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Cronache dal Metaverso

Cronache dal Metaverso

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Consegna prevista Luglio 2023
Bozze disponibili

Chi è il protagonista che racconta la propria vicenda in prima persona?
Non lo sa nemmeno lui, immemore com’è del suo passato. Come se fosse un avatar in un altro universo.
Soffre di amnesia? Oppure il suo istinto primordiale protegge con questo stratagemma la cosa più preziosa che possiede?
La ricerca di se stesso e del suo tesoro, si intreccia con quella del suo misterioso nemico, un novello Serpente che cerca di irretire questo moderno Adamo.
Ed infatti vi sarà anche una nuova Eva. Anzi, tre. Al contempo Grazie ed Erinni .
Il nostro protagonista, come una sorta di Orfeo, visiterà oltre-mondi e meta-versi, come la Terra del Sogno, e viaggerà attraverso il tempo, nel regno della Musica.
Troverà amici e compagni di strada inaspettati: l’uomo dal baffo buffo, il monaco, la scimmia che crede di essere Napoleone.
Ma la trappola preparata dal suo Avversario è già pronta a chiudersi su di lui. Sfuggirà questo odierno Prometeo all’ira ed alla gelosia delle divinità?

Perché ho scritto questo libro?

“La bellezza salverà il mondo”, dice Dostoevskij. Se così è, perché ciò che è bello, è vero e buono, allora eliminare la bellezza è la vera missione del maligno. Da qui nasce questa storia, scritta con la sventata ambizione dei vent’anni. La trama è semplice. La profondità – non v’è nulla di più profondo della superficie – è nella forma e nello stile di quest’opera da leggere ad alta voce, come una poesia, per gustarne il linguaggio aulico ed il pastiche di alto e basso e giochi di parole.

ANTEPRIMA NON EDITATA

I.

Questa è la storia della follia danzante.

La storia del grande spettacolo, il mirabilis excelsus del mondo vivente, delle coscienze che si lanciano contro le cose, delle volontà in lega e in lotta.

Vi sono alberi “all’ingiù”, le cui radici svettano nel cielo, le cui fronde affondano nel fango. Alberi genealogici.

Questa dunque è la storia del mio albero genealogico, di quella pianta  selvaggia e degna di combustione, venuta a nascere vicino al sole, finita a banchetto con i vermi. Narrerò della mia vita, entità pressoché priva di realtà, consistenza, senso, esistenza. La sua unica verità è l’insistenza: una frode perpretrata ai danni della mia memoria, affinché ponga ogni attimo del passato in una prospettiva affatto particolare e penosa. Quella che io chiamo la mia prospettiva. Come se potessero essercene delle altre.

Questa storia inizia con un salto e una caduta.

L’UOMO DAL BAFFO BUFFO

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All’età di trent’anni mi guardai alle spalle temendo che il mondo fosse scomparso. Che il genio maligno mi avesse tramutato in un cervello immerso in una vasca di liquido nutrizionale.

Passeggiavo verso qualcuno – una donna o una presenza inappagata, un’isola da raggiungere, una terra su cui trovare un vero albero: fronde in alto e radici sotterra.

Ebbi testé la sicurezza definitiva che tutto ciò che mi era invisibile – il mondo dietro la mia nuca – fosse in realtà tale: invisibile.

Perciò mi voltai, pur tuttavia conscio che non avrei potuto vedere nulla: qualcosa avrei visto, o vuoto o cecità, ma non nulla.

Ed infatti non vidi il nulla – come se potesse essere – visto –   – . Scorsi l’uomo dal baffo buffo fissarmi e levare verso il cielo, in segno di giuramento, profezia e anàtema, il suo braccio furente e dire con voce tonica:     

«Che fai: perduri? Dove vai: corri? Urla pure, se ti pare. È d’uopo urlare, urlare ed ascoltare.»

Non sopportai simili parole. Controcorsi i miei moventi e ritornai donde stavo andandomene. Affrettai dunque alla donna che mi attendeva – un mistero ancora – .

E bene, un impeto d’impulso mi contenne prima e mi rivolse poi. Rivoluzionai sulla mia orbita giungendo a opposta stagione.

L’uomo dal baffo buffo mi guardava: i suoi occhi! Roventi, remoti! Ardenti, antichi!

Ma sulle labbra gli si aprì un sorriso – scherzoso – .

«Come ti chiami?», gridai.

«Guglielmo.»

«Di dove sei?»

«Röcken, Sassonia.»

«Dove?»

«Germania… Deutschland, Deutschland über alles!», rise.

Tutto sommato: un grido e una pazzia.

LA FEMMINA

In ultimo, in quel giorno del trentennio, momento di dubbio sulla realtà – il nulla dietro di me – e della realtà di un dubbio – l’uomo dietro di me – , pervenni al cospetto corrusco di una donna – chissà: la donna – .

Ella, corriva e brillante, subita mi carezzò il viso e sorridente mi diede un bacio. Un bacio di quelli che dà la gente che sorride – labbra tese, chiuse per un attimo le une sulle altre e di nuovo ridistese in un ghigno soffice – .

Io mi domandai chi fosse. Ogni ricordo mi è sconosciuto fino al minuto istante prima in cui la luce della mia memoria non traduce informazione in informazione – dal noto all’ignoto o ancora da questo a quello? – . In fondo all’epoca ero un uomo fin ingenuo e privo di pregiudizi – nei limiti di quanto è possibile a humana natura – ma più d’ogni altra cosa ero un uomo dalle mani lavate ed asciutte.

«Mademoiselle

«Buffo!», ridacchiò con voce serica.

«Hai visto quell’uomo? Ha gridato “Deutschland über alles”, chissà se sapeva che sono mezzo ebreo… poteva essere uno scherzo… Crudele dici? E poi quei baffi enormi, cascanti, ancor più: zampillanti. Un fiero cipiglio, di qualità ardita e occhi tormentati e ben strani… guardano nel profondo.»

«Nell’abisso, sciocchino.»

La sapeva lunga, la donna. Ed io che ancora cercavo il suo volto nelle mie membra – in quella porzione di spazio compresa fra le mie orecchie.

«Ride mai? E come devono sussultare i mustacchi… mustacchi, ben gli si addice un suono così… buffo. Mustacchio. Baffo buffo. Ecco.»

«Tu sei buffo!», guaiolò stringendosi forte a me.

Mi si premette contro ed io credetti di soffocare od impazzire – lì in mezzo al prato o alla città, fra la gente ed il deserto – .

Invece il ricordo rinacque o creai ex nihilo. Ed ecco tacque.

L’ANGELO E LA CAGNA

Se mi ricordo di te, donna dal sorriso aperto e travolgente? Il tuo nome potrebbe essere Maledizione delle Altezze, o forse Babilonia. Il tuo capello rosso fumante: riflessi rutilanti quando il lucòr solare passa di tra le fronde che ti ornano il capo! I tuoi occhi calmi, acquosi, castani come le querce antiche: occhi bovini, avrebbe detto Omero il cieco.

Queste due cose rimembrai in un solo immenso istante di estrema rivelazione. Tutto torna! Tutto si ripete in eterno, persino il caos primigenio! Infinite volte ed una sola volta – non è forse – lo stesso – ?

La mia mano plasticamente le si modellò sul collo, dietro la nuca scivolò e trasse, trasse portandola a me. Ecco il bacio passionale fra me e lei. Senza sorridere, codesto turno.

«Gira, la ruota gira.», sussurrò non appena ci dividemmo, placide le acque del Mar Rosso.

«Non è forse… risurrezione?»

«No.»

«Dove andiamo?»

«Come? Non ricordi?»

Scossi la testa accennando un’espressione di disperata ed esasperata rassegnazione.

«A cena dai Magretti.»

«I Possanza?»

«Sì, anche loro.»

«Non che mi siano simpatici. »

«Per quale ragione?»

«All’alba l’uno s’alza e colla moglie si unisce, bestiali senza pietà, e credono di amarsi.»

«Hai sempre di queste idee!»

«Ma sì: perché del sesso non si possono avere che due buone concezioni, e prospettive.»

«Posits»

«Ecco. O lo si vive come scherzo giocoso, cangiante, allegro brillare dei sensi e perfetta armonia trillante. E proprio ridersene e gioiosamente scambiarsi il corpo, in un’orgia festosa e sagace, intrecciandosi di membra birichine. Ovvero averne una immagine opaca e nascosta, di luogo segreto e prezioso, persino un poco pauroso, in spregio di ogni cosa larga; una fonte rara, dove può capitare anche lo spavento e vivere tutta la pruderie e tutto il mistero, come l’India che attrae ed incute timore. Ecco: o giostra o scrigno!»

«Romantico. Ma non in quel senso moderno e triviale, come mi ben capisci.»

«Gli altri invece son troppo astuti, verdi e pieghevoli, con quell’aria burbanzosa posticcia.»

«Ma andiamo! Matelda Magretti è una signora tanto affabile!»

«Un serpente!»

«Non dire sciocchezzuole: ella ti ama.»

«Quel che dicevo: un serpente. E senza i sonagli che avvertano al meno.», camminavamo fianco a fianco, per mano stringendoci e cadenzando un passo andante ballerino, «E poi questa faccenda che mi ami non la conoscevo prima. Un bel fastidio, converrai. Stai lì, io con te, ella con il suo degno consorte (benché così furbo), e ti devi accorgere dei suoi sguardi intensi e ricolmi di… amore

Ella rise, rise o rondinelle nere che più non siete su questi cieli a ricordar la rinascita perennemente libera e liberata.

«Bene sia, siamo giunti.»

«Di nuovo non ricordo. Mai vista questa casa. Un palazzo.», bisbigliai irritato.

«Scioccherello!»

ARGONAUTA

Tutti i mondi, credenze sopite, i laghi e i fiumi affluenti, la desolazione e il pettirosso. Par semplice dire che ne sia del passato, ancor più perché s’ha da tacere sul futuro o i futuri. Il fato, codesto giullare, un saltimbanco grave e funesto, un bimbolo che giuoca a dadi – con dadi truccati! Com’è che l’Oscuro questo non lo disse? Com’è che mentì lui, colla sua vista innocente e fantasiosa? – fra gridolini di piacere, mi riservò certo non poche sorprese in quella sera di una primavera sopra la terra.

Ad aprirci fu un sorridente signore di età inoltrata, con un dente d’oro e i capelli tenuti lunghi sulle spalle. In definitiva, un orribile e truce individuo, dalla bocca sibilante: il Magretti.

«Miei cari!», ci accolse. Baciò la mia dama. A me strinse la mano con ambedue le sue, grinzose e nervose.

«Tommaso, chi è?»

«I nostri beniamini.»

«Allora non sono i Possanza.»

Una ventenne sbucò dalle spalle di Tommaso: la sua giovane moglie. Bionda platinata, abbronzata dentro e fuori, con un vestitino succinto che scopriva ben più di quanto coprisse.

«Matelda!», gridò la mia dama. E si abbracciarono.

Poi la giovane si rivolse a me: già iniziava a civettare.

Cuore, orrore! Matelda, ragazza sudicia ti considero io. Sei con questo vecchio che potrebbe essere tuo nonno in nome di un amore che non provi. Per me ne provi e quanto! Così tradisci tutta te stessa: quella che è in Tommaso, quella che sola tu ravvedi nell’imo tuo solingo, e quella che a mala pena non prorompe da questo vestitino corto, assai poco primaverile.

Sussultò certo il tuo petto quando io, pur di non doverti guardare in viso – che stravolto da una passione inesatta mi divenne fonte indicibile di ribrezzo – mi chinai a baciartelo. Sussultò, davvero, con tutta la massa del tuo seno fiorente – come adeguatamente nominarlo? Cornucopia? – e con tutti i tuoi boccoli biondi, che avresti dovuto tagliare per destare un seppur minimo interesse nelle mie iridi bruciate – quanta insistenza d’esperienza le aveva combuste e depredate – .

LA CLAUSURA MENTALE O DELLA PAZIENZA

«Fu un incidente sulla strada per il mare: una fila di quaranta ed oltre autoveicoli l’uno conficcato nell’altro. La colpa era del primo guidatore, che, per misteriose movenze interiori, ebbe ad inchiodare di colpo. Si trattava di un turco rigattiere.»

«Io che conobbi un uomo senza gambe credo di poter solo sfiorarne la tragicità dell’evento.»

Si era a tavola – una bella tavola rotonda arturiana d’ebano vergine – : io stavo fra la mia dama e la signora Possanza; di fronte a me l’innamorata Matelda ed ai suoi lati il consorte e l’energumeno simile ad un caprone peloso – un satiro, un gran dio Pan dei boschi, un montone perennemente avido di nude sensazioni per il troppo peso dei pensieri – divertissment pascaliano? –  – ovverosia il signor Possanza. 

Che dire della moglie, terza donna – la prima: il mistero alla mia destra, dal cui passato comune emergevan soli i capelli e gli occhi – la seconda: una ragazza il cui corpo e la cui anima – forse – anelavano il mio corpo e la mia anima – nel caso in cui ne esistesse una – , di questo strano essere, mezzo umano e mezzo bestiale? Una donna nel fiore di una bellezza selvaggia e raminga, un fiore sbocciato in una stagione impensabile, una sradicata donna della strada divenuta – metamorfosi naturale e sorprendente quali potevano essere le teofanie ovidiane – signora. La signora Possanza, una splendida e superba negra il cui nome mai ricorderò, il cui sorriso sembrava il dischiudersi delle cateratte del cielo, la cui mano da me baciata al nostro salutarci fremette di sdegno – non volevo allora credere: il desiderio!

(Ma, ah! La mia mano asciutta! Ah! Le mie unghie nette!)

Spesso guardava il marito con tutta la bramosia carnale che può dimorare in una donna senza renderla una orca mangiatrice d’uomini.

Il discorso si fermò, vuolsi per l’arrivo del dessert, vuolsi perché l’idea di un mezz’uomo – omminicchio – aveva riaperte ferite ancestrali.

Io, che rifiutavo di abbandonarmi alla commiserazione di me stesso, allora presi il cuore a due mani e lo trattenni. Morsi il coraggio ed ingoiai un drago intiero di vergogna:

«La mia mente non è più salda come quando ero giovane e nel pieno della speranza, sappiatelo. Ed ecco ciò,  il ricordo di tutti noi – me compreso! – mi è così opaco ed indistinto. O forse domina in me l’immagine dell’incontro oggi avuto con la mia dama, anzi no, intendevo con un uomo i cui baffi… occhi… urlare ed ascoltare… Dicevo che non ricordo di come ci conoscemmo noi tutti: una compagnia ben stranamente assortita!».

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Antonio Caiazzo
L’autore nasce nel 1977. Il romanzo nel 1997, il primo anno di università alla facoltà di Filosofia della Statale di Milano.
Laurea nel 2000, cui segue un anno da volontario nell'Esercito Italiano (Genio Ferrovieri di Castelmaggiore).
Nel mentre il volontariato in Croce Rossa (sezione di Parabiago) e l'attività teatrale con una compagnia amatoriale (metterà in scena 10 sue opere originali).
La vita lavorativa prende una svolta inaspettata: la logistica.
Ed alla formazione accademica si aggiunge la laurea in Scienze Giuridiche.
La carriera prosegue con ruoli manageriali in grandi multinazionali: da responsabile operativo a quello della formazione, fino all'approdo nella selezione del personale.
Nel 2011 arriva il titolo più affascinante e impegnativo: quello di papà.
"Cronache dal Metaverso" è il suo vecchio-primo romanzo. In realtà il secondo... ma questa è un'altra storia.
Antonio Caiazzo on FacebookAntonio Caiazzo on Instagram
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