In un morbido scenario fatto di colli, prati che esplodono di vita e tanto caldo, Leonardo entra in contatto con una realtà così diversa a quella cui è abituato, più lenta, più calma e pacifica nella quale il tempo scorre placido come un torrente fresco. E in quel torrente Elia, un ragazzo che vive in quelle distese di verde, compare nella sua vita come una luminosa stella cadente.
Il mondo di Leonardo piano piano inizia a cambiare. Quello che doveva essere un momento di quiete per riprendere contatto con la sua capacità di scrivere, apparentemente persa, si trasforma ben presto in una scoperta di qualcosa di così nuovo, così forte e denso da lasciarlo disarmato. E nella fuga dal suo mondo, che gli pareva l’unica soluzione per sentirsi nuovamente libero, scopre che ciò che conta davvero passa attraverso gli occhi di quel ragazzo, che gli insegnano che se si può scappare da ciò che non si ama, non può scappare alla vita!
Perché ho scritto questo libro?
In questa storia ho sparso qua e là alcune parti me, cercando di non nascondere nulla; né le asperità né le zone di ombra. Ho voluto raccontare un viaggio e una storia di sentimenti già gravati di un peso al loro sbocciare, perché mi avrebbe permesso di ampliare ulteriormente lo spettro delle emozioni umane che volevo raccontare, narrando una storia che potrebbe essere quella di tutti.
ANTEPRIMA NON EDITATA
1
“Spesso s’incontra il proprio destino nella via che s’era presa per evitarlo.”
(Jean de La Fontaine)
Se non fosse stato per qualche ragazzo sulla banchina in attesa del prossimo treno in arrivo, avrei potuto illudermi di essere l’unico uomo rimasto al mondo.
O forse no. Forse era solamente la sensazione di estraneità a tutto a farmi provare quel vuoto dal quale mi sentivo circondato, come fossi un intruso cui non era consentito trovarsi lì.
Caricai il grosso bagaglio sulle spalle, come un condannato ormai rassegnato alla propria sorte, e mi misi in marcia per attraversare il solo binario che divideva le due banchine utilizzando il passaggio sotterraneo. Come se passassi attraverso ad un tunnel spazio-temporale che mi avrebbe condotto in una altra dimensione, lontana anni luce da quella che mi stavo lasciando alle spalle. E un po' mi piaceva il sapore di promesse appena accennate che sentivo nell’aria, anche se mi faceva paura come tutte le volte che mi sforzavo di affrontare qualcosa di nuovo.
Fu il silenzio ad imprimersi nella mia mente, non appena sceso dal vagone, con una assenza di suoni così vigorosa da rimbombare nelle orecchie come un frastuono assordante.
Viaggiavo solo e, sebbene lo desiderassi da tempo, quel viaggio mi appariva anche spaventoso perché non ci sarebbe stata nessuna distrazione a salvarmi da me stesso. Motivo per il quale cercavo di non fare troppo rumore, per non consentire a quelle poche persone intrappolate nel nulla di una stazione di rendersi conto che fossi lì anche io, esule in mezzo ad altri esuli.
Del tutto simile a quelle anime in attesa di giudizio, che aspettavano sull’orlo di un precipizio la sentenza che avrebbe potuti precipitarli nel vuoto e nell’oblio.
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Era un posto abbastanza desolante; una sorta di ponte temporale tra gli arrivi e le partenze, piuttosto sporadici in quella parte di mondo sospeso nella campagna.
Estrassi dalla tasca esterna del borsone il foglietto sul quale avevo segnato le indicazioni per raggiungere la mia meta, seguendo per filo e per segno quanto indicatomi da Samuele.
«Non è difficile,» Mi aveva assicurato.
Mi avrebbe concesso la casa per trascorrere l’estate in quello sperduto paese della Toscana, illudendomi che avrebbe potuto rappresentare la mia via di fuga.
«appena uscito dalla stazione, devi prendere il bus numero cinque, che ti porterà direttamente a C. Poi chiama.»
Si trattava di un mio vecchio amico che, di tanto in tanto, andavo a tirare fuori dalla rubrica telefonica senza che questo avesse mai allentato il nostro affetto. Era stato uno dei pochi a non essersi fiondato su di me, come un avvoltoio su di una carcassa secca al sole, da quando ero diventato celebre. Forse risiedeva proprio lì la ragione che mi aveva spinto a rifugiarmi da lui senza pensarci troppo, perché sapevo non avrebbe visto altro che il ragazzo timido che si portava in giro per quelle silenziose valli, durante estati appiccicose come colla che impiastrava le dita.
Alzai lo sguardo all’orologio della piazza, fermo alle ore diciassette da chissà quanto, quasi volesse ricordarmi che il tempo di cui disponevo era scaduto.
Un bar, con il cartello dei gelati disponibili esposto in vetrina, era la sola attività aperta nell’arco di chissà quanti chilometri. L’asfalto sembrava quasi liquido e riluceva come un fiume di mercurio creando un impatto di insieme abbastanza inquietante che, con un po' di immaginazione, avrebbe tranquillamente potuto essere l’inizio di uno di quei film dell’orrore di terza categoria. Di quelli nei quali una vacanza serena si sarebbe trasformata in un massacro, via via che il protagonista avrebbe scoperto i segreti degli abitanti del posto.
Quando il bus arrivò sbuffando come se cercasse di riprendere fiato, andai a sedermi sugli ultimi sedili, posizionando lo zaino tra le gambe. Oltre me, vi erano un signore anziano, vestito come fosse rimasto congelato negli anni cinquanta, e una giovane donna con le buste della spesa, persa nel vuoto di uno sguardo che conosceva a memoria quei tratti morbidi color grano.
Scelsi il seggiolino vicino al finestrino perché osservare il paesaggio scorrermi accanto era un modo per trascorrere il tempo che avevo sempre amato. Mi ero anche convinto che fosse dovuto a questo la ragione per la quale detestassi guidare. Oltre al fatto che mi distraevo facilmente e il mio senso civico mi impediva di mettermi alla guida di un veicolo, rischiando una strage di innocenti ogni volta che uscivo.
Con appena due svolte mi ritrovai su una strada suburbana che sprofondò in una dimensione ondulata di morbide colline dalle mille tonalità di giallo e sparuti alberi, raggruppati in piccoli insiemi qua e là lungo prati che sembravano infiniti. La rigogliosa bellezza di tutta la visione avrebbe dovuto predisporre chiunque al buonumore ma, sui miei sensi almeno, aveva l’effetto di cementificare quella sensazione di abbandono e crepuscolo che avvertivo da così tanto da non ricordare quasi ci fosse stato un prima.
Lasciai che il mio sguardo scivolasse lungo quell’infinto sabbioso, immaginando a quali realtà e a quali vite potesse condurre. Simili a decine di dimensioni parallele con regole e leggi universali differenti da quelle cui ero abituato, nuove e straniere.
Punteggiate di sassi e costeggiate da piccoli canali, quelle strade portavano a mondi, ad esistenze e a persone che non avrei mai incontrato ma che esistevano, formando un ammasso di costellazioni in un universo a me ignoto. Allora mi sforzavo di figurarmi la quotidianità di quella gente, della quale non avrei mai saputo nulla.
Mi domandavo quali strappi del destino si sarebbero venuti a creare se fossi sceso in quel momento, scombinando i piani di chissà quale divinità che non aveva null’altro da fare che complicarmi le cose. Magari scoprendo un eterno ripetersi delle stesse scene senza tempo, senza secolo, nel quale il punto di fine andava a confondersi con quello di inizio in un circolo perpetuo che si ripeteva dalla prima notte dell’umanità.
Non nego che prendere quella decisione mi avesse in qualche modo eccitato, facendomi riscoprire di possedere ancora uno scopo, dopo mesi nei quali i miei sensi si erano dissolti e diluiti in una grande pozza di niente, nella quale ogni sfumatura di colore era inghiottita da un buco nero che non lasciava entrare la luce.
Non avrei neanche trovato una ragione valida che potesse sostenermi in quella profonda discesa agli inferi, come mi divertivo a chiamarla con quella tendenza a sdrammatizzare tutto che mi aveva sempre protetto dai colpi della vita.
Mi serviva come fosse un paracadute, cercare il lato ironico delle cose, perché sembrava più facile affrontare i fantasmi riducendoli ad una buona battuta di black humor che lasciarsene afferrare come una preda ormai sfinita. Mi dava l’illusione di poterli controllare, schioccando la frusta nell’aria come un domatore di leoni. Ignorando i loro ruggiti e le loro zampate affilate, e poterli respingere nelle gabbie in cui dovevano stare per non temerli più.
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