Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
740x420 - 2024-09-09T103125.793
30%
140 copie
all´obiettivo
0
Giorni rimasti
Svuota
Quantità
Consegna prevista Giugno 2025
Bozze disponibili

È notte. Jessica, una ragazza solitaria e malinconica, accende una candela. Piange.
Stanno sparendo tutti. Non si va più a lavorare, nessuna coda al supermercato e i mezzi pubblici sono vuoti. Beh, in realtà i mezzi pubblici neanche partono perché gli autisti sono andati.
È comparsa una strana città. Lì, dove prima c’erano praterie ed alberi, ora ci sono strade e palazzi. Non c’è nessuno nelle piazze e lungo le vie, alcuni appartamenti sembravano abitati un momento fa e il centro commerciale con i suoi negozi è illuminato per nessuno; il silenzio è disturbato solamente dal ronzio dei neon. La città è chiamata Crycity: a volte si riversa per le strade un lamento che non è di questo mondo, ma che è terribilmente umano.
Jessica sta partendo per Crycity; è lì che cercherà Agnese, sua sorella. I ricordi come briciole di pane la condurranno tra le strade desolate, ad affrontare i misteri della città e le macabre conseguenze toccate a chi, come lei, ci ha provato giusto un momento prima.

Perché ho scritto questo libro?

È nato da un sogno che ho fatto. Per me era un periodo ancora più melanconico del solito. Questo sogno l’ho ripassato più volte in testa, l’ho trascritto e l’ho analizzato in seduta di psicoterapia. Poi, la mia passione per estetiche di internet come il Weirdcore e i liminal spaces (oltre al colpo di fulmine per un libro e film, Annhilation, e per un videogioco, Cry Of Fear) ha contribuito alla scenografia.
Solo, in un appartamento di un tranquillo paese delle langhe, ho iniziato a scrivere.

 

Chi pre-ordina la versione ebook avrà subito in omaggio un ebook che comprende i primi due volumi della nostra saga best seller “The Drunk Fury”.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Crycity

Il giorno in cui l’umanità collassò non fu nemmeno un giorno. Forse si trattava di qualche settimana, forse di un paio di mesi; chi può dirlo.

Non era una breaking news del telegiornale, riportata su un trafiletto in sovraimpressione e affiancata dal numero dei morti accertati e dei ritenuti dispersi – numeri che non possono mai diminuire, ma solo aumentare. Non andarono in onda servizi dove un inviato intervistava il capo della protezione civile o qualche altra figura vagamente rassicurante ed ogni tanto indicava dietro di loro un campo di fortuna con militari, forze dell’ordine, camion di pompieri ed ambulanze con le sirene blu perennemente accese. Niente di tutto questo.

Il traffico era sempre minore, le strade sempre più vuote e i parcheggi sempre più facili da trovare. Le aziende e le industrie cominciarono a chiudere, ma in silenzio; la gente rimasta andava comunque a lavorare il mattino e rincasava la sera. Gli ospedali aumentarono l’attività, forse; le sale d’aspetto erano un pochino più piene ed i medici attraversavano indaffarati il corridoio. Poi, il personale sanitario diminuì proporzionalmente ai pazienti.

Continua a leggere

Continua a leggere

Prima che la gente iniziasse a scomparire, Jessica era solita visitare sua nonna nella casa di riposo. Era un piccolo cottage dal sapore vagamente rustico; gli alberi e i prati verdi circondavano la proprietà, ma se avessi teso l’orecchio avresti sentito l’irregolare e persistente brusio del traffico sulla statale a fianco.

Ora il brusio era scomparso perché le strade erano deserte, ma quando la casa di riposo era ancora aperta e Jessica andava a visitare nonna, all’ingresso sotto il portico ad archi ci trovava sempre una vecchina sulla sedia a dondolo, che oscillava impercettibilmente con le mani sulle ginocchia. Una volta, la vecchina la fermò sulla soglia chiedendole come si misurasse l’apocalisse; all’inizio Jessica non aveva capito, ma poi rispose che all’arrivo dell’apocalisse probabilmente sarebbe suonata qualche sirena e i militari avrebbero sciamato per le strade ordinando a tutti di chiudersi in cantina. La vecchina, però, continuò come se non avesse risposto e disse che l’apocalisse si misura nei supermercati: vedi la gente che corre tra le corsie per accaparrarsi l’ultima scatoletta di tonno e che litiga davanti alle lattine di fagioli? Probabilmente c’è l’apocalisse.

Niente di tutto questo accompagnò quella sorta di apocalisse: nei supermercati la gente camminava, si portava i bambini sul carrello e prendeva il numerino per fare la coda all’angolo salumi. Poteva capitare di sentire il commesso accennare alla scomparsa del cugino e commentare l’assenteismo improvviso della collega che stava sostituendo da tre giorni, ma quando ti porgeva l’etto di prosciutto cotto imbustato la cosa finiva lì. Semplicemente, i negozi erano sempre più vuoti e quieti.

Nessuno aveva mai pensato di dare un nome a cosa stava succedendo, sui giornali o sui social; nessuno scienziato, influencer o testata giornalistica si era mai sentito in dovere di farlo, che Jessica sapesse. Perciò, lo aveva fatto lei per sé stessa. Il “Sonno”: così Jessica aveva iniziato a chiamare il collasso dell’umanità, la deplezione di persone.

Il Sonno: un nome ripetuto in testa, sussurrato e trasportato dal vento tra le lunghe spighe di grano del campo del vicino, spighe secche e andate a male perché più nessuno è venuto a raccoglierle.

Quando Jessica entrò nel minimarket, il Sole, totalmente indifferente alla scomparsa degli umani, stava terminando il suo ciclo e proiettava fasci di luce arancione; questi si intonavano con il lungo e leggero vestito floreale che lei portava.

Cominciò a spingere il carrello lungo le corsie desolate. Gli scaffali erano pochi e mezzi vuoti, ma quel posto era comodo. Le servivano solo qualche lattina di mais, carne inscatolata e del rosmarino, e poi voleva tornare in fretta a casa perché quella mattina si era svegliata con in mente una cosa: voleva giocare ad Iron Lung.

“Iron Lung”? “Polmone d’acciaio”? Cos’è, un gioco dove si vince il virus della Poliomielite? No, è un videogioco.

In Iron Lung ogni stella ed ogni pianeta abitabile, compresa la Terra, è improvvisamente sparito a seguito di un evento sconosciuto; gli unici sopravvissuti sono coloro che, al momento dell’evento, si trovavano per aria, a bordo di astronavi. Nella ricerca di un suolo abitabile, viene scoperta una luna con un oceano di sangue; il giocatore interpreta un detenuto ficcato dentro un sottomarino improvvisato e malandato, l’Iron Lung, e immerso nell’oceano rosso alla ricerca disperata di una spiegazione.

Nell’Iron Lung non ci sono telecamere o finestre, ma un singolo radar ed un pachidermico apparecchio fotografico capace di fornire approssimative istantanee dell’ignoto mondo là fuori e dei suoi terrificanti reperti. Le comunicazioni sono tagliate, il detenuto è solo. Mentre il livello di ossigeno cala vistosamente, il giocatore non ha la prospettiva di tornare vivo, né di vincere, né di comprendere: può solo collezionare inquietanti interrogativi.

Il cibo a casa stava quasi finendo; contando anche gli avanzi della sera prima sarebbe bastato per due giorni, forse. D’altro canto, il Sonno avrebbe presto bussato anche alla sua porta, l’ultima rimasta; non aveva senso caricarsi di provviste come un mulo.

Raccattò dei sacchetti al banco cassa, sotto il nastro automatico, e imbustò il tutto. Di fianco al registratore di cassa c’era un gruzzolo di monete e banconote che aveva lasciato le prime volte in cui era venuta a fare la spesa, dopo il Sonno; probabilmente non erano neanche giusti per pagare quello che prendeva, ma inizialmente non se la sentiva di prendere ed andare via come una ladra. Aveva smesso di lasciare i soldi da qualche giorno ed erano ancora lì.

Uscì con la spesa e per un attimo i raggi di sole le fecero socchiudere gli occhi. C’era una macchina di fronte al negozio, in mezzo alla strada; in tempi normali avrebbe avuto le quattro frecce che lampeggiavano, ma adesso era spenta. Posò le buste a terra, mise un piede sul cofano, mise l’altro, salì sul tettuccio e si sdraiò. Chiuse gli occhi. Il metallo della carrozzeria le scaldava la schiena.

Da quando era una ragazzina Jessica si era sempre sentita dentro ad un Iron Lung. Condannata. Isolata. Senza sapere il perché, si alzava da letto ogni mattina, nonostante tutto, nonostante il giorno prima. Sempre più condannata, sempre più sola.

Ma ora non c’era più nessuno in giro; le macchine erano abbandonate, la via vuota, il paese deserto, il mondo desolato. Se avesse deciso di urlare a squarciagola adesso, proprio ora, in cima a questa macchina, nessuno l’avrebbe giudicata; se avesse pianto nessuno l’avrebbe pregata di non piangere, porgendole patetiche rassicurazioni ed un fazzoletto.

Il Sonno aveva in piano di prenderla; tuttavia adesso, proprio ora, sarebbe potuta sparire perché l’avrebbe voluto lei stessa.

Si incamminò verso casa, il vestito che svolazzava leggero lungo la strada desolata, le braccia libere, le buste della spesa abbandonate davanti al minimarket sotto il sole.

Spalancò le mensole e aprì i cassetti per dare un’occhiata alle provviste rimaste: qualche scatoletta di tonno, fagioli, del pane raffermo appoggiato su un tovagliolo e poco altro che sarebbe durato un paio di giorni. Certo, avrebbe potuto sciacallare le provviste dei vicini, cercare qualche bombola di gas liquido nelle loro cantine o dal distributore per accendere i fornelli e cucinare qualcosa di salutare e nel frattempo avrebbe potuto curare un orto, o magari spostarsi di città in città, o stabilirsi vicino ad un fiume per coltivare un campo e cercare un manuale che spiegasse come, ma… non credeva che avrebbe fatto qualcosa di tutto ciò.

Finalmente, il buio calò anche quella sera nell’appartamento.

L’elettricità era scomparsa del tutto da qualche settimana; Jessica andava a letto con il Sole, ma spesso si svegliava la notte e non si riaddormentava più. Così accendeva una candela.

Amava le candele: ne teneva sempre una di fianco, sul comodino, e quando la accendeva e la goccia di fiamma prendeva vita, la luce calda accarezzava la camera da letto e sfiorava il corridoio fin poco dietro la porta, tremolando, crescendo e decrescendo lene come il respiro di un grosso bue.

Quella notte, di nuovo svegliatasi troppo presto, accese la sua ultima candela e zampettò verso il balcone a passi felpati, anche se in realtà non c’era nessuno che rischiasse di svegliare. Si avvicinò alla ringhiera: laggiù, a lato, c’era il bosco di faggi e roveri con le loro chiome a comporre una nuvola lambita dalla luce lunare, mentre di fronte c’era un altro bosco, quello della città vicina. Un bosco fatto di palazzi e caseggiati talora fitti, talora separati da tralci di strade; era completamente al buio, proprio come il bosco a lato. Chissà se in autunno anche i palazzi sarebbero imbruniti. Sicuramente, però, non sarebbero cresciuti: piano piano si sarebbero sgretolati diventando cumuli di macerie senza volto.

Una goccia di cera calda le cadde sul dito; la sentì scivolare e poi raddensarsi e abbracciarle la pelle, bisbigliandole: “ora hai tutte le ragioni per essere sola, va bene così!”

La luce delle candele non è propriamente artificiale. La luce di un lume non inquieta, ma nemmeno rallegra; accudisce, come un’attesa rassegnazione, come il concedersi gocce di tristezza dopo un periodo di tensione, come la realizzazione che sì, è andata male, è ufficialmente andata male, e adesso sei finalmente sollevata da ogni incarico: è finita, vai a casa.

Tornò dentro ed appoggiò la candela su di un piattino sul tavolo. Dalla borsa estrasse il suo computer portatile ed inserì la batteria che aveva tenuto staccata per le emergenze. Lo accese; la vista di un display illuminato dopo giorni e giorni di schermi spenti la folgorò.

Giocò ad Iron Lung.

Dopo circa un’ora e mezza lo finì.

Pianse. Pianse ad alta voce.

Poi, si sentì incredibilmente stanca; con i primi chiarori che accennavano ad emergere dalle finestre ed il computer che segnalava l’imminente spegnimento per la batteria scarica, si coricò sul letto e si addormentò subito.

Dormì undici, forse dodici ore di fila.

Quando si svegliò, la camera da letto era illuminata a giorno ed un intenso odore di cera permeava la stanza; su di un piattino sul comodino giaceva la candela consumata.

È qui. Fai finta di dormire, ti prego.

Qualcosa la svegliò di soprassalto: la stanza era ripiombata nel buio. Qualcuno aveva sussurrato, forse, o forse lo aveva sognato. Si era riaddormentata?

Non stava sognando: aveva un mal di testa tremendo, dietro, come un macigno di dieci tonnellate sulla nuca, e lei non aveva mai sognato di aver mal di testa.

Non vedeva nulla. L’ultima candela l’aveva bruciata e l’odore di cera era ancora vivido nella stanza. Si alzò e procedette a tentoni, guidata dal bordo del materasso e dalle vaghe sagome della stanza che emergevano nel buio come pieghe di un enorme telo nero.

Il piede sbatté contro la porta. Il dolore gli salì alla testa; senza alcun motivo, strozzò un grido di sofferenza.

Procedette lungo il corridoio, che a mano a mano si fece raggiungere da fiochi riflessi lunari. No, non è vero: non erano solo riflessi lunari. Era-

Un sussurro. Proveniva dalla cucina.

Si avvicinò, i piedi che fiutavano il pavimento, le spalle che tremavano, il respiro che faceva troppo rumore.

Un altro sussurro. L’armadio sussurrò di nuovo.

Jessica si fermò. Prese un respiro e si lanciò contro l’armadio, spalancandolo.

Vuoto. Qualche vestito appeso, scatole di scarpe impilate e poi le pareti, ma sentì di nuovo il sussurro e capì. Si fece largo tra gli abiti, fece crollare le pile di scatole e ne raccolse una in fondo.

Tirò fuori la ricetrasmittente che lei stessa aveva nascosto tempo prima. Era impostata su una trasmissione a medio raggio; ancora accovacciata, premette il push-to-talk.

«Agnese?», chiese Jessica.

Silenzio. La mano le tremava.

«Agnese? Sei tu?»

«L’abbiamo trovata», rispose una voce femminile.

«“L’abbiamo trovata”? Cioè? È lì con voi?»

La radio le scivolò via rimbalzando a terra tra le scatole e Jessica la raccattò.

«Cosa? Hai detto qualcosa?» chiese, «Agnese è lì? Passamela»

«Abbiamo capito che fine ha fatto», rispose la voce.

«Cosa vuol dire? Non posso parlarci?»

«Abbiamo capito che fine ha fatto».

Ripremette il pulsante per parlare, ma tacque. Lo rilasciò.

«Tu sei la sorella, immagino», disse la voce femminile.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

Ancora non ci sono recensioni.

Recensisci per primo “Crycity”

Condividi
Tweet
WhatsApp
Gianluca Berruti
È da quando sono piccolo che mi piace leggere. Ho provato a cimentarmi nella scrittura più volte, ma solo da qualche anno ho iniziato a considerarla con serietà, a studiare e a fare pratica per migliorarmi; ho cavato una soddisfazione nel 2023 arrivando finalista al concorso nazionale “Nero Premio”, con il racconto “Weirdcore”.
Sono ugualmente ispirato da altri media. Adoro il cinema, con registi quali Quentin Tarantino, Hirokazu e David Lynch; i videogiochi, con titoli quali Cry Of Fear, Omori e Life is Strange; la musica indie e rock; i dipinti surrealisti.
Se dovessi scegliere un genere, sarebbe l’horror. Se dovessi scegliere un approccio, sarebbe quello psicologico. Sono affascinato dalla mente; come un bambino sono stregato, ma allo stesso tempo inquietato dai suoi angoli più oscuri.
Sono all’ultimo anno dell’università di Medicina; probabilmente mi specializzerò in Psichiatria.
Gianluca Berruti on FacebookGianluca Berruti on Instagram
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors