Esiste una regola per cui se, alla fine dell’orario di lavoro, ti avvicini ai colleghi per salutarli e alla porta per uscire, il tempo si allungherà fino a diventare tre volte tanto quello effettivo.
È una regola, davvero.
Si possono immaginare tutte le reali (e non) motivazioni di questa cosa ma il tempo si allunga davvero, ogni giorno di più, soprattutto per Mattia. Dieci minuti che durano trenta, venti che durano sessanta, un’ora che ne dura tre.
È assurdo, eppure il nostro eroe ci fa caso ma non ne parla con nessuno – figuriamoci – perché già gli dicono che è matto così e gli manca solo il carico da undici per sigillare con i chiodi la bara.
Un venerdì sera esce cinque minuti prima solo perché non gli va di aspettarne quindici, mette lo zaino sulle spalle, lo scaldacollo che odora un po’ di sudore e andrebbe lavato (ma poi non asciugherebbe in tempo per l’inizio della settimana), la giacca a vento e via. Cammina, anche se quando poi esce presto non sa mai cosa fare, ma quella possibilità di perdere tempo gli sembra una cosa preziosa. Allora, sai che c’è? pensa. Passo da mia madre.
Prende una metro per otto fermate, allunga di quattrocento metri a piedi e passa davanti a un fornaio; il dottore gli ha detto che ha la pressione alta e che deve regolarsi, quindi non si ferma a prendere neanche un pezzo di pizza bianca (perché pare che il sale faccia male a questa cosa qua). Arriva al portone dove è cresciuto, rivede vicino all’albero il fantasma del suo motorino, la buca delle lettere che è stata rimpiazzata dal raccoglitore per la pubblicità dei negozi, la grata della cantina ripulita dagli adesivi dei traslocatori e una scritta – “Digos boia” – che sta lì da sempre.
Citofona e sa che dovrà aspettare.
Un minuto, due.
Prende il cellulare e chiama a casa. «Ma’, dove stai?»
«A casa, perché?»
«Perché ti sto a citofona’ da due minuti…»
«Eh… Stavo innaffiando le piante sul balcone.»
«Sì, ma mi apri o parliamo al telefono?»
Gli apre, finalmente, e lui tira giù due madonne al pensiero che sì, avrebbe potuto andarsene a fare un giro sul Lungotevere – per esempio –, e invece sta lì, a fare che non si sa. Ah, sì, quel senso di malinconia che ha dentro e che sta cercando di togliersi.
La madre ha aperto la porta ma, come al solito, non si sposta da davanti l’uscio, e lui le deve sempre dire: «Bello il tappetino. Me fai entra’?».
«E mamma mia! Ti rode?»
«No, non mi rode, ma se non ti sposti non posso entrare in casa.»
«Come mai sei passato?»
«Me lo stavo chiedendo pure io…»
«Eh?»
«Niente, passavo di qui e ho pensato di fare un salto.»
«Ti faccio un caffè?»
«Va bene, pure se ce l’hai freddo è uguale, eh.»
La madre neanche filtra la domanda, va oltre: «Preferisci la moka o la macchina con le cialde?».
«Quello che ti pare.»
«Dai, quale delle due?»
«Quello che te pare, è uguale, tanto non lo sai fa’ comunque.»
«Allora vaffanculo, fattelo te!»
«Con la moka, va bene con la moka.»
La madre sciacqua il serbatoio della moka, è già pulito ma lo ripassa velocemente sotto il getto dell’acqua, sciacqua anche il filtro e lentamente carica il caffè macinato senza schiacciarlo. Tutto da manuale, così dicono. «Sai che la figlia della vicina se ne va a Bologna?»
«Sì, ma’.»
«Vabbè ma se te scoccia che parlo, dimmelo che me sto zitta.»
«Ma’, per favore, basta con ’sta cosa del “se ti scoccia che parlo eccetera eccetera”. Rompe il cazzo, non t’ho detto nulla, è solo che me l’hai ripetuto sessantatré volte; va bene anche sessantaquattro, eh, sia chiaro, ma te stai a rincojoni’.»
«Tanto non voglio campa’ troppo.» E tira giù una serie di colpi di tosse che lui pensa che al posto suo gli sarebbe cascato un polmone per terra.
«E che cazzo! Almeno smetti di fumare! Senti che tosse.»
«Ma mica è tosse, è allergia, sto a starnuti’.»
«Sì, col catarro, e io piscio dal culo.»
«Carino, elegante, da quando dici ’ste porcate, te?»
«Da quando avete deciso che da ragazzino dovevo studiare dalle suore. ’Sto caffè?» Guarda il cellulare, sono passati dieci minuti, deve resisterne altri due: almeno dodici per una visita di volata e un caffè, e mettiamo il record del mese – che rimane tipo i duecento metri di Mennea, undici minuti e trentasette secondi. Quando cominciano a rispondersi così arriva al limite e gli manca l’aria, è venuto per malinconia e se ne vuole andare per esasperazione. Neanche una e-mail di lavoro che possa distrarlo, neanche una cazzata sul gruppo WhatsApp degli amici del bar. Anche la tecnologia gli sta dicendo: «Accollatela!». Non si arrende a questo giro che fa ogni volta, alle buone intenzioni che diventano qualcosa che si dà in faccia a schiaffoni, tipo Zio Paperone che mena Paperino con dei salmoni da sei chili, ma più forte. Prende il caffè, tre dita di tazzina oltre il concetto di lungo. «Vabbè, me ne vado.»
«Ma dimme qualcosa, al lavoro come va? Rimani a cena, no?»
«No, ma’, grazie. Devo fa’ dei giri e poi vado a casa a dormire. A lavoro tutto uguale.»
«La piccoletta mia?» Sarebbe la gatta di Mattia, che è socievole ma non sopporta il fatto che quando la madre passa a trovarlo a casa abbia sempre con sé le buste della spesa. La micia ha l’idiosincrasia per quelle, dato che una volta ha iniziato a giocare con una e non riusciva a sfilarsela, e terrorizzata ha iniziato a correre per casa sembrando una specie di Superman quadrupede con un mantello verde acqua. Da lì la fine.
«Sta bene, magna e dorme. Ciao, ma’.» Neanche aspetta il saluto, chiude la porta, scende le scale quasi di corsa ed esce dal portone come da un’apnea. Incrocia Julie, il suo grande amore d’infanzia, figlia di condomini del palazzo della madre. La saluta con un cenno della testa e un mezzo sorriso, non sa come sia la propria faccia, a occhio potrebbe avere la stessa di uno appena uscito da una sessione di waterboarding, e infatti respira a pieni polmoni, come quando si faceva corse da dieci chilometri, solo che ora è in affanno. Gli scende una lacrima, di rabbia, per il senso di impotenza e sconforto che si assegna da solo perché va a finire sempre così; perché da questo loop può essere che non uscirà mai, ne è conscio e probabilmente neanche può sottrarvisi. Forse neanche vuole. Ora piange con più vigore, senza fare rumore, come se avesse una congiuntivite bella potente.
Inizia a camminare per strade meno frequentate ma dove almeno non corre il rischio di incontrare nessuno, di dover salutare e dire che ha una congiuntivite forte. Si mette le cuffie e le attacca al cellulare, cerca una canzone triste. Ha le dita bagnate e impastrocchia lo schermo, smadonna ancora. «Eddai, cazzo! Funziona!» esclama frignando. Se lo pulisce sul maglione, sul petto, e sceglie un pezzo dei Bon Iver – tanto ascolta sempre lo stesso in loop, Holocene, quello che dice: “And at once I knew I was not magnificent”. E gli sembra di scomparire, vorrebbe scomparire, ma poi alla gatta chi ci pensa? E alla madre? Semplicemente non può farlo e gli manca l’aria perché è l’unica cosa che sente essere necessaria. Fare come Anna Karénina, come Elliott Smith, come Michael Hutchence (vabbè, questo no, solo perché poi avrebbero dovuto spiegare alla madre come si sarebbe ammazzato). Insomma, fare. In un qualche modo, ma fare. Cancellarsi, perché alla fine arriva a invidiare la calma e la vita corta degli animali e l’essere inanimato delle macchine, che tanto spingi un comando ed eseguono, diventano vecchie e vengono portate alle isole ecologiche ad arrugginirsi. Una morte onorevole.
Gli manca l’aria e allora che fa? Va alla rosticceria sotto casa sua, si prende mezzo pollo con le patate, due supplì, due pezzi di pizza (margherita e patate e mozzarella), un calzone ripieno e una Pepsi, poi sale in casa, che dista un chilometro da quella della madre. La gatta gli va incontro appena apre la porta, tutti i giorni fa la sua pantomima autistica, una specie di capriola per terra per farsi prendere in braccio. Lui cede, lei gli fa il pane addosso con le zampe e lo guarda, chiude gli occhi e fa le fusa.
Le dà da mangiare e ha questa presunzione che lei sappia scegliere cosa le piace di più perché le mette una bustina davanti e lei la prende a capocciate. Il fatto è che la gatta prende a capocciate tutte le buste, sa solo che là dentro c’è roba da mangiare. Ma fa niente, a volte prendersi in giro serve anche a togliersi quel senso di inutilità e fatalità.
Sgombera il tavolo della cucina e prende quattro piatti, ci mette il pollo con le patate, i supplì, la pizza e il calzone. Inizia a mangiare le patate con le mani, in piedi, poi si mette seduto appena gli passa il fiatone; taglia il pollo a pezzi identificando le parti con la pelle più croccante e la carne meno stopposa; morde mezzo supplì – che neanche ha fatto scaldare e neanche sarebbe male, se fosse facile mandarlo giù – e un angolo dei due pezzi di pizza; inizia il calzone dal mezzo, non dalla parte curva ma da quella dritta, per arrivare subito al ripieno. È troppa roba ma fa lo stesso giro una, due, tre volte; alla quarta inizia a piangere, in silenzio, perché quando ha singhiozzato l’ultima volta la gatta l’ha sentito e gli si è strofinata addosso, lui allora ha pianto più forte perché si è commosso, perché ha pensato che fosse empatia – magari lo è davvero, ma vai a sapere… Da dove sta vede solo il culo della gatta, che sbuca da dietro la porta della cucina, dove ci sono i suoi piattini, è china a mangiare ed entro due minuti avrà finito. Mattia pensa che lui stesso mangerebbe fino a farsi collassare lo stomaco; alla fine, forse, tra tutte è la morte che sarebbe più dolorosa.
E continua.
Continua.
A un certo punto si ferma, si alza di scatto, il tempo di far scappare la gatta e correre in bagno. Si tocca il palato con il dito, non riesce manco ad arrivare alla gola che si butta al volo con la faccia sul gabinetto e vomita. Vomita tutto. Piange più forte e la gatta gli sale sulle spalle facendo scala sul bidet e sulla sua schiena.
«Non è successo niente, Margot. Non era buono, sta’ tranquilla.» Finge anche con lei. La prende in braccio, si mette una maglietta e dei pantaloni leggeri, s’infila a letto e spegne tutto, fa niente se non sono neanche le ventuno. Dice: «Domani sarà diverso».
2. Strozzapreti alla romana
Nella trattoria non ci sono tanti tavoli occupati, ma è una di quelle sere in cui la gente sente il bisogno di urlare per comunicare con chi le sta a sessanta centimetri di distanza. Mattia e Stefano non strillano ma si avvicinano ogni volta che devono dirsi qualcosa.
«E insomma, hai svoltato» dice girando il bicchiere tra le mani, con il sorrisetto con cui storicamente in parte si compiace e in parte invidia l’amico.
«Vabbè “svoltato”. Ste’, è un parolone. Mi ha detto bene, dai.» Si guarda intorno come se qualcuno potesse ascoltarli, gioca con la forchetta, fa le scie sulla tovaglia un po’ come Gregory Peck in Io ti salverò.
«’Tacci tua! Fai sempre il modesto, sei diventato direttore di un supermercato; che rotture de cojoni puoi ave’, il latte scaduto?»
«Vabbè, de rotture de cojoni ce ne possono essere, eh. Metti i taccheggiatori.»
«Sì, ma quanti possono essere?»
«Che ne so? È per dire, metti pure ’na rapina.»
Qualcuno sbatte la porta d’ingresso e una ragazza quasi cade. Mattia in quel momento pensa che se la sono tirata parlando di rapine e che sta per essere testimone di una. Trattiene il respiro un attimo.
Si girano entrambi di scatto e impallidiscono. Probabilmente si sono immaginati la stessa cosa.
«A quello non avevo pensato.»
«Però ci stanno le guardie, ormai. Vabbè ma, insomma, parliamo d’altro. Anzi, spe’ che mi sono scordato di chiedere una cosa al cameriere.» Si guarda intorno, lo vede, alza il dito come per prendere parola come non ha mai fatto al liceo; infatti è un gesto un po’ goffo, a metà tra il coro in curva e il voler indicare una crepa nel muro. «Cameriere! Scusa, eh, me porteresti insieme ai saltimbocca, invece della cicoria ripassata, un bel carciofo alla giudìa? Te ringrazio, eh, scusa per la rottura de cojoni. Dicevamo, ma hai letto ’sta cosa degli alieni?»
«Ma quale?»
«Quella degli alieni che già stanno qui, che tramano, fanno, complottano. Manca poco e ci colonizzano.»
«Aaahhh! Se, vabbè! E dicono che la temperatura che s’alza è tutto un effetto delle astronavi che sono invisibili. Letto, sì.»
«Poi ce sta quella cosa che dicono che tutti ’sti ristoranti giapponesi che stanno a uscì fuori, sotto sotto, so’ un segno, come un messaggio in codice.»
«Scusa, eh, ma me pare difficile da capi’ ’sto messaggio. Magari è colpa degli alieni che ce se rompono i crociati.»
«Lascia sta’, non ce se crede. Mo’ vado a famme ’na lastra pure io, hai visto mai…»
«Ecografia.»
«Vabbè, lastra, ecografia, sempre raggi so’. È che mo’ deve gioca’ quel rincojonito.»
«Ahò! Non me tocca’ Bruno Peres.»
«No, no, io lo tocco. Lo tocco eccome, quello sta talmente rincojonito che chiede quali semo quando entramo in campo. Se je levi le righe del campo, te lo ritrovi in curva a canta’. Ma piuttosto, te sono due partite che diserti. Cazzo c’hai da fa’? Hai detto che hai smesso col Deliveroo.»
Ora è Stefano che si guarda intorno, con il sorriso di chi è stato beccato. «Te credo! Mortacci loro, m’hanno inculato la bici! No, me so’ dato, per ora, agli impicci. So’ du’ volte che non vengo perché c’ho da fa’.»
«“C’ho da fa” si traduce da sempre con “c’ho da scopa’”. E dillo!»
Ecco, tana per Stefano. «Vabbè, sì. Ce sta questa.»
«Questa.»
«Sì, questa. Se chiama Valentina, è del Torrino, bionda tipo scura, c’ha un po’ i denti davanti che se vedono – non proprio tipo dentoni, eh, poco.»
«Ma è de quelle solite tue co’ l’orecchini a cerchio?» Nel frattempo gli passa il piatto con metà carciofo, senza chiedere se lo vuole e senza che gli sia stato chiesto. Stefano lo prende, se lo mette davanti e, dopo qualche secondo di silenzio in cui sembra avere trovato la risposta giusta, dice: «Vabbè, mo’ che c’hai co’ l’orecchini a cerchio?».
«E te chiama “amo’”.»
«E che vuol dire? Non fa’ il classista, se io so de Testaccio, te sei de Garbatella, non semo cresciuti alla John Cabot, eh!»
«Sì, ma te c’hai l’identikit, te sgamo sempre pure a Indovina chi. C’hai la copia conforme de chi te vuoi scopa’.»
«Insomma, stamo a pensa’ d’anda’ a vive’ insieme.»
«E la conosci da…?»
«Tre settimane.»
Silenzio. Dieci secondi, venti, trenta. Poi Mattia rompe il ghiaccio: «Be’, dai, oh… una scelta ponderata, pesata. Mi piace. Quando me la fai conosce’?».
«Ah, non lo so, sta sempre impicciata col lavoro.»
«Che è?»
«Vabbè, questo forse è un aspetto che me fa rode’ er culo.»
«Cioè?»
«La ragazza immagine pe’ le serate de certe mmerde.»
«Vabbè, mo’, mmerde…»
«Sì, mmerde, già l’ho capiti e ne ho visti un paio, de quelli co’ le camicette azzurre, er capello come Roberto Mancini, le Clarks. Gente demmerda de Balduina. E se ho capito bene, uno è tipo l’ex.»
«Aaahhh, ecco che era!»
«Sì ma hanno chiuso, eh. Chiusochiusochiuso.»
«E allora, perché te rode er culo?»
«Perché io i “chiusochiusochiuso” li conosco e finisce che poi vado a mena’ a qualcuno.» Si scurisce e mastica ancora con più forza il quarto di carciofo che gli era rimasto davanti, come se insieme a quello stesse per ingoiare anche i pensieri.
«Sì ma stavolta chiamame.»
«Vabbè, ancora pe’ quella volta.»
«Del resto, che vuoi che sia? Te sei fatto venti giorni de prognosi riservata, sei andato da solo contro quelli, che erano dieci e de Blocco Studentesco.»
«Che c’entra, avevano detto “zoccola, zecca demmerda” a mi’ sorella.»
«Sì ma stavolta chiamame.»
«Te chiamo, te chiamo.»
«Come so quei strozzapreti?»
«Assaggia. Come era il pezzo di Suarez e Danno?»
«“Menu del giorno, specialità nostrana. Questa è l’osteria del Colle strozzapreti alla romana”.»
«Su ’ste mano.»
«Massicci!»
Si danno il cinque stringendosi per qualche attimo la mano, si sorridono. Poi pensano al secondo da ordinare.
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