualcuno.

Il picciotto fece due passi avanti e si avvicinò a un palmo dal viso del contadino. «Fetuso, a nuautri un c’interassa né di tia né da tò famiglia. Trasmettiamo e ubbidiamo agli ordini del nostro padrone. Ora se non te ne vai immediatamente, mi costringi a prenderti a calci in culo, u capisti? E a quella bottana di tua moglie portaci sta’ minchia, questa sera» fece il mafioso portandosi la mano destra verso le parti basse dei pantaloni.

Antonio Peluso non ci vide più. Si avvicinò al mafioso e con uno schiaffo gli fece volare la sigaretta dalla bocca.

Il picciotto rimase basito. Non si aspettava una reazione del genere e, senza dire una parola mise la mano in tasca, tirò fuori la pistola e a bruciapelo fece fuoco, freddando il bracciante.

Il colpo di pistola risuonò altissimo nella piana di Licata come un urlo disperato di chi è pronto a combattere e a morire per qualcosa di vitale importanza. Parte di terra si macchiò di rosso, del sangue di un povero disgraziato.

«Sei un uomo morto, Antonio Peluso» fece il mafioso.

Poi, rivolgendosi alla platea dei lavoratori disse a voce alta: «E questo vale anche per voi, pezzenti! Da domani nessuno si faccia più vivo in questo podere, per Dio!».

E, rivolgendosi al suo compare gli disse: «Amuninni a casa, Pinù».

I due mafiosi non fecero in tempo a entrare nel camioncino che già erano circondati dai contadini. Si mossero velocemente, come un serpente, senza far rumore e senza che i due picciotti avessero il tempo di reagire. Circondarono il camioncino e iniziarono a smuoverlo come se volessero ribaltarlo.

«Che cazzo state facendo, pezzenti. Tornate al vostro lavoro immediatamente» fece il mafioso. Cercò di tirare fuori la pistola dal finestrino, ma un contadino riuscì a prenderla per la canna e a gettarla a terra, lontano. Loro non ne avrebbero avuto bisogno, non uccidevano a sangue freddo. Usavano le mani.

«Minchia Pinù, metti in moto, allestiti e amuninni, avanti!» fece il mafioso.

Le mani di Pinuccio tremavano dalla paura: «Un c’ha fazzu, Calò, un c’arrinesciu». Il camioncino ballava pericolosamente e i due mafiosi erano sballottati all’interno dell’abitacolo.

Un vetro andò in frantumi e una mano riuscì a prendere il braccio di Calogero, seduto dalla parte del passeggero. «Veni fora fighiu ’e bottana» fece un contadino, mentre lo tirava per il braccio cercando di farlo uscire dal finestrino.

«Lassami stari, bastardo,» fece Calogero «o quant’è vero Iddio ti ammazzo con le mie mani.»

Intanto la folla di contadini aveva preso Pinuccio, fatto scendere dal camioncino e sbattuto per terra. Piagnucolava visibilmente e invocava pietà, ma i contadini, per nulla impietositi dai suoi lamenti, avevano iniziato a prenderlo a calci e a sputi.

«Figli di puttana, ora lo vedrete che fine vi facciamo fare» disse l’altro caporale che faceva capo ai fittavoli di Palma di Montechiaro. Prese della corda, la divise in due e fece due cappi. Si avvicinò alla prima quercia e fece volare le corde sopra il ramo.

«Avanti, carù, portate qui questi due figghi e’ bottana. Così facciamo vedere a tutti di che pasta siamo fatti, noi contadini» disse il caporale.

Dopo averli pestati per bene, fino a renderli quasi incoscienti, li portarono sotto la quercia e li gettarono ai piedi del caporale. Questi, guardandoli, fece un ghigno, si sbottonò la patta dei pantaloni e pisciò in testa a tutti e due. «Questa è la fine che meritate, bastardi.» Terminò, prese il primo cappio e lo mise intorno alla testa di Pinuccio, semisvenuto e miagolante. Dopo di che prese l’altro cappio e si chinò verso la testa di Calogero, colui che aveva ucciso a sangue freddo Antonio Peluso. Lo prese per i capelli bagnati della sua stessa urina e lo guardò in faccia. «Hai paura della morte?» gli sussurrò all’orecchio. «Bastardo di un mafioso, questa è la fine che ti meriti, inizia a pregare il tuo Dio, se ne hai uno» disse, sputandogli in faccia.

Il mafioso, con gli occhi chiusi dai pugni dei contadini, non ebbe neanche la forza di ribattere. Si limitò ad ascoltare e ad annuire con la testa.

Il capoirale gli mise il cappio intorno alla testa e la lasciò andare, facendola sbattere sulla terra arida.

«Ragazzi, chi vuole avere il piacere?» fece il caporale prendendo la corda che teneva per il collo Calogero e iniziando a issarlo il più in alto possibile. «Avanti, carù, uno strattone alla volta, uno per uno» continuò il caporale.

E così, poco alla volta, vennero a formarsi due file di contadini per issare i due mafiosi al ramo della quercia. In silenzio prendevano una parte di corda, strattonavano e lasciavano andare. Arrivavano, prendevano, strattonavano e lasciavano andare. Così fino a quando i due mafiosi non emisero l’ultimo rantolo.

In pochi minuti i due corpi penzolavano dall’albero.

Ora sì che la guerra avrebbe avuto inizio.

2023-04-30

Evento

Vaprio D'Adda Ciao a tutti, volevo segnalare che DOMENICA 30/4 terrò la presentazione del mio libro presso l'Auser di Vaprio D'Adda. Ci vediamo domenica per un caffè letterario. ore 16:30 Vi aspetto!!!
2023-04-01

Evento

Libreria Feltrinelli presso il Centro Commerciale di Curno (BG) Ciao, SABATO 1/4/2023 sarò in libreria Feltrinelli presso il Centro Commerciale di Curno (BG) Alla scoperta del libro "Comu vena, si cunta!" - firma copie e dialogo con l'autore. Sarò presente dalle 10:00 alle 19:00 Vi aspetto numerosi! Enzo
2022-11-17

Aggiornamento

Ciao a tutti, volevo comunicare che l'EDITING del libro è terminato e il prossimo step sarà lo studio della COPERTINA. La novità del momento è che il titolo è cambiato per motivi di diritti d'autore. Il nuovo titolo è: COMU VENI, SI CUNTA! La traduzione letterale è: Come viene, si racconta! Ma diciamo che è diventato quasi uno stile di vita. Facciamolo, e come viene viene! Grazie a tutti e STAY TUNED!
2022-07-19

Aggiornamento

Ciao a tutti, è con grande piacere che comunico il raggiungimento dell'obiettivo dei 200 pre-ordini. Ringrazio tutti coloro che hanno voluto supportarmi e sostenermi in questo progetto meraviglioso! Grazie a tutti! Se a febbraio 2023 avremo un libro è tutto merito vostro! Comunico altresì che dal 22 luglio e per una settimana, tutti coloro che non l'avessero ancora fatto e/o volessero pre-ordinare altre copie, c'è la possibilità di farlo usufruendo di uno sconto del 30% utilizzando il codice: FIGLI Buona estate a tutti e... STAY TUNED!
2022-07-05

Evento

Bottanuco Presentazione libro https://youtu.be/I8fwCysqgfo
2022-07-05

Evento

Biblioteca Comunale di Bottanuco (BG) Ciao a tutti, ho il piacere di invitarvi alla mia prima presentazione del libro: "FIGLI DI UN DIO MINORE" E' gradito un cenno di conferma. Grazie
2022-05-05

Aggiornamento

Capitolo 1 Licata, maggio 1949 Le scuole si trovavano nel quartiere di Sette Spade. Un fabbricato edilizio che si snodava attraverso un lungo corridoio sul quale si affacciavano le classi. Dopo aver salito un imponente scalone si arrivava al primo piano dove, i ragazzi giravano subito a destra e le ragazze a sinistra. Fra questi due gruppi di studenti non c’era alcuna possibilità di mescolanza, né in classe, né, tanto meno, durante la ricreazione. Ragazzi e ragazze erano considerati e vissuti come due mondi diversi, fra di loro assolutamente impermeabili, separati ermeticamente e concretamente incomunicabili. Inoltre, dalla classe insegnante delle scuole, stavano scomparendo gli uomini. Ne restavano pochissimi, anche se validissimi. Ma la maggioranza schiacciante era rappresentata da professoresse. “Mimmù a vidisti a chidda? Che pezzu di sticchiu” fece Rosario Galluzzo detto u curtu per via della sua statura portandosi una mano alla fronte e scuotendo la testa. “Amunì carù ora ditemi voi come posso concentrarmi sulla lezione di storia. Chi se fotte di Napoleone e della sua armata. Io ho in testa solo le sue bellissime minne.” “Rosà, a finisci? Quella di cui stai parlando è una professoressa e ti consiglio di non andare oltre se non vuoi finire nei guai. In grossi guai, per intenderci. Suo marito fa il falegname ed è il doppio di te. Se ti sente a schifiu finisce. Ti scassa a lignate, va” fece Mimmo prendendolo per un braccio e trascinandolo verso la propria aula. “Mimmo ha ragione, Rosà. Statti mutu ed entra in classe, minchione. Sempre e fìmmeni in testa ava?” Terminò Franco strascicando i piedi dentro a logore scarpe pesanti. La scuola era molto rigida anche se ora non la si percepiva più come tale, forse per via del clima, ormai quasi estivo, e del cristallino mare siciliano. Le lezioni volgevano al termine e gli studenti, anche se nessuno lo diceva e nemmeno lo avrebbe ammesso, erano stati considerati per un intero anno dei soldatini che dovevano solo obbedire come se fossero in una caserma. C’erano gli sfaticati, i poco attenti e i soliti rompicoglioni da mettere in riga con modi energici. Non mancavano neanche i cocciuti e i contestatori delle regole condivise da tutti gli altri. Le lezioni iniziavano alle otto e non c’era alcuna campanella che suonava. Liborio, il bidello, faceva partire la giornata con un urlo animalesco: “In classe sfaticati, avanti che i professura vi stannu aspettannu.” “Carù videmmu se anche oggi il professor Giuffrè chiama Iachino alla cattedra” disse sottovoce Rosario sorridendo. “Scummittemmu?” Nessuno disse niente, ma le teste iniziarono a muoversi, come a comando. Tutti sapevano che sarebbe andata a finire così. “Buongiorno ragazzi” fece il professor Giuffrè entrando in classe. Si sedette, compilò il registro e iniziò l’appello. “Amintore.” “Presente.” “Auci.” “Presente, proessù.” “Bottone.” “Ci sono.” “Bottana!” fece una voce dal fondo dell’aula facendo scoppiare tutti a ridere. “Siamo alle solite, ragazzi. Smettetela per favore che dobbiamo iniziare la lezione su Napoleone” fece il professor Giuffrè alzando gli occhi dal registro. “Proessù è maggio e la scuola sta finendo. Perché non ce ne andiamo al mare o parliamo dei problemi del nostro paese piuttosto che parlare di Napoleone che non ce ne fotte una minchia?” Chiese il giovane Catalfamo dal banco vicino alla finestra facendo ridere tutta la classe. “Ha ragione Andrea, proessù. Andiamocene al mare. Piuttosto, ha sentito cosa è successo in campagna qualche giorno fa?” Chiese Peppuzzu spostandosi una ciocca di capelli che gli cascava sugli occhi. Il professor Giuffrè nemmeno degnandoli di un commento, alzò lo sguardo e disse: “Iachino, vieni un po’ qui.” Rosario iniziò a ridere, imitato da molti ma non da tutti e tanto meno da Iachino che ormai sapeva cosa aspettarsi. Iachino si alzò e si diresse verso la cattedra con la testa penzoloni. “Buongiorno Iachino, metti le mani bene in mostra.” Iachino aveva il vizio di non lavarsi mai. Non solo il corpo, perché in casa non aveva né la doccia né il bagno, ma neanche le mani. Ogni giorno, Iachino si presentava con le mani così nere e così incrostate dallo sporco che sembrava fossero state mummificate. E il professore, tutte le mattine lo chiamava alla cattedra. Poi gli faceva mettere le mani sulla scrivania e, in un silenzio di tomba, sollevava con circospezione le maniche e quindi, dopo aver fatto una veloce piroetta, gli assestava sulle dita una bacchettata tremenda, mentre Iachino, sporco ma stoico, non faceva una piega. All’operazione seguiva la successiva ingiunzione di presentarsi il giorno dopo con le mani pulite. Il giorno dopo, però l’operazione era la stessa. E il giorno dopo ancora, idem. E ogni volta l’esibizione delle mani di Iachino si concludeva con un’altra scudisciata. Non convocò mai i suoi genitori sia per paura di prenderle sia perché molto probabilmente i genitori erano più sporchi del figlio e quindi, per analogia, avrebbe dovuto bacchettare anche loro. Mimmo improvvisamente si alzò dalla propria sedia e stando ritto davanti al proprio banco chiese: “Professor Giuffrè, secondo lei qui a Licata quanti poveri ci sono?” La domanda interruppe qualsiasi tipo di dialogo. Eppure, non si parlava quasi mai di soldi perché non ce n’erano. Nelle case licatesi si faceva quel che si doveva fare, senza esagerare. Si dava quel che si poteva dare. Si davano dei sì e dei no. Non si diceva, siamo poveri non si può. Eppure, il disagio c’era ed era ben visibile e diffuso nelle pieghe di molte famiglie. I bambini guardavano, parlavano, giocavano e sorridevano. Ma poi il film della vita gli tornava indietro, come un boomerang. C’era il bello e il meno bello. Il padre che perdeva il lavoro e poi lo ritrovava. Che, improvvisamente, tornava a casa per cena, ed era una festa. Oppure che si interrogava sul futuro a 37 anni, due figli e una moglie da sfamare. Il lavoro nei campi ricominciava e si viveva nella speranza di essere chiamati per poi tornare a casa per cena e trovarli a letto, addormentati sotto le lenzuola. “Io non lo so quanti poveri ci siano qui a Licata, Mimmo, ma so che la situazione non è bella. E poi, sì ho sentito quello che è successo nei campi qualche giorno fa” rispose il professor Giuffrè. “Mi dispiace.” “Proessù, non si può andare avanti così. Mio padre non lavora da mesi e nessun proprietario terriero lo chiama più per raccogliere i pomodori e i meloni. “Talii ccha…” fece Filippo alzandosi dal proprio banco e mettendo in mostra i pantaloni tutti bucati e sgualciti. “Haju i càvusi tutti bucati” disse facendo ridere tutta la classe. “Quindi perché continua ad umiliare Iachino, non vede in che condizioni viviamo? Perché picchiarlo ogni santu jornu?” continuò Mimmo. “Tutti noi non mangiamo e non ci laviamo regolarmente. Per lavarci andiamo al mare e per mangiare qualche volta rubiamo. Sì, abbiamo sia le mani sporche sia la faccia nera. Guardi qui le mie mani” disse Mimmo alzando le mani al cielo “ma chistu lordu è fatica e rabbia. N’ammu affannari u pani ogni jornu, àutru chi Napoleone” terminò Mimmo prendendo il libro di storia e gettandolo all’aria. “Sa pigliassi cu mia o con Rosario o con Filippo o con Giuseppe” disse rivolgendosi a tutti i ragazzi presenti in aula. La classe deflagrò! Tutti si alzarono, presero i propri libri di storia e iniziarono a scagliarli con rabbia verso il professore. “Si ni issi affanculu, proessù” urlavano i ragazzi inferociti. “Amuninni o mari, carù” fece Rosario dirigendosi verso la porta. “Silenzio ragazzi! Che state facendo, tornate ai vostri banchi o sarò costretto a chiamare il Preside! Forza, ubbidite!” “Me patri mi disse chi a jiri a travagghiare, àutru chi sturiari” fece Giuseppe prendendo le sue poche cose che aveva portato a scuola. “Si ni issi affanculu, proessù!” e tutti uscirono dall’aula riversandosi nel corridoio che portava alle scale. L’ultimo a varcare la soglia fu Mimmo il quale, guardando con rabbia il professor Giuffrè e puntandogli un dito contro, gli disse: “Io sono il primo dei poveri in questo fottuto paese, ma se qualcuno fa del male ad un mio amico, giuro su Dio che non gliela farò passare liscia e lei professore, con tutto il rispetto, ha esagerato. Ora mi scusasse ma me ne vado al mare.” Diede un calcio ad uno dei tenti libri sparsi per terra e sparì nel sole già caldo del primo mattino. Mimmo si guadagnava da vivere facendo il pescatore e ogni tanto, quando si sentiva troppo stanco o aveva provviste di pesce a sufficienza, andava a scuola. Non che gli piacesse particolarmente, ma pensava che un minimo di conoscenza fosse necessaria. La vita del pescatore era molto dura. Spinto da una grande passione per il mare e per il pesce, si trovava a dover sacrificare buona parte del proprio tempo libero e dei propri affetti. Non che ne avesse di affetti, essendo orfano e non avendo a Licata alcun parente. Le uniche persone che frequentava erano gli amici e qualche ragazza. “Le persone quando pensano al mare s’immaginano le vacanze, il sole e i bagni” pensava ogni tanto. “Invece per me il mare significa fatica, significa lavorare sotto la pioggia battente e al freddo e con condizioni meteorologiche avverse.” Mimmo praticava la pesca a strascico. Solitamente partiva tra le undici e l’una di notte. Arrivava a bordo una mezz’ora prima e preparava tutto il necessario. Dopo una o due ore di navigazione per raggiungere la zona prescelta, cominciava a calare le reti e iniziava lo strascico, che poteva durare un paio d’ore, cercando di evitare ostacoli come relitti e secche. Una volta fatto questo, si poteva riposare per un po’. Trascorso il tempo necessario tirava su le reti, le svuotava e le rigettava subito in mare. Separava il pesce buono dagli scarti fatti di alghe, plastiche e pesci morti, lo lavava lo incassettava e lo metteva al fresco sotto cubetti di ghiaccio appositamente preparati. Dopodiché puliva la poppa della barca e tornava a riposare o a passare il tempo guardando il cielo e l’orizzonte nel silenzio più assoluto e con l’unico rumore dello sciabordio dell’acqua sulla chiglia della barca. Mangiava quello che capitava, pane raffermo, salumi, formaggi e olive, annaffiato da una mezza bottiglia di vino rigorosamente nero. Le calate proseguivano fino alle prime luci dell’alba, poi rientrava in porto per vendere il pesce e lavare la barca. “Avà Mimmù, allestiti che ni nemmu o mari” urlò Rosario dall’altra parte dello spiazzo ridestando Mimmo dai suoi pensieri. “Staiu vinennu, Rosà” rispose Mimmo con il sorriso sulle labbra bruciate dal sale marino e dal sole impietoso. Si guardò intorno schermandosi gli occhi dalla luce accecante del mattino e alzò lo sguardo sulle aule. Molte ragazze erano affacciate alle finestre del corridoio e li guardavano, sorridendo. Erano degli eroi. “Avanti, scendete anche voi che andiamo tutti al mare” fece Mimmo in preda all’entusiasmo. Non ebbe nessuna risposta. Solo sorrisi e qualche saluto con la mano. Vide Rosario appoggiato alla ringhiera, in attesa. Uno stormo di rondini scomparve dietro una palazzina di mattoni scuri e lui proseguì verso i suoi amici che lo stavano aspettando. “Amunì, carù. Amuninni a Marianeddu.” Chi aveva la bicicletta si mise in sella, chi non l’aveva li avrebbe seguiti a piedi. Fu felice di constatare che c’era tanta gente in giro per il paese e, con una certa energia teatrale, riempì d’aria i polmoni e sorrise a tutti. Era contento di aver abbandonato la scuola e di essere uscito così dall’aula, come un capopopolo circondato dalla sua truppa. Dopotutto erano tutti dei morti di fame né più né meno di Iachino. Sotto il cielo aperto riusciva ad essere più distaccato e a controllare l’eccitazione. E mentre i più pedalavano verso la spiaggia di Marianello Mimmo, in testa al gruppo, ammirava la bellezza del suo paese. Le rigogliose palme che fiancheggiavano i lunghi viali, le botteghe degli artigiani aperte in attesa dei clienti, la Chiesetta di Sette Spade, le sedie impagliate fuori dalle abitazioni. Arrivarono sotto la sede del Municipio e si fermarono. “Carù, aspettammu l’avutri a pedi” disse Mimmo. “Cu jè chi voli 'na ranita?” continuò rivolto al gruppo. Nessuno fiatò perché nessuno aveva una lira in tasca. “Avanti, ve la offro io una granita, su!” Continuò Mimmo con fare amichevole. “Anzi, ora vado da Angelino Porrello, che è un mio amico e me la faccio offrire. Siamo sicuri che non la vuole nessuno?” I ragazzi iniziarono a guardarsi l’un l’altro e iniziarono ad alzare le spalle: “Chi ci fa, avà carù… 'na ranita jè ghiaccio cu tanticchia e’ lumia” iniziò Franco coinvolgendo tutti. “Aspettate qua” disse Mimmo. “Entro io e ve la porto. “Vèni cu mia, Rosà.” Lasciarono le biciclette appoggiate ad un lampione ed entrarono al Caffè Porrello. Si diressero verso il bancone e chiesero di Angelo. “Lassa fare a mmia Rosà, u capisti?” “Tranquillo Mimmo, iu nenti sacciu” rispose Rosario. Nel mentre si avvicinò un cameriere e chiese: “Ragazzi, volete qualcosa?” “Volevamo parlare con Angelo, se non le dispiace” fece Mimmo. “E’ fuori che sta parlando con una persona importante, mi sa che vi tocca aspettare.” “E secondo lei, ci metterà tanto?” Chiese nuovamente Mimmo. “Penso di sì. Don Antonino Mangione è una persona influente a Licata. Ho sentito che stanno parlando di affari. Quando iniziano non si sa mai quando finiranno. Mi spiace, ragazzi.” “Vabbè, grazie” fece Mimmo avvicinandosi a Rosario. “Un haju 'na lira oggi, Rosà. La granita ce la prendiamo un altro giorno, che dici?” “Comu vo tu, Mimmù. U capu tu si” rispose Rosario. Uscendo dal bar e buttando un occhio ai tavolini esterni, Mimmo vide Angelo Porrello seduto comodamente in compagnia di una persona distinta, elegantemente vestita di tutto punto nonostante il caldo del primo mattino. Completo blu notte, camicia bianca e scarpe eleganti. Portava un paio di occhiali neri con grosse lenti squadrate appoggiate su un naso aquilino ed era molto stempiato, quasi calvo nella parte centrale del cranio. Un grosso neo nella parte sinistra del viso, vicino all’orecchio, lo distingueva. Quindi quello era don Antonino Mangione, il sarto. Ne aveva già sentito parlare molto bene e tutte le persone in vista di Licata si servivano da lui. Non poteva dire se era un mafioso o una persona per bene e, in ogni caso, i soldi lui li aveva. Di proposito decise di passare attraverso i tavolini vicino ai due. Rallentò il passo e fece cedere il fazzoletto che aveva in tasca. Si chinò e attese qualche secondo, nella speranza di riuscire a capire di cosa stessero parlando di così importante. “Mimmù, chi sta facennu?” Chiese Rosario. “Statti mutu e vattinni dai carusi, iu staiu vinennu, forza!” gli ordino Mimmo. “… ci stanno facendo fuori, Nino. Non siamo più padroni in casa nostra. È una cosa inaccettabile e noi abbiamo il dovere di intervenire per salvaguardare i nostri interessi e contrastare i sindacalisti di Angelo Antona. Chistu o capisce cu cumanna ccha, o a pagherà cara…” udì Mimmo senza realmente capire cosa significasse. “Ehi tu, che stai facendo lì per terra?” Chiese ad un tratto una persona seduta ad un tavolino vicino. “Nenti signù, mi ni staiu jennu” rispose Mimmo, alzandosi in fretta e furia per raggiungere i propri amici che lo stavano aspettando. Nessuno diede la giusta attenzione e il giusto peso a quanto era appena accaduto. Neanche Mimmo avrebbe mai immaginato che uno spezzone di discorso, rubato a due persone influenti sedute ad un tavolino di un bar, avrebbe cambiato per sempre la sua vita.
2022-05-03

Aggiornamento

Day 6: 116 copie vendute. Road to 150! Giovedì 5 maggio ore 17:30 sarà on line il primo capitolo. Stay tuned!!
2022-04-29

Aggiornamento

day one: 60 copie raggiunte!!! Grazie a tutti! Ora alziamo il livello... road to 100 copie

Commenti

  1. Daniele Previtali

    (proprietario verificato)

    Mentre leggevo il libro mi pareva proprio di sentire Enzo con la sua voce sempre precisa e chiara, ma che sa essere anche affascinata. Affascinata, in questo caso, da quel periodo storico di cui spesso gli piace parlare: il secondo dopoguerra. Comu Vena, si cunta!, racconta proprio questo e parla di storia, gioie, fatiche, dolori, speranza e di giovani ragazzi che hanno la possibilità di dare una svolta alla vita.

  2. COMU VENA SI CUNTA, un libro che consiglio perché, oltre ad essere uno spaccato di storia del nostro dopoguerra, mi ha completamente coinvolto, appassionandomi veramente alle vicende dei protagonisti. Grazie Vincenzo e… aspetto il prossimo. Simona

  3. In una Sicilia arsa dalla calura estiva, gli effetti del dopoguerra continuano a farsi sentire: la fame corrode i corpi e incendia le anime di chi ogni giorno cerca di sopravvivere, sfruttati dai proprietari terrieri. In questo caotico mondo di sopraffazione e rivolte, cinque ragazzi cercano la loro strada. Alcuni, come Mimmo, fin da piccoli hanno sacrificato tutto per ottenere una vita umile, ma dignitosa ed onesta, che non vorrebbero abbandonare per nulla al mondo, per farsi cullare per sempre dal mare siciliano. Altri, come Rosario, incappano in richieste pericolose, in grado di stravolgere la loro vita.
    L’equilibrio precario tra passato e presente può essere rotto nel giro di una sera, in pochi minuti, in un vicolo buio. In un secondo, cinque destini possono cambiare, irrimediabilmente, catapultando i protagonisti nella fredda Milano, impegnata nella sua frenetica rinascita.
    Incastrati in un mosaico molto più grande di loro, i cinque ragazzi cercheranno di ricostruire la loro vita, improvvisamente spezzata, animati dalla fame di riscatto e dalla voglia di scoprire cosa si cela oltre la mera sopravvivenza, in una città ricca di opportunità, oltre che di minacce.
    Oltre alla voglia di riscatto, un’altra delle forze motrici di questo romanzo è l’amore, che non conosce ostacoli, di tempo e spazio, figuriamoci legislativi. Un amore disposto a cambiare bruscamente la direzione della propria vita, per fare un salto nel vuoto; un amore che è come una fiammella perpetua, che rischiara anche le notti più buie della periferia milanese, perché alimentata dalla luminosa speranza di un nuovo incontro.

    Ho apprezzato moltissimo questo romanzo, che mi ha tenuta incollata alle pagine, con le sue descrizioni vivide (sento ancora l’odore della salsedine, la puzza del mercato del pesce e il rumore delle fabbriche) e i suoi sviluppi di trama, capaci spesso di sorprendere, portando la storia su binari sempre più complessi, che mai mi sarei aspettata all’inizio. In alcuni passi, devo ammettere di essermi quasi commossa e a volte incazzata, frustata per le ingiustizie subite dai personaggi o innervosita dei loro ‘errori’. Di sicuro, non è una di quelle letture che ti lascia indifferente.

    Ho amato, in particolare, l’amore verso la propria terra che traspare da queste pagine e, anzi sembra quasi urlato, per sovrastare le voci di vede solo il nero ed il marcio, in un’isola che è raccontata con tutte le sue contraddizioni e i suoi difetti, ma che non la rendono meno bella.

  4. (proprietario verificato)

    Letto tutto d”un fiato, avvicente ed emozionante, una bellissima storia di altri tempi che mi ha coinvolto ed appassionato, bravo Enzino!

  5. (proprietario verificato)

    Ci sono libri che riescono a costruire mondi e “Comu vena, si cunta!”, il primo romanzo di Vincenzo Bonelli, è sicuramente uno di questi. Attraverso la storia di Mimmo si raccontano amicizie indissolubili che diventano “famiglia”, si parla di scelte difficili che a volte bisogna avere il coraggio di compiere, un elogio all’intelligenza e all’ingegno che, quando tutto sembra perduto, possono salvare la vita. Un romanzo che si legge d’un fiato, rapiti dalle avventure Mimmo e dei suoi amici, in un’Italia che cerca di risollevarsi nel secondo dopoguerra. Ci si affeziona a tal punto ai personaggi che, arrivati alla fine, è inevitabile sperare in un seguito… perché quando si legge un buon romanzo la sua storia diventa un po’ parte della nostra vita.

  6. (proprietario verificato)

    Una storia di ragazzi in fuga per salvare “la pelle” alla ricerca di una vita nuova, verso una Milano piena di novità, fascino, lavoro per tutti, vissuta con passione, paure, tristezza ma con tanta tenacia. Sei riuscito a salvare quasi tutti quei ragazzi… gli hai dato un padre, ad alcuni l’amore, a tutti una speranza e una nuova vita tra le mani.. ogni lettore può immaginare una possibile continuazione… Una storia coinvolgente che consiglio di leggere! Buona fortuna per una nuova avventura da raccontare.

  7. (proprietario verificato)

    “COMU VENA, SI CUNTA!” è stato un compagno di strada in questo ultimo periodo. Me lo sono letto e gustato, poco per volta, ma ogni volta sorridevo all’idea che me lo sarei ripreso in mano e sarei andato avanti a conoscere Mimmo, Carmelina e gli altri.
    Sono io che ringrazio te, Enzo.
    Davvero GRAZIE!
    Non sarà stato facile, bravo Enzo 💪🏼

  8. (proprietario verificato)

    Il primo romanzo di Vincenzo, un caro amico, ha attirato tutta la mia curiosità. Non sapevo cosa aspettarmi…. ed ecco un romanzo da cui è difficile staccarsi, coinvolgente ed entusiasmante, dalla lontana Sicilia alla mia “Milan”, dal porto di Licata al Duomo!
    Non posso far altro che farti i complimenti!
    Bravo, bravo Vincenzo!

  9. (proprietario verificato)

    Ciao Silvia questo è un messaggio per Enzo era da qualche settimana che volevo scrivergli. Complimenti Enzo il libro mi è piaciuto moltissimo, sia la prima parte dove hai raccontato della tua Sicilia e sia la seconda parte quella Milanese che mi ha coinvolto in prima persona visto che sono di Milano e i luoghi dove si sono svolti i fatti li conosco bene, Brera i Navigli Via Torino e molti altri. La storia è bella e drammatica, il finale racambalesco. I personaggi principali Mimmo e Carmelina molto affascinanti giovani e innamorati, bella la storia con tutte le problematiche del sud e delle fabbriche e dei sindacati di quei tempi, era una vita dura in tutti i sensi (adesso non ci rendiamo conto ma ci lamentiamo per nulla). Non sono un grande critico o un accanito lettore, però aspetto il tuo secondo libro e ti faccio ancora i complimenti 👏👏👏👏 grande Enzo.

  10. Arturo Previtali

    Un’accorata dichiarazione d’amore per la Sicilia, un romanzo appassionato e imprevedibile. Bello!

  11. Arturo Previtali

    Un’accorata dichiarazione d’amore per la Sicilia, un romanzo intenso e imprevedibile. Bello!

  12. (proprietario verificato)

    Un libro che si legge tutto d’un fiato con tanti colpi di scena e che ti prende sino alla fine. Una vicenda che ha come sfondo un perido della nostra storia forse sconosciuto a molti con fatti e luoghi molto ben ricostruiti. Complimenti all”autore, veramente un ottimo esordio.

  13. (proprietario verificato)

    Un libro che ho letto in pochi giorni perché appassiona e prende più si va avanti con la lettura. Un avventura di personaggi che hai voglia di scoprire e che ti fa immaginare conclusioni diverse. Ti consente di viaggiare nel dopoguerra in un paese della Sicilia e nella città di Milano. Ottimo anche con richiami in perfetto siciliano. Pino

  14. Antonella Marchesin

    “Comu vena, si cunta!”….da leggere assolutamente! Complimenti allo scrittore per le emozioni che è riuscito a farmi provare! Un romanzo davvero ben scritto, scorrevole e avvincente!
    Non vedo l’ora di leggere la continuazione.

  15. (proprietario verificato)

    Che dire…? entusiasmante! La storia del dopoguerra si intreccia con scorci artistici e paesaggistici, e Vincenzo ci fa sentire la nostalgia della Sicilia che accompagna i ragazzi in ogni momento! Mi è piaciuto ogni capitolo di questo romanzo… aspetto il prossimo
    Mi è piaciuto molto!

    Quando esce il prossimo?

  16. (proprietario verificato)

    Che dire…? entusiasmante! La storia del dopoguerra si intreccia con scorci artistici e paesaggistici, e Vincenzo ci fa sentire la nostalgia della Sicilia che accompagna i ragazzi in ogni momento! Mi è piaciuto ogni capitolo di questo romanzo… aspetto il prossimo
    Mi è piaciuto molto!
    Quando esce il prossimo?

  17. (proprietario verificato)

    Non è stato facile centellinare la lettura di questo romanzo perché la storia è scorrevole, ben scritta e molto avvincente, tanto che, a mio parere, potrebbe essere un’ottima base di partenza per la sceneggiatura di un film o una fiction di successo!!
    Consigliato agli amanti della lettura, ma non solo; lasciatevi guidare dai ragazzi di Licata lungo il cammino attraverso i due volti dell’Italia del secondo dopoguerra, dall’estremo Sud al profondo Nord, non ve ne pentirete! Buon viaggio!!

  18. Francesca Capellino

    (proprietario verificato)

    Una sorpresa! Una storia che sembra quasi una favola ambientata in un’epoca storica da conoscere, veramente ben raccontata. Luoghi e personaggi talmente ben descritti da immedesimarsi e un finale che lascia…la voglia di vedere come continua!

  19. (proprietario verificato)

    Non sono mai stata una gran lettrice, per questo sono stupita dal lavoro di Enzo, il libro l’ho letteralmente DIVORATO, una vicenda appassionante che non ti fa staccare dalle pagine, colpi di scena, intrighi, amori e il tutto si incastra alla perfezione come un puzzle perfetto. In Sicilia ci sono stata catapultata con tantissimi colori e profumi. Che dire ancora, bravo cognato, orgogliosa del tuo meraviglioso lavoro!

  20. (proprietario verificato)

    Libro avvincente, ricco di fatti inaspettati e con colpo di scena finale. Lo consiglio in attesa di un seguito.

  21. (proprietario verificato)

    Questo libro è l’inizio di un lungo viaggio che consiglio assolutamente.
    Una bella lettura, una storia inaspettata e coinvolgente.

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Vincenzo Bonelli
nasce a Licata il 1° marzo del 1968 e nel settembre dello stesso anno la sua famiglia si trasferisce al Nord. Dopo essersi laureato in Scienze politiche presso l’Università Statale di Milano nel 2001, incomincia a lavorare come responsabile del settore finanziario presso il comune di Vaprio D’Adda. Dal 1996 è sposato con Silvia, con la quale ha avuto
due figli, Valeria e Nicola. Comu vena, si cunta! è il suo romanzo d’esordio.
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